Dopo aver parlato e profetizzato la caduta a terra di Anna Oxa, segno, direbbe qualche demoniaco guaritore, che l’energia negativa è in grado davvero di fermarci oppure che chi sfida il grande fratello, nonostante il suo fragile cinismo, si logora, s’indebolisce e rischia seriamente la salute, parliamo oggi dello stato di cose della danza italiana. Uno stato non certo felice e di cui nessuno parla affatto. Come se il danzare non fosse cultura, non fosse un’energia in grado di cambiare il mondo. Di cambiare noi.
La danza, infatti, nonostante ancora molte bambine vengano iscritte alla tante scuole che affollano le nostre città e paesi, consegnate spesso alle maestre come pacchi postali a cui mettere presto un tutù, è sicuramente la sorella minore tra le arti. Povera, relegata ad un ruolo tanto ideale, tanto lontano dalla volgarità del “reale”, quanto deformato da questa tensione sentimental-estetica, la danza italiana langue sopravvivendo a questo triste mondo simile ad un cigno dimenticato in un laghetto e dedito solo a specchiarsi senza fine.
Eppure, aldilà degli accademismi, aldilà dell’eterea “durezza” di Carla Fracci o delle sonnolente produzioni interdisciplinari delle nostre stagioni liriche e dei musical tanto di moda, aldilà del commercio dei tutù e delle luci colorate che li illuminano a fine stagione, emesse dai tanti light designer (un tempo si chiamavano tecnici delle luci) che nel bene e nel male si sforzano di portare un po’ di vitalità al cigno morente (magari levassero tutti quegli inutili effetti che offuscano il meraviglioso spettacolo della “morte”), e aldilà dell’energia “coatta” del ballo televisivo, c’è stato un momento in cui anche in Italia la danza stava diventando contemporanea.
Tra gli anni settanta e gli anni ottanta, infatti, rappresentanti di una generazione cresciuta a rock e immaginazione, si sono messi ad esplorare il movimento e la sua stasi, guardando a quello che accadeva in Germania, Francia o Stati Uniti e riconoscendo di avere, come italiani, il dono della musicalità anche nel corpo. Anche nel pensiero.
Poi, dalla fine degli anni ottanta, seppure forse finanziariamente le cose sono anche migliorate con il nuovo millennio e il finanziamento pubblico, riconoscendo alcune priorità e questioni, ha tentato di organizzare meglio le modalità del suo sostegno, il paesaggio creativo, invece, si è gradualmente spento e in sintonia con tutti gli altri mestieri e professioni, le generazioni si sono scollate e con loro si è scollata la storia che ora brancola a pezzetti come un puzzle senza più una scena.
Ne parliamo con una coreografa e danzatrice, con un’organizzatrice culturale che è stata una delle protagoniste di quella stagione e che continua a lavorare senza sosta, con una tenacia e un amore che dovrebbero non solo essere riconosciuti seriamente ma che dovrebbero servire a indicare una strada ad altri mestieri e professioni, tanto spesso focalizzati solo sul dio denaro. Quel dio che sa ballare come un demonio, perdendo ad ogni passo la sua stessa forza. A meno che non lasci andare il luccichio che lo ricopre e che insegue senza sosta e faccia circolare la sua… luce.
Questa artista è Silvana Barbarini che è stata una fondatrice del Gruppo Danza Contemporanea (Genova, 1981), dell’Associazione Vera Stasi (Roma, 1985), dell’ Associazione Tuscania Teatro (Tuscania, 1997), che ha fatto parte del gruppo di studio Musica2000/Danza d’Autore (1994-96), che ha partecipato alla creazione dell’ Associazione Coreografi Autori Indipendenti (1995).
E che ha curato la direzione artistica di alcuni progetti come DANZA D’AUTORE: MEMORIE, REALTA’, PROSPETTIVE (Roma, 1994); TUSCANIA TEATRO, RESIDENZA MULTIDISCIPLINARE DELLA REGIONE LAZIO (1997-2000); TUSCANIA DANZA: SEMINARI, LABORATORI, INCONTRI, CONFERENZE (2001-oggi); PROGETTI PER LA SCENA (2012-2013).
