Forse anche sull’onda dell’elezione del nuovo papa, fioriscono, in questo periodo, gli incontri/confronti tra cattolici e laici sui rapporti tra fede e ragione e sullo “spazio pubblico” da riservare (oppure no) al fenomeno religioso.
A Bari, ad esempio, si è recentemente concluso uno di questi match e sarebbe assurdo, ovviamente, tentare di individuare vincitori e sconfitti; anche perché non tutti sono convinti che, al di là della “passerella” (fatta a uso dei propri tifosi), simili eventi possano essere di una qualche effettiva utilità.
Il problema, nelle sue linee essenziali, è noto (e, probabilmente, insolubile): per chi pensa che l’intolleranza sia il tipico portato dei monoteismi, il dialogo con i non credenti o i diversamente credenti, altro non è che una finzione: un espediente tattico per ribadire il proprio credo, in chiave difensivo-proselitistica. I credenti, viceversa (o almeno, alcuni tra essi), sostengono che il (vero) fedele non possiede la verità, ma è da essa posseduto perché in interiore homine habitat veritas (resta da vedere, però, chi –e come- deve “estrarla”).
E però: se si accetta il confronto, bisogna quantomeno accettarne le regole e sottostare ad esse, quale che sia il propositum in mente retentum. E la prima regola del confronto è la libertà di critica.
Va da sé, poi, che se parliamo di regole, di libertà e di critica, non possiamo non parlare di diritto.
Bisogna però subito riflettere sul fatto che, in campo religioso, l’esercizio del diritto di critica presenta un aspetto particolare.
In effetti, nessun giudizio valutativo può esser privo di motivazione, non essendovi spazio, nel concetto di critica, per giudizi, per c.d. “intuitivi”, i quali, poi, non potrebbero che tradursi in espressioni lapidarie, in affermazioni meramente apodittiche e -va da sé, quando siano di contenuto negativo- esse potrebbero sfociare in puri e semplici insulti.
Ricorrendo a una terminologia familiare ai processualisti (e ai pratici del processo), deve naturalmente aggiungersi che la motivazione deve essere reale e non meramente apparente; è ovvio, infatti, che il ricorso ad argomenti fantasiosi, inconsistenti, non pertinenti e non concludenti altro non sarebbe che una forma di mascheramento verbale per veicolare, ancora una volta, giudizi, in realtà, non argomentati, giudizi che ben potrebbero tradursi in pure e semplici contumelie.
Orbene, se questa è la premessa, sembra alquanto arduo parlare di argomentazioni razionali, quando si tratta di fedi religiose. Le religioni istituzionalizzate (specie quelle cc.dd. “rivelate”) si fondano, appunto, su di un atto di fede e non pretendono (anzi a volte negano) che tutto possa essere spiegato razionalmente.
Per altro, per il controllo del corretto esercizio del diritto di critica, si presuppone nell’interprete un approccio di tipo decisamente relativistico.
Egli, invero, deve partire dal presupposto che a ciascuno debba essere consentito di esprimere (argomentatamente, appunto) il suo punto di vista; l’interprete, insomma, deve porsi come colui il quale ritiene che non vi siano verità pre-date cui uniformarsi, pretendendo per di più che altri si uniformino, né che vi siano persone investite di un’autorità (morale, dottrinale, disciplinare ecc.) indiscutibile.
Parlare allora di “critica religiosa”, come pure qualche Autore fa, può sembrare una patente contraddizione.
Una religione la si accetta, oppure no; e il fatto, poi, che un credo religioso e i relativi principi si basino su un atto di fede, per cui la loro spiegazione razionale può rivelarsi difficile al pari della confutazione di una diversa credenza e di diversi dettami, non autorizza certamente aggressioni verbali, prive di supporto argomentativo/dialettico e, pertanto, gratuite.
Al contrario, la peculiare natura della religione, se non si vuole sconfinare nel fanatismo, postula che, nella difesa e nella diffusione dei propri valori, il difensore e/o il “diffusore” rispettino l’altrui confessione, che pure hanno certamente il diritto di contestare (in questi termini: Cass. sez. quinta, sent. n. 12744, 7.10/3.12.1998, ric. Faraon, non massimata sul punto).
Pronunziando in merito, la Corte ritenne allora che il dettato dell’art. 2 della legge 25.3.1985 n. 121 (che assicura ai cattolici piena libertà di manifestazione del pensiero e, in particolare, al clero e ai fedeli la libertà di pubblicazione e diffusione degli atti e documenti relativi alla missione della chiesa), non potesse in alcun modo legittimare aggressioni contumeliose nei confronti di altre confessioni religiose.
