L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito sovrano del nostro paese, portandolo da A+ ad A. Stessa sorte è toccata a sette istituti di credito italiani, tra cui Intesa Sanpaolo, Bnl, Findomestic e Mediobanca.
Il governo, a partire dal premier Berlusconi, ha attaccato l’agenzia in seguito a tale decisione, definendola “politica” e dettata dalla rappresentazione negativa dell’Italia dipinta dai media. La notizia, come previsto, ha fatto il giro del mondo, legittimando chiunque abbia un interesse in merito ad esprimere un’opinione. Come accade da sempre, infatti, un declassamento del rating, che dovrebbe rappresentare un dato oggettivo, sortisce reazioni differenti a seconda della posizione che si occupa all’interno del sistema economico-istituzionale: l’opposizione lo utilizza per attaccare il governo, questo per incolpare la speculazione da parte dei mercati, che a loro volta ne beneficiano esigendo tassi d’interesse maggiori. In questo balletto di interventi, attacchi ed insulti reciproci, sembra che non tutti abbiano chiaro né cosa sia effettivamente un “rating”, né tantomeno in che modo lavorino le agenzie specializzate (Il dossier di Standard&Poor’s è leggibile tra gli allegati).
Il rating è un sistema di classificazione dei titoli di debito sulla base del rischio ad essi associato. In sostanza, si tratta di misurare la probabilità che ha un debitore di non riuscire a ripagare il proprio debito. Un esempio molto semplice può essere utile per capire il meccanismo sottostante. Un’impresa vuole reperire liquidità sui mercati, qualunque sia il motivo, attraverso l’emissione di obbligazioni: a tale scopo si affida ad un’agenzia specializzata che, dopo aver analizzato a fondo la struttura, il mercato di riferimento, la situazione macroeconomica, le prospettive future di questa azienda, le fornisce un certo “rating”, ovvero ne misura il rischio di inadempienza. Un investitore, interessato ad acquistare obbligazioni per ricavarne i frutti, legge la valutazione effettuata dall’agenzia sulla situazione di questa azienda per decidere se acquistarne o meno le obbligazioni. Se il rating è molto alto queste renderanno poco, ma il nostro investitore avrà la certezza di recuperare sia il capitale iniziale che i rendimenti. D’altra parte, in presenza di un rating molto basso, associato spesso ad una situazione finanziaria instabile, l’investitore sarà disposto a comprare le obbligazioni solamente in vista di tassi d’interesse molto alti, poiché nel caso di un improvviso fallimento dell’impresa perderebbe l’intero capitale investito. Dunque, maggiore è il rischio, maggiori devono essere gli interessi corrisposti da chi emette le obbligazioni per “convincere” gli investitori a comprarle.
Il meccanismo appena descritto può apparire come un semplice procedimento contabile: in realtà più di una volta le agenzie di rating sono finite sotto accusa per aver commesso gravi “errori” di valutazione, non sempre involontari, capaci di mettere in crisi intere economie. Il caso più eclatante dell’ultimo periodo è quello di Lehman Brothers, una delle principali banche d’investimento americane, alla quale l’agenzia Moody’s conferiva un rating di livello A2 appena una settimana prima della bancarotta che diede il via alla crisi mondiale. In Italia è rimasto famoso il caso Parmalat, la cui valutazione positiva da parte di S&P è stata addirittura oggetto di un procedimento giudiziario. Il nodo centrale della questione riguarda dunque il profilo di indipendenza delle agenzie di rating, in quanto queste potrebbero avere un interesse a camuffare le valutazioni o quantomeno ad omettere alcune informazioni rilevanti per garantire l’efficienza dei mercati. Potrebbe accadere infatti che un’agenzia “nasconda” la reale situazione finanziaria di un’impresa per un certo periodo di tempo, sufficiente affinché alcuni investitori possano vendere i titoli in loro possesso prima che il prezzo crolli definitivamente. L’informazione, insomma, è un requisito fondamentale per la speculazione: quelli che conoscono la realtà vendono, mentre chi compra si sta fidando del rating, salvo poi trovarsi con carta straccia nel giro di pochi giorni. Non è difficile immaginare, dunque, quanto tale meccanismo possa essere soggetto ad atteggiamenti collusivi, opportunistici e talvolta fraudolenti. Da un lato ci sono i grandi investitori, in grado di offrire molti milioni di euro per effettuare valutazioni e per ottenere informazioni in anticipo, dall’altro ci sono i proprietari delle imprese sotto osservazione, che finanziano direttamente le agenzie al fine di ottenere un rating. L’indipendenza, quindi, non è sempre garantita, dato che controllori e controllati, in questo tipo di operazioni, non sono sempre facili da distinguere.