Allora Silvana, com’è oggi la situazione della danza italiana? Mi riferisco soprattutto al mondo della danza contemporanea, del teatro danza ma anche a quello della danza moderna o classica o, ancora, a quello dei balli popolari? Mondi, naturalmente, molto lontani ma raccontaci di come si balla oggi in Italia (magari anche come lo si fa nel privato se te la senti). Mi interessa il tuo punto di vista generale, il tuo sguardo antropologico, la tua lettura del paese come coreografa e come animatrice culturale…
Da un po’ di anni vivo a Tuscania, un piccolo borgo dell’Alto Lazio. Ho un contatto quotidiano con le persone “normali” più che con la situazione della danza contemporanea italiana. Quindi partirò proprio dal privato. Credo che oggi in Italia si stia soprattutto fermi davanti a un computer. Chi si muove va in palestra o in piscina puntando a tenersi in forma.
Sono in pochi a scegliere “il ballo” come valvola di sfogo o la danza come pratica quotidiana. Negli ultimi anni mi sono resa conto di una crescita di attrazione verso il tango. Ci sono corsi ovunque. In ogni città c’è una “tangheria”. Anche la danza del ventre ha i suoi adepti, o meglio le sue adepte. Un altro fenomeno di massa è la partenza verso la Puglia alla ricerca di nottate estive di pizzica. Queste sono le scelte di chi nel movimento cerca sensualità o catarsi.
Mi è capitato di incontrare le danze popolari in contesti in cui per un motivo o per l’altro si cerca di favorire la socializzazione: scuola, gruppi misti, progetti educativi. Ma non c’è più una trasmissione di padre in figlio delle danze. Come non c’è più una trasmissione di padre in figlio dei mestieri.
Qui nella Tuscia è solo nella comunità dei pastori sardi che ti capita di vedere ballare qualcuno la sera della festa.
I giovani socializzano bevendo una birra, o meglio rompendo qualche bottiglia di birra in giro per il paese. Non credo che i ragazzi danzino. Chissà se ancora qualcuno balla in discoteca…
Il divertimento, quando c’è, mi sembra legato all’hip hop. E sorprendentemente anche in modo trasversale rispetto alle fasce di età. A un corso di hip hop oggi può iscriversi una famiglia intera.
Questo è il mondo delle persone che danzano per sé, che raramente diventano danzatori di professione e quasi mai “spettatori” di spettacoli di danza. Come animatrice culturale non mi capacito che non vadano in massa a vedere gli spettacoli (ma è così) per esempio gli studenti delle scuole di danza e delle accademie, che invece danzano per scelta e per passione.
Questa è l’idea che mi sono fatta delle scuole di danza: mondi chiusi tra un saggio di fine anno, un premio di categoria, un seminario estivo irregimentato. Giudizi. Muri a difesa di un territorio. Guerre sanguinose. Eppure ogni tanto da una scuola italiana esce un danzatore… Difficilmente un coreografo.
Credo che attualmente alle scuole si possa chiedere solo una breve formazione di base. Poi chi vuole danzare deve velocemente migrare verso i vivai delle compagnie che lavorano, partecipare alle creazioni, vivere la sua vita e nutrire la sua crescita incontrando maestri originali e altre arti.
Già. Credo che la perdita della danza e del corpo sia anche in relazione con la perdita del pensiero. Sembra un paradosso dato che la danza si nutre di depensamento, di abbandono della razionalità, celebra l’energia “corale” che può radunarsi anche in un solo corpo, eppure se non c’è il pensiero, se manca l’atto profondo del pensare, anche la danza si spegne o si riduce a divertimento, a fuga. Ma pensando a questo voglio chiederti se credi che la danza contemporanea, almeno in Italia, abbia poco “pensato”, abbia poco proposto di essere vissuta, letta anche con il pensiero.
