Le dimissioni di Renata Polverini dalla carica di Presidente della Regione Lazio, sono arrivate lunedì, al termine di giorni di alta tensione dentro e fuori dalla giunta regionale del Lazio, che travolta dagli scandali, ha rivelato agli occhi del Paese, sempre più sofferente per gli effetti della crisi, una realtà fatta di fiumi di soldi pubblici sprecati e di una classe politica sempre più degradante. Er Batman, Ulisse, i toga party fra ancelle e maschere suine, le cene faraoniche: sono solo i dettagli grotteschi di una vicenda che farebbe anche ridere se non fosse che, mentre si chiedono sacrifici agli italiani per risanare i bilanci della cosa pubblica, i soldi per finanziare la vita spericolata di alcuni eletti dal popolo, non mancano mai.
La vicenda ha inizio dall’indagine dei Pm di Roma sui movimenti bancari di Franco Fiorito, capogruppo del Pdl alla Regione Lazio; movimenti segnalati come sospetti dalla stessa Banca di Italia. Dalle indagini emerge che Fiorito avrebbe sottratto circa un milione di euro ai fondi attribuiti al gruppo regionale del Pdl come rimborso elettorale. Saltano fuori le cene, le ville, le auto e le spese spropositate di Franco Fiorito che finisce indagato per peculato. Ma Fiorito non è la classica “mela marcia”: il quadro che si delinea è quello di una Regione in cui a partire dal presidente del Consiglio Regionale, Abruzzese (Pdl), spesso con il tacito consenso delle opposizioni, si è dato il via a un flusso spropositato di denaro pubblico piovuto sui partiti come rimborso elettorale e usato poi in maniera tutt’altro che pubblica. Per non parlare dell’esercito di collaboratori (sembra quasi tutti inutili) superpagati.
Ma il caso Lazio rischia di essere solo la punta dell’iceberg. Fra gruppi consiliari, giunte di ogni ordine e grado, commissioni, consulenze, vitalizi e indennità, le Regioni e tutti gli organi amministrativi locali, rappresentano un vero e proprio buco nero per le finanze del Paese. In Sicilia solo per le compagini del consiglio regionale si sono spesi 13,7 milioni nel 2011. Per la Lombardia 12,3 milioni. Sicilia, Lazio, Sardegna, Valle D’Aosta, Molise, Lombardia, Campania: la mappa delle folli spese delle Regioni è equamente distribuita su tutto il territorio nazionale. Un quadro inquietante che solo grazie ai recenti scandali, come il già citato laziogate, sta gradualmente venendo a conoscenza dell’opinione pubblica. Negli ultimi anni l’attenzione dei media è stata rivolta a descrivere e denunciare i privilegi e le spese del Parlamento e degli organi di governo centrali lasciando nell’ombra il fiume di finanziamenti assorbito senza sosta dagli enti locali. È il livello regionale infatti il vero centro di spesa che pesa in maniera drammatica sui nostri conti pubblici. Un dato ben noto al Governo Monti e al commissario Bondi, incaricato di esaminare il bilancio dello Stato per tagliare sperperi e spese superflue. Il dato emerso dall’indagine svolta per la spending review era proprio l’insostenibilità dei livelli di spesa degli enti locali.
Debito pubblico ed enti locali
Questa realtà, fino a qualche tempo fa poco nota, è sotto gli occhi di tutti e risulta ancora più evidente se si esamina l’andamento del debito pubblico italiano: esso esplode a partire dagli anni ’70 e continua a crescere a livelli insostenibili fino agli anni ’90 quando inizia a allentare fino ai primi anni 2000. Dal 2001 ad oggi il debito ha una nuova, incredibile esplosione passando da 1.329,607 miliardi fino a 1911,807 del 2011. La crescita storica del debito attraversa il tempo in maniera assolutamente bipartisan, quello che è evidente invece è che la spesa pubblica è aumentata a ridosso delle fasi di decentramento amministrativo più importanti: la nascita delle Regioni negli anni ’70 e le riforme in senso federalista dei 2000. È evidente dunque che qualcosa non ha funzionato nel trasferire il potere dallo Stato centrale agli enti locali. Le recenti spinte verso un assetto federale della Repubblica, lungi dal risolvere tutti i problemi italiani come si è sostenuto da più parti, hanno rappresentato l’ennesima occasione per incrementare, a suon di denaro pubblico, le tendenze localistiche e campanilistiche che caratterizzano, da sempre, il nostro Paese e ci hanno portato alla drammatica e ben nota situazione attuale delle nostre finanze pubbliche.