Per quanto riguarda i titoli del debito pubblico, valgono gli stessi principi e gli stessi problemi descritti sopra, aggiungendo però il fatto che un errore di valutazione, in questo caso, ricade direttamente sulla testa di milioni di persone, attraverso eventuali misure fiscali volte a correggere i conti pubblici in modo da poter pagare interessi più alti. I fondamentali economici dell’Italia non sono certo incoraggianti: oggi (venerdì 23) il ministero dell’economia ha pubblicato la nota di aggiornamento al DEF di aprile (vedi articoli precedenti), rivedendo al ribasso le stime di crescita per il 2011 – 2012, rispettivamente allo 0,7% e 0,6%. Se non si produce nuova ricchezza, è improbabile che l’Italia riesca a ripagare il proprio debito, pari al 120% in rapporto al PIL, a meno di continue manovre restrittive sempre più pesanti, politicamente insostenibili. Il contesto, dunque, potrebbe in linea di massima giustificare una differenza tra gli interessi relativi ai titoli italiani rispetto agli omologhi tedeschi, ad oggi pari a circa il 4% (il cosiddetto “spread”, misurato in punti base, dove 100 pb = 1%): il debito tedesco ha rating AAA, ovvero non presenta alcun rischio di insolvenza, mentre al debito italiano è stata associata una A, che rimane comunque un punteggio medio-alto.
Anche in questo caso, tuttavia, non mancano le anomalie. Il sospetto è che le agenzie, come nel 2008, stiano agendo in modo pro ciclico rispetto alla crisi del debito che sta attraversando l’Europa. Nonostante le misure di austerità intraprese da molti governi e le pesanti iniezioni di liquidità effettuate dalla BCE per garantire stabilità al sistema finanziario, i rating dei paesi a rischio continuano a scendere inesorabilmente, incoraggiando la speculazione. Un titolo greco oggi garantisce più del 20% in interessi, costituendo una grande scommessa per gli investitori: se non fallisce, ovvero se l’Europa la salva, qualcuno guadagnerà molti miliardi. Con particolare riferimento all’Italia, si gioca sul concetto di “Too Big To Fail”: dato che la nostra economia è “troppo grande per fallire”, a meno di un cataclisma economico mondiale con tanto di esplosione dell’Euro, un rating basso garantisce un forte rendimento dei titoli praticamente senza rischi. Sembra quantomeno strano, infatti, che la stessa Standard & Poor’s attribuisca al Giappone un rating di livello AA-, visto che il debito pubblico si attesta ben oltre il 200% del PIL e la crescita ristagna ormai da decenni, senza contare gli effetti recessivi del recente terremoto.
La vera notizia di questa settimana è che i mercati non hanno reagito come ci si aspettava al declassamento dell’Italia, anche perché era stato ampiamente previsto, evidenziando senz’altro una perdita di fiducia nei confronti delle agenzie. Lo spread è aumentato, ma non di molto (circa 50 punti, superando i 400), mentre la borsa ha tenuto fino a quando la Federal Reserve, la banca centrale americana, non ha pubblicato le proprie previsioni pessimistiche sull’economia statunitense, facendo crollare i listini di tutto il mondo. L’auspicio per il futuro è che, almeno per quanto riguarda i debiti sovrani, i mercati possano modulare le proprie aspettative più sulla base dei comportamenti delle banche centrali che sulle valutazioni, spesso viziate, delle agenzie.
report_Italy_SP_sept_2011.pdf

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