In altre parole la danza contemporanea può soffrire o aver sofferto di una sorte di “chiusura” psichica, di una condizione un po’ immatura degli stessi danzatori e coreografi? Intendo dire che la danza contemporanea, specie quella italiana, forse ha sofferto di una timidezza che si è gradualmente strutturata, offrendo un corpo che spesso diventava il riparo per l’interprete, il luogo “tecnico” dove esiliarsi dal mondo e magari anche dalle proprie emozioni e rabbie più… pericolose. Dal pensiero sulla realtà. Che ne pensi?
Penso che chi ha la fortuna di danzare è in contatto più che altro con la vita e stabilisce una relazione intima, rispettosa e profonda con il suo corpo e con chi guarda. La rabbia? Serve soprattutto a farsi del male. Io non amo essere arrabbiata. Per fortuna non sono spesso arrabbiata. E non mi ritengo pericolosa. Vorrei essere incisiva, sintetica. Vorrei colpire nel segno. E nella creazione non mi sono mai riparata dietro la tecnica. Ho sempre cercato di seguire un filo.
Certo il tuo corpo e il tuo pensiero sono impregnati di quello che hai incontrato e praticato. E se hai praticato una tecnica questo emergerà nelle tue improvvisazioni.
La mia generazione veniva dall’astrattismo e dal concettuale. I nostri maestri sono stati Cunningham, Nikolais e tutti i postmoderni. Il teatrodanza degli anni ’80 veniva più da Carolyn Carlson che da Pina Bausch. Si parlava per immagini, ma erano più che altro visioni, immagini poetiche. Il materiale era selezionato per associazione di idee. E la costruzione drammaturgica era più concettuale che narrativa. Sceglievi una zona di indagine, trovavi materiale, creavi un’architettura che potesse contenere questo materiale.
Negli anni ’80 non mi sentivo così esiliata. Quello che facevo era inserito in un contesto chiaro. Sentivo di comunicare con il mio pubblico e sentivo l’attenzione della stampa. Adesso non so bene a chi rivolgermi quando metto in scena un’opera coreografica. Posso dire che vivo un po’ di alienazione e produco molto meno.
C’è effettivamente qualcosa che si è indebolito, che si è perso, c’è qualcosa che non si è alimentato abbastanza. Qualcosa su cui non abbiamo continuato a costruire.
La debolezza viene dalla mancanza di perseveranza. In certi casi dalla mancanza di chiarezza. O di coraggio. In realtà non c’è una regola che vale per tutti. C’è chi viene da scuole che si mordono un po’ la coda e gira a vuoto senza andare da nessuna parte.. Penso alle scuole più imprigionate in uno “stile codificato”. C’è chi non avrà mai delle carte da giocare perché non è quella la sua vocazione. Non tutti nascono autori…C’è chi fa un bel lavoro e poi si ferma. C’è invece chi a un certo punto parte come un treno e non si ferma più…
Negli anni ’80 sono partiti bene e poi sono rapidamente “entrati in crisi” tutti i gruppi nati come collettivi di lavoro, i gruppi che venivano da una scuola di pensiero più focalizzata sull’improvvisazione e sulla composizione più che sulla tecnica (penso alla spinta che hanno impresso Kathy Duck in Toscana, e Nikolais attraverso Carolyn Carlson un po’ in tutta Italia). Dopo un paio di creazioni veramente azzeccate, tutti i “collettivi” si sono smembrati. Poi è stata dura ricominciare daccapo ognuno da solo.
Tra l’altro in Italia c’è una debolezza del contesto in cui ti trovi a operare. Pochi mezzi e pochi interlocutori a tutti i livelli. Scelte bizzarre… Risulta difficile creare continuità e appuntamenti significativi con il pubblico. Questo non aiuta le cose a prendere il giusto corpo.