La nascita delle Regioni e il “sogno infranto” del federalismo
La storia delle Regioni, come organi di governo locale, inizia con l’entrata in vigore della Costituzione dell’Italia repubblicana nel 1948: l’VIII disposizione transitoria della Costituzione stabiliva che le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali dovessero essere indette entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione. Ma prima della nascita effettiva dei nuovi enti bisognava approvare tutta una serie di leggi che consentissero il passaggio di molti poteri dallo Stato centrale alle nuove autonomie locali. Il tempo necessario per varare i nuovi organi amministrativi fu però ben più lungo di quelli inizialmente previsto: le Regioni entrarono nelle storia istituzionale italiana solo a partire da 1970. Nel 1972 l’approvazione dei decreti delegati trasferiva alle Regioni alcune funzioni fondamentali che prima erano appannaggio dello Stato: assistenza scolastica, musei e biblioteche, assistenza sanitaria ed ospedaliera, trasporti, turismo, urbanistica, viabilità, istruzione artigiana e professionale. Nel 2001 ha inizio la seconda fase della regionalizzazione italiana: con la riforma del Titolo V della Costituzione (approvata dall’allora maggioranza di centrosinistra con soli quattro voti di scarto)
il lungo cammino del decentramento arriva a conclusione. La riforma ha potenziato notevolmente il ruolo delle Regioni, delle Province e dei Comuni con l’intenzione di proporre un modello amministrativo meno verticistico e centralizzato, in favore di una maggiore partecipazione degli enti locali nell’elaborazione delle politiche, così da favorire una partecipazione più ampia delle istituzioni e dei cittadini. Purtroppo l’applicazione dell’autonomia amministrativa si è rivelata, in questi anni, completamente fallimentare. Invece di un maggiore coinvolgimento dei cittadini nella gestione della cosa pubblica si è avuto l’aumento indiscriminato delle risorse pubbliche destinate agli enti locali e la moltiplicazione dei centri di spesa.
Una classe politica inetta e rapace è cresciuta, in questi anni, all’ombra del sistema delle autonomie locali, lontano dai controlli centrali e dai riflettori. In nome del federalismo e dell’autonomia delle comunità locali si è alimentato un nuovo feudalesimo, fatto di tanti piccoli e grandi signorotti locali che ben presto hanno finito per essere determinanti anche per gli equilibri dei partiti su scala nazionale, minando il sistema dalle fondamenta. La legge elettorale, il porcellum, ha poi dato il colpo di grazia ad ogni speranza di poter coinvolgere la società civile nella politica attiva. Ma certo ora cambiare la legge elettorale non è sufficiente. Una riforma delle Regioni e degli enti locali è più che urgente. Lo strapotere delle piccole corti non è più tollerabile in un momento in cui il potere centrale sta migrando sempre di più a Bruxelles gli Stati si stanno trasformando nelle nuove macro-regioni di un sistema ben più grande. Riprendere il controllo della spesa e delle politiche locali è sempre più urgente. Ma come ci si può disfare della classe dei piccoli e grandi feudatari locali pronti a stracciarsi le vesti al primo sentore di accorpamento di piccoli comuni e provincie? Innanzitutto con la trasparenza. Parola poco nota in Italia sopratutto negli enti locali.
Il diritto alla trasparenza
Un primo passo è stato fatto in questo senso contestualmente alla spending review: sul sito del Governo infatti hanno fatto la loro comparsa i primi opendata ovvero i dati relativa alle spese dello Stato (http://www.dati.gov.it/content/i-dati-aperti-sulla-spesa-pubblica). L’iniziativa applica una normativa europea (direttiva 2003/98/CE) che obbliga le pubbliche amministrazioni ad essere il più trasparenti possibili. Tuttavia se si consulta la pagina relativa alle spese delle Regioni si vede che solo cinque di esse hanno messo online una parte dei loro dati: Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana e Piemonte. La strada per realizzare una piena trasparenza della Pubblica Amministrazione è ancora molto lunga e nel frattempo converrebbe selezionare una classe politica più adatta ai tempi che corrono. Una selezione che non può venire “dall’alto”, dai vertici dei partiti troppo condizionati dalle alchimie interne, ma dal basso: a partire dai comuni e dagli enti intermedi e passando per il nodo cruciale delle Regioni. Solo con una accurata selezione e con una rieducazione complessiva del Paese alla democrazia, potremmo sperare in futuro di non rivedere in giro altri Fiorito.