Non si tratta di pura e semplice “continenza”, né –banalizzando- di buona educazione, si tratta di sostanziale riguardo verso chi ha una diversa fede o non ne ha nessuna: si tratta insomma di… rispettare gli infedeli.
Ciò detto, tuttavia, non abbiamo ancora chiarito se di critica, in senso proprio, si possa parlare.
Conviene fare un passo indietro e osservare che, a presidio della sensibilità dei credenti, sono posti alcuni divieti, penalmente sanzionati (artt. 403, 404, 405 cod.pen.), che inibiscono di offendere una confessione, attraverso l’insulto rivolto a chi la pratica; tali divieti, però, non possono essere considerati “limiti esterni” al diritto di critica in questo campo, per la buona ragione, dicevamo, che una critica di tal fatta è, a nostro parere, difficilmente ipotizzabile. Non a caso il titolo IV del libro II del codice penale è dedicato ai “delitti contro il sentimento religioso”; vale a dire che esso fa riferimento al riflesso psicologico delle convinzioni religiose, non alle convinzioni in quanto tali.
Ciò, ovviamente, non può voler significare che, in materia religiosa, il diritto di manifestare il proprio convincimento non trovi limiti. Anzi!
Invero, il palese contrasto di una tale tesi con il fondamentale principio -imprescindibile per la civile convivenza- del bilanciamento dei valori e dei diritti costituzionalmente garantiti, è sufficiente a dimostrarne l’inconsistenza (cfr. ancora la già ricordata sentenza Faraon).
Manifestare dissenso verso le altrui credenze (e verso i riti, i precetti ecc., alle stesse collegati) è, dunque, certamente possibile, ma, da un lato, per quel che si è detto, ci riesce difficile qualificare tale manifestazione come “critica”, dall’altro, si deve ribadire che ciò va fatto senza offendere la sensibilità dei credenti (quale che ne sia la religione, ovviamente).
E se l’offesa, viceversa, è consumata, non crediamo possa invocarsi, in materia di fede, la “copertura” ex art. 51 c.p.
Tanto chiarito per quel che riguarda il versante, per c.d., fideistico-teologico, va subito precisato che certamente criticabili sono (possono essere) le condotte dei rappresentanti delle religioni: i loro interventi in campo politico, sociale, culturale ecc., le prescrizioni che eventualmente pretendessero di imporre, non solo (e non tanto) ai loro fedeli, ma a tutti i consociati e, ovviamente, le res gestae dei fedeli e dei ministri dei relativi culti.
Naturalmente, in tali settori, non potranno che valere, per il corretto esercizio del diritto di critica, i tre noti criteri della rilevanza sociale, della continenza e (nei limiti che la giurisprudenza ha chiarito) della verità del presupposto fattuale dal quale la critica deve necessariamente muovere.
Al di fuori di tale ipotesi (scil. la censura mossa, non alla religione, ma ai religiosi/credenti/fedeli), più che di critica, dovremmo, forse, parlare, come si è anticipato, di dissenso rispetto all’orientamento religioso tout court, ovvero all’orientamento religioso “degli altri”.
Una cosa è certa: non più di vilipendio alla istituzione religiosa si può parlare; e non solo per il fatto che l’art. 402 cod.pen. (vilipendio della religione dello Stato) fu dichiarato incostituzionale dal Giudice delle leggi con la sentenza 508/2000, ma anche, e principalmente, perché il concetto stesso di vilipendio è correlato alla esistenza di una Istituzione, cui tutti (senza distinzione alcuna e, quindi, senza distinzione di credo religioso) siano gerarchicamente subordinati. Il vilipendio altro non è che la lesione o la messa in pericolo, attraverso la pubblica contemptio, della funzione che la Istituzione, in quanto tale, deve esercitare nei confronti dei consociati. In questo senso, il vilipendio è stretto parente della istigazione.
Ebbene, in una società democratico-liberale, ordinata costituzionalmente, una struttura religiosa (non potendo più sussistere una religione di Stato) non può definirsi una istituzione nel senso sopra indicato (potrà, ovviamente, esserlo nell’ambito del suo proprio ordinamento), perché non esercita erga omnes, e autoritativamente, il suo potere. La subordinazione, ovviamente, ha natura adesiva e volontaria.
Cancellato dal sistema il vilipendio della religione dello Stato (il ricordato art. 402 ad opera della già citata sentenza della Corte costituzionale), cancellati i delitti contro i culti ammessi nello Stato (art. 406; ad opera della legge 24.2.2006, art. 10), cancellato, in un primo tempo, nel reato di bestemmia (art. 724 cod.pen.), il riferimento ai “simboli o [al]le persone venerati nella religione di Stato” (ad opera delle sentenza della Corte costituzionale 440/1995) e, successivamente, lo stesso reato (“degradato” a illecito amministrativo, ad opera dell’art. 57 del decreto legislativo 30.12.1999, n. 507), il rilievo penale dell’offesa alla religione (alle religioni) resiste unicamente in quanto inerente alle persone che a quella confessione appartengono.