Per esempio adesso non sono per niente d’accordo su questa politica di esaltazione e massacro dei giovani coreografi. Forse l’investimento sui giovani andrebbe più indirizzato alla crescita dei giovani danzatori. Borse di studio per lavorare presso compagnie. Un autore trova da solo la sua strada al momento giusto e senza troppi “incentivi”. Certo bisognerebbe creare occasioni di monitoraggio e una buona produzione dovrebbe essere premiata, poter girare ed essere vista in tutto il paese. E un buono studio dovrebbe poter essere visionato e magari sostenuto da qualche centro con le spalle più larghe. Quando abbiamo visto al Forte Righi ALLEATE DISTANZE di Piera Pavanello, invitati un po’ per caso a una prova aperta, lo abbiamo sostenuto in tre. Ma poi Piera aveva più di 35 anni e quell’anno ha girato pochissimo…
Quando ho visto il film di Wenders su Pina Baush ho pensato che bisognerebbe farlo vedere a tutti i ragazzi delle scuole. Renderlo obbligatorio, magari insieme ad altri documenti realizzati nel tempo e in altri luoghi.
Perché non facciamo una battaglia seria, noi artisti ed operatori, per affermare l’importanza di un’educazione artistica autentica che radichi nelle scuole non solo la musica, la danza, il teatro, il cinema, insomma tutte le arti, ma le loro espressioni più complesse, più dedite alla ricerca, più contemporanee? Perché non facciamo una battaglia per “imporre” lo studio del linguaggo intermediale, ovvero di un linguaggio che ricerca e restituisce la contaminazione dei segni, dei linguaggi creativi anche con l’apporto delle nuove tecnologie?
Quello che dici è vitale. E non è nemmeno difficile. Come c’è un programma di letteratura, come si leggono le poesie e si studiano i classici, così si dovrebbe concepire un vero programma di storia delle arti del ‘900, da veicolare con mezzi audiovisivi, libri e incontri. Quello che trovi solo all’università e in settori molto specializzati e in poche città d’Italia (il Dams non è nemmeno dovunque), lo potresti mettere a disposizione molto prima…
Qui a Tuscania nel 2001 con Laura Delfini e Roberto Grisley abbiamo messo in mezzo la biblioteca per una serie di conferenze, con due monitor e un pianoforte dal vivo e prima avevamo invitato le scuole a una visione gratuita di Billy Elliot. Non siamo andati molto oltre, ma già ci sembrava di avere fatto una rivoluzione, con Roberto che suonava e spiegava la genesi, i passaggi, il senso della Sagra di Strawinsky e Laura che mostrava estratti di coreografie nate su quella musica, realizzate in diverse epoche per finire con la versione di Pina Bausch.
Ora con il Supercinema ristrutturato sarebbe molto facile creare un appuntamento settimanale.. a volte lo penso anch’io quando trovo su youtube pezzi di storia da cui non si può prescindere.
Se non vogliamo che a dettare legge continui a essere il gusto dei Centri Commerciali e delle Televisioni, si, bisogna creare appuntamenti diversi nelle nostre città, luoghi di riferimento, e questa tua idea di mettere al centro la scuola mi sembra molto giusta e anche praticabile.
Si io penso alle scuole, ai bambini, da cui bisogna ricominciare per ricostruire il paese. Concentrarsi molto su di loro aiuterebbe pure il nostro presente. Anche perché i Dams, le Università, sono diventate dei perfetti luoghi della pubblica ignoranza, come mi disse una volta un taxista romano lasciandomi su Viale Trastevere e additando il famigerato Ministero.
Ma continuiamo a parlarne la prossima settimana. Voglio che tu ci racconti degli anni della tua formazione e dei tuoi inizi, di come hai visto cambiare l’Italia e il mondo. Credo che andare indietro, aldilà della nostalgia (romantica o inevitabile che sia) possa servire a noi tutti per capire da dove veniamo e dove eravamo arrivati. Quale movimento avevamo cavalcato e propagato prima che questa stasi ci prendesse inesorabilmente. Magari per dubitare anche di questa stasi o inquadrarla dentro una prospettiva più consapevole e misteriosa insieme.
Sono convinto che tu potrai aiutarci a capire la meravigliosa complessità e semplicità del tempo.