Il “pasticciaccio brutto”, per dirla con un grande della letteratura, se lo avessero fatto di proposito, non sarebbe riuscito meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista).
E invece no: gli è venuto proprio così al legislatore. Non si può dire “di getto”, perché, anche in questo caso, c’è stata la solita stratificazione normativa, ma, insomma, il risultato è considerevole.
Ci riferiamo alla disciplina dei termini di durata della custodia cautelare (artt. 303, 304, 305 cpp), che una recente sentenza della Corte di cassazione (sez.ne quinta, sent. n. 30759, ud. 11.7.2012, dep. 26.7.2012, ric. Ali Sulaiman, che trova un precedente non massimato in sent. n. 9148 del 2003, ric. Reccia) ha nuovamente posto in discussione.
Si tratta della questione relativa al periodo “aggiuntivo” di sei mesi, utilizzabile per protrarre la custodia cautelare, quando si proceda per reati di particolare gravità (quelli di cui all’art. 407 comma secondo lett. a cpp); periodo che può essere imputato alla fase precedente, se non completamente utilizzato in essa, ovvero può essere sottratto alla fase successiva (art. 303 comma primo, lett b), num. 3 bis cpp).
Al proposito, il codice di rito (art. 304, comma sesto, nel testo vigente), così si esprime :”La durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303 commi primo, secondo e terzo, senza tenere conto dell’ulteriore termine previsto dall’art 303 comma primo lett. b), num. 3 bis e i termini aumentati della metà previsti dall’art. 303, comma quarto, ovvero, se più favorevole, i due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. A tal fine, la pena dell’ergastolo è equiparata alla pena massima temporanea”.
Abbiamo conosciuto prosatori più felici.
Ma che vuol dire, nello specifico, “senza tenere conto dell’ulteriore termine… ecc.”?
Le sentenze precedenti avevano sempre ritenuto che tale eventuale aumento (fino a sei mesi) dei termini di durata della custodia cautelare disposto, per la fase predibattimentale, non dovesse avere alcuna incidenza sulla durata massima della custodia medesima, ai sensi dell’art. 304, comma sesto, stesso codice, la quale durata, in nessun caso (dunque neanche con l’aggiunta dei sei mesi), potrebbe superare il doppio dei termini previsti in via ordinaria dai commi primo, secondo e terzo del citato articolo 303 (cfr. sez.ne sesta, sent. n. 15879, ud. 24.2.2004, dep. 2.4.2004, ric. PM in proc. Setola e altri, preceduta da alcune sentenze non massimate e seguita da numerose conformi, fino a sez.ne sesta, sent. n. 38671, ud. 7.10.2011, dep. 25.10.2011, ric. Amasiatu, per la quale l’applicazione del “meccanismo di recupero” sopra descritto, che –appunto- consente il prolungamento dei termini di fase, per mezzo dell’imputazione del periodo residuo a fasi diverse, non comporta l’aumento dei termini massimi di custodia fissati dall’art. 304, comma sesto, cod. proc. pen.).
Evidentemente la locuzione in questione (“senza tenere conto dell’ulteriore termine… ecc”) viene letta, nelle sentenze appena citate, nel senso: “non si deve tener conto, aggiungendolo (per stabilire quale debba essere la durata complessiva) dell’ulteriore termine” di sei mesi; quindi, se c’è il raddoppio, non può esservi l’aggiunta.
Ma l’inciso in questione può essere inteso anche nel senso :”senza tener conto (nell’operare il raddoppio) dell’ulteriore termine” di sei mesi; quindi, operato il raddoppio (senza tenere conto ecc.), poi si possono aggiungere i sei mesi (per i reati, si intende, ex art. 407 comma secondo, lett. a cpp).
A favore della prima tesi (raddoppio senza aggiunta) milita l’avverbio utilizzato dal legislatore al rigo precedente (“la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio ecc.”).
A favore della seconda tesi la sentenza della quinta sezione porta una serie di argomenti.
Vediamoli.
