Silvio, rimembri ancora
quel tempo della tua vita criminale,
quando ferocia splendea
negli occhi tuoi ridenti ma cattivi,
e tu, lieto e spassoso, il limitare
di Montecitorio salivi?
Sonavan i quieti
Apicella, e le escort d’intorno,
al tuo bancario conto,
allor che all’opre criminali intento
sedevi, assai contento
di quel preciso avvenir che in mente avevi.
E grazie all’omaggio mafioso tu solàvi
tutti, tutto il giorno.
Io i dell’Utri leggiadri
talor lasciando e le sudate porche,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i coglioni del tuo paterno uccello
porgea le chiappe al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la mia pelosa schiena.
Mirava il ciel sereno,
le ville dorate e gli orti,
e quinci Arcore da lungi, e quindi Palazzo Grazioli.
Lingua pronta a leccar non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri sboccati,
che patonze, che cori, o Silvio mio!
Quale allor ci apparia
la vita umana e la politica!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un popolo si spreme
contento e coglionato,
e tornami a doler di mia sventura.
O magistratura, o magistratura,
perché rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
condanni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da Esposito e Debenedetti combattuto e vinto,
decadevi, o tenerello. E non vedevi
il fior dei reati tuoi;
non ti molceva il core
il dolce lodo Mondadori or delle asfaltate chiome,
or degli sguardi di falchi e pitonesse lascivi;
né teco le Olgettine ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i magistrati
la giovinezza. Ahi come,
come passato sei,
caro compagno degli ultimi vent’anni,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i delitti, la corruzione, la frode, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misero, cadesti: e con la mano
la fredda porta di una cella ignuda
mostravi di lontano.