In sintesi: chi non crede deve rispettare chi crede, non ciò in cui gli altri credono.
E allora, per fare riferimento a un caso che fece scalpore qualche anno addietro (GIP Rovigo, decreto di archiviazione del 31.8.2011, nel proc. pen. 2554/09 RGNR), l’avere affisso manifesti recanti la scritta “LA CATTIVA NOTIZIA È CHE DIO NON ESISTE; QUELLA BUONA È CHE NON NE HAI BISOGNO” costituisce un fatto che non può integrare l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 403 cod.pen. (offese a una confessione religiosa, mediante vilipendio delle persone), né alcun altro reato. E ciò non perché, come ebbe a scrivere il Pubblico ministero, nella sua richiesta, l’indagato non aveva intenzione di offendere i credenti (che l’Organo dell’accusa identifica, alquanto arbitrariamente, con i soli cattolici), dunque per mancanza dell’elemento psicologico del reato (va ricordato, oltretutto, che è richiesto il solo dolo generico), ma perché la condotta in sé appare penalmente irrilevante.
Affermare la (indimostrabile) inesistenza della divinità non offende la stessa e dunque non è bestemmia (art. 724 cod.pen.); non si può, ovviamente, avere l’intenzione di offendere chi si ritiene che non esista; né la frase sopra riportata, nei termini in cui fu concepita, offende coloro che ne ritengono la (indimostrabile) esistenza.
È chiaro che qui il termine “vilipendio” (delle persone) è utilizzato per default e sta semplicemente a significare scherno, disprezzo, dileggio.
Secondo il Sostituto procuratore che all’epoca vergò la richiesta di archiviazione, il manifesto dava implicitamente del “credulone” ai fedeli, accusati, dunque, di dabbenaggine e ingenuità e quindi lesi -secondo il Pubblico ministero- “nell’intimo diritto….a sentirsi liberi di professare, anche in pubblico, la propria fede”.
Sarebbe –è il caso di osservare- una fede davvero fragile quella messa in crisi da una formuletta su di un manifesto; ma, a parte ciò, non si vede per qual motivo, se è possibile proclamare apertamente l’esistenza di Dio (senza che i non credenti si sentano offesi, supponendo di essere tacciati di idiozia, per non essere capaci di riconoscere l’evidenza), non sia possibile predicarne l’inesistenza, senza per questo ferire chi, credendo, non dovrebbe certo essere turbato da un mero flatus vocis di un dissenziente.
Anche perché, seguendo coerentemente una simile “giurisprudenza”, dovrebbero rispondere penalmente un bel numero di romanzieri, saggisti, filosofi, rockstar, scienziati, giornalisti, politici e così via, che hanno proclamato apertamente il loro ateismo o (peggio!) il loro agnosticismo.
Né il “recepimento” delle norme concordatarie nella Costituzione può alterare i termini della questione.
Al proposito (ed en passant), può essere ricordato che i giudici di legittimità (nella più volte ricordata sentenza Faraon), hanno affermato che, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale (cfr. sentenze 30/1971, 175/1973, 203/1989), anche le norme del Concordato non possono contrastare i principi fondamentali della Costituzione, i quali hanno valenza superiore e, pertanto, i diritti pattiziamente sanciti trovano un limite in quelli primari, riconosciuti dalla predetta “Carta”.
Il fatto è che, nell’applicare la legge, non rimane, nei casi dubbi, che un unico parametro interpretativo: la Costituzione, appunto (oggi integrata dalle “Carte” europee); così, quando l’art. 19 riconosce il diritto di “fare propaganda” della propria fede religiosa, “in concorrenza” con le altre, ovviamente, non può non implicare il diritto di propugnare anche la propria, eventuale mancanza di religione.
Il Pubblico ministero (in senso soggettivo) può, come è naturale, avere una sua fede religiosa (magari anche politica), ma, nello svolgimento del suo pubblico ministero (in senso oggettivo), non può essere ostacolato dalla eventuale “pubblica professione” di tale fede, attivando una sorta di obiezione di coscienza, che, in campo giudiziario, non può essere tollerata.
È nota (ma non è condivisibile) la massima di Lutero, che riteneva che i giuristi fossero cattivi cristiani; non vorremmo che qualcuno fosse portato a credere che i cristiani non possano essere buoni giuristi, perché pretendono di utilizzare le Scritture al posto della Costituzione.