L’onorevole Giuliano Cazzola, nella sua esperienza pluridecennale in materia previdenziale, sul sito sussidiario si dedica ad un’occhiuta disamina del disegno di legge Richetti, trovandovi una serie di gravi errori meritevoli della sua e della nostra censura.
Quando però si volge al mezzo prescelto per modificare la disciplina dei vitalizi, non possiamo più seguirlo. Secondo Cazzola, “agire per legge ordinaria significa che le nuove norme sono sindacabili dalla Consulta (che quasi certamente le giudicherà contrarie alla Costituzione proprio perché retroattive). Se il Parlamento avesse provveduto in regime di autodichia (ovvero in piena autonomia attraverso decisioni della Presidenza), probabilmente la Corte si sarebbe astenuta dal giudicare la delibera“.
A parte il fatto che la fiducia dell’onorevole Cazzola per la censura di costituzionalità potrebbe non essere così ben riposta: proprio venerdì scorso la Corte costituzionale ha giudicato legittimo il tetto retributivo a 240 mila euro, applicato retroattivamente (sentenza 22 marzo 2017, n. 124). Quindi intaccare i “diritti quesiti” si può, avendone ottime ragioni e purché lo si faccia in buona e debita forma.
Ma la cosa veramente sorprendente è che da un assertore così inveterato della natura previdenziale del vitalizio, venga una così disinvolta difesa del “cono d’ombra” che sottrarrebbe quel diritto allo scrutinio giurisdizionale.
In altri termini, proprio chi ritiene che le trattenute sulle indennità parlamentari siano espressione di una “retribuzione differita” dovrebbe accogliere con favore la possibilità di offrire loro una tutela giurisdizionale, quanto meno analoga a quella degli “altri” lavoratori. La sindacabilità costituzionale degli atti che incidono su questa materia dovrebbe essere quindi piena, e la veste più opportuna per tali atti non potrebbe che essere la legge.
In realtà, le mille ragioni che Cazzola oppone al disegno di legge Richetti sono tutte fondate sulla leggenda metropolitana per la quale: a) quello del politico sia un lavoro; b) come tutti i lavori, esso dia luogo – ad esaurimento delle energie lavorative – ad un trattamento previdenziale.
Già confutai quest’emerita sciocchezza su questo sito. Mi limito ad elencare, alla rinfusa: la natura onoraria della carica elettiva, che in certi casi non è incompatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa pregressa ed in altri casi comporta il collocamento in aspettativa retribuita con accantonamento previdenziale a quo; il fatto che l’indennità (nomen non casuale) non sia una retribuzione e che quindi, a fortiori, il vitalizio non possa essere considerato una sua forma differita pro quota; l’esistenza di cariche elettive che non danno luogo a vitalizio, per cui l’ente pubblico godrebbe di un arricchimento senza causa, se veramente avessero svolto un lavoro; la cessazione del mandato non è un esaurimento di energie lavorative, tant’è vero che il cursus honorum spesso prosegue (e non sempre operano divieti di cumulo con le indennità o le “pensioni” delle altre cariche elettive); ecc. ecc.
Piuttosto che librare nell’aere delle categorie giuridiche, però, mi pare dirimente l’argomento più semplice da spendere, per il pratico: la pronuncia nomofilattica. La natura non pensionistica dei vitalizi è stata già affermata dalla Cassazione per i vitalizi degli ex consiglieri regionali (che ontologicamente sono la stessa cosa dei vitalizi dei parlamentari): le ordinanze delle sezioni unite civili nn. 23467 e 14920 del 2016 hanno sottratto la cognizione dei relativi ricorsi al Giudice delle pensioni (la Corte dei conti), attribuendoli al Giudice ordinario (tribunale civile).
Sempre di diritti si tratta, beninteso: ma la loro natura previdenziale è indiretta ed annegata in una generale valenza mutualistica dell’istituto. La sua peculiare disciplina ben si concilia con un’elargizione nella disponibilità degli organi costituzionali di appartenenza, fatta salva la tutela dell’affidamento incolpevole come per un qualsiasi rapporto civilistico.
Ecco allora che tocca a noi spezzare una lancia per gli ex parlamentari: per quanto affievolito il vitalizio nella accezione nostra (e della Cassazione) può essere portato in un’Aula di giustizia. Mentre della configurazione previdenziale che ne dà Cazzola ci fa la birra, l’ex parlamentare – nel nostro “minore” diritto civilistico – troverebbe una tutela comunque efficace, rispetto alle incursioni che ha subìto finora: revoche a seguito di condanna (scelte con criteri quanto meno differenti rispetto all’articolo 28 c.p.), decurtazioni decise “in casa” a seguito di campagne mediatiche periodicamente affacciate, modifiche del regime di ingresso e di reversibilità del trattamento, ecc.
Tutte cose che, se affidate all’autodichia che l’onorevole Cazzola invoca, resterebbero nel cono d’ombra proiettato dalle “giurisdizioni domestiche”, su questioni per le quali i consiglieri regionali hanno almeno trovato un giudice ordinario (e civile). A meno che non si voglia davvero credere che i “tribunalini” amministrino giustizia anche di rango costituzionale: una scoperta (accolta con lo sconcerto della migliore dottrina) che dobbiamo alla causa Lorenzoni ed all’impacciata difesa, con cui le Camere hanno tentato di opporsi alle sue indiscutibili ragioni.