Argomento logico, che tiene conto della ratio della disposizione. “L’allungamento” (fino a sei mesi) è stato introdotto per consentire una adeguata dilatazione del dibattimento di primo grado (quello più impegnativo e macchinoso, per la necessità di svolgere l’istruttoria). Poiché “il tempo supplementare” viene comunque scalato, imputandolo ad altra fase processuale (“a credito”, per così dire, o “a debito”), esso non si traduce in un immotivato aggravio di sofferenza detentiva per l’imputato. Sarebbe allora illogico che, proprio per il dibattimento di primo grado, tale credito (maturato nella fase precedente) non possa essere speso, ovvero tale indebitamento (a spese della fase successiva) non possa essere riconosciuto. Per queste ragioni, il raddoppio dei termini e “l’aggiunta” dei sei mesi non sono, né logicamente, né giuridicamente, incompatibili, in quanto rispondono alla medesima ratio. In altre parole, una volta introdotto tale meccanismo di flessibilità, sarebbe illogico non farne uso lì dove esso appare più necessario.
Argomento sistematico: il limite massimo di fase (art. 304 comma sesto) attiene ai periodi di sospensione, laddove il termine aggiuntivo scatta ope legis in considerazione della particolare gravità del reato da giudicare. Tale “periodo di allungamento”, inoltre, non attiene alla fase, ma ad essa può accedere eventualmente, secondo le necessità che, di volta in volta, si possono manifestare.
Argomento letterale: l’espressione utilizzata “senza tener conto” è del tutto equivalente a quella che compare nel comma settimo dell’art. 304 del codice di rito (“nel computo del termine di cui al comma sesto, salvo che per la durata complessiva della custodia cautelare, non si tiene conto dei periodi di sospensione di cui al comma primo lettera b…”). Ebbene, in tale ultimo caso, non possono esservi dubbi circa il significato della espressione: avuto riguardo alla particolare ragione del rinvio o della sospensione, non si tiene conto del relativo arco di tempo (scil. esso non si computa) nel calcolo del termine in questione, che rimane esterno al relativo conteggio.
Argomento storico: la sentenza ricorda i lavori preparatori della novella del 2000/2001, dai quali, sostiene l’estensore, si evince con chiarezza la volontà del legislatore di mettere a disposizione del giudice del dibattimento un termine ulteriore per lo svolgimento del suo compito, impedendo, al contempo, la scarcerazione di persone imputate di reati connotati da particolare allarme sociale, “precisandosi che tale termine va sommato al termine di fase, pur se raddoppiato, anche se, a sua volta non è –ovviamente- suscettivo di raddoppio”.
Dunque, secondo la quinta sezione, la stratificazione normativa (se ne accennava prima) ha determinato l’apparente contraddizione (tra “comunque” e “senza tenere conto”), essendo intervenuti, prima, l’art. 15 delle legge 8 agosto 1995 n. 332, poi, il D.L. 24 novembre 2000 n. 341, conv. nella legge 19 gennaio 2001 n. 4, che hanno, appunto, previsto il termine aggiuntivo di sei mesi per alcuni reati. Il che ha prodotto un “dato testuale in sé oggettivamente equivoco” (così la sentenza), che si presta a letture inconciliabilmente contrastanti.
La sentenza 30759 del 2012, probabilmente, è destinata a rimanere sotto i riflettori, non solo perché appare consapevolmente “eretica”, ma anche perché viene a incidere su di una materia (la custodia cautelare) di grande rilievo, sconvolgendo certezze e calcoli (degli imputati e dei Difensori).
Il garbuglio normativo (il pasticciaccio brutto) che caratterizza la materia deve essere affrontato e, per quanto possibile, sciolto. La strada verso le Sezioni unite, probabilmente, è stata aperta.
Se alla Corte di legittimità si richiede di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” (art. 65 ord. giud.), dal legislatore si dovrebbe pretendere la chiarezza espressiva, di modo che le leggi possano essere interpretate secondo “il senso…fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse”, come prevede l’inapplicato (perché spesso inapplicabile) art. 12 delle disposizioni sulle legge in generale.
Prima della nomofilachia, viene (dovrebbe venire) la logofilachia.