Ci sono volute ricerche, dibattiti e analisi, ma ora finalmente qualcuno si azzarda a dirlo a voce volta: un’economia che dimentica “le mamme” prima o poi paga il suo debito. Come? Contraendosi anche in riferimento a quei settori solitamente considerati vitali e dinamici. Come i prodotti per l’infanzia.
Basta partire dal dato relativo al tasso di occupazione femminile italiano: uno dei più bassi dell’Unione Europea (47%), contro il 62% della media dei 27 Paesi aderenti. A determinare tale scenario poco confortante anche il mancato rientro al lavoro da parte delle neo-mamme. Tra il 2000 e il 2013 solo il 56% è tornata ad occupare il suo posto dopo la gravidanza.
Secondo un’indagine promossa da Prénatal sull’impatto della maternità sul lavoro femminile, tale esclusione è spesso l’esito di ristrutturazioni aziendali o di demansionamenti. In alcuni casi invece è la difficoltà di conciliare l’attività di cura dei figli con la professione e la mancanza di adeguati servizi di welfare a spingere l’altra metà del cielo a rinviare il rientro sul mercato del lavoro a data da destinarsi.
Alcuni mesi fa uno studio pubblicato dalla società di servizi Regus in occasione della festa della donna, e condotto su un campione di oltre 26mila tra professionisti e piccoli imprenditori di tutto il mondo, sottolineava come le condizioni per rientrare in ufficio dopo la maternità siano ancora infatti tutt’altro che propizie.
Più di un intervistato su dieci ha infatti riconosciuto non solo che la possibilità di avere un orario più elastico permetterebbe alla donna di svolgere pienamente anche il suo ruolo di madre, ma anche che collaborare da un ufficio più vicino almeno per parte dell’orario di lavoro darebbe alle aziende la possibilità di avvalersi di una forza lavoro preziosa.
In pratica la possibilità di usufruire di un orario flessibile oppure di collaborare tramite un ufficio “virtuale” permetterebbe a oltre il 90% delle donne di tutto il mondo di non dover rinunciare alla propria occupazione dopo la gravidanza. Non solo: per l’85% degli intervistati avere un asilo nido nelle vicinanze del luogo di lavoro favorirebbe il rientro delle neo mamme.
In tempi recenti, alcune analisi, oltre a soffermarsi sugli inevitabili risvolti sociali del fenomeno, ne stanno evidenziando le implicazioni economiche: il venir meno di uno stipendio all’interno del nucleo familiare può avere infatti ripercussioni importanti, soprattutto per chi risiede nelle grandi città in cui il costo della vita è più elevato rispetto ai piccoli centri.
Accade così che i consumi debbano essere rivisti al ribasso. A risentirne tuttavia non sono solo le cosiddette spese superflue, ovvero quelle legate tradizionalmente il tempo libero, ma anche beni di prima necessità.
La nota dolente è che per la prima volta dal dopoguerra, si sono ridotti i consumi legati al mondo dell’infanzia, tecnicamente indicati dal settore marketing come “baby product” (prodotti Alimentari, per la Nutrizione e per la Pulizia del bambino). Solo nel 2012 è stato stimato un calo di 89,3 milioni di euro negli acquisti.
La tendenza è talmente marcata da aver indotto il mondo delle grandi marche a cercare di capirne le ragioni attraverso il Primo Rapporto annuale sui comportamenti d’acquisto nella maternità.
L’indagine realizzata da Marketing Management, Istituto di ricerche statistiche e sondaggi di opinione, effettuato sul Panel MaterCom composto da 2000 mamme di tutta Italia con figli da 0 a 36 mesi o in stato interessante, evidenzia una riduzione degli gli acquisti del 4,3% rispetto al 2011.
Ad incidere maggiormente sulla contrazione dei consumi del settore (che complessivamente nel 2012 aveva un valore di due miliardi di euro) è il comparto alimentare (come latte artificiale, omogeneizzati, biscotti, formaggini e yogurt fresco) per il 62% del valore totale, seguito dai prodotti per la pulizia del bambino (come salviette detergenti, olio, prodotti per il bagnetto, shampoo, latte detergente, etc.) per il 13%. Il risparmio sui prodotti per la nutrizione (succhietti, biberon, tettarelle, sterilizzatori, frullatori, bavaglini, etc.) risulta invece pari al 25% del valore totale. Tra i prodotti che hanno subito un maggiore calo d’acquisto si segnalano il latte artificiale (23,7 milioni di euro in meno rispetto al 2011) e gli omogeneizzati, la cui flessione rispetto al 2011 è del 9,3% (pari a circa – 20 milioni di euro).
Se da un lato la riduzione dei consumi di latte artificiale lascia pensare a un incremento dell’allattamento al seno, così come raccomandato dai pediatri, e quindi all’adozione di pratiche considerate come più naturali, dall’altro lato tuttavia la contrazione dei consumi di alcune categoria lascia pensare a una ridotta capacità di scelta da parte delle famiglie italiane. In pratica nonostante le modalità di risparmio siano diverse da prodotto a prodotto, più in generale la strategia principale consiste nella riduzione dei consumi.
L’incremento del ricorso agli acquisti promozionali, il maggior utilizzo delle piccole marche, il ricorso all’utilizzo dei prodotti per adulti anche per i più piccoli nonché l’incremento dell’acquisto di Private Label corrispondono infatti al tentativo delle famiglie italiani di mantenere il più possibile invariato il tenore di vita nonostante le innumerevoli difficoltà.
La riduzione dei livelli di consumo, può essere letta anche come il tentativo di ridurre gli sprechi e di incrementare pratiche più sostenibili (ad esempio: utilizzo di un minor numero di salviette detergenti, di prodotti per il bagnetto, di creme e oli, riduzione del numero di cambi del pannolino, etc.).
Mediante la maggior ricerca di prezzi e/o offerte promozionali, le famiglie italiane hanno realizzato un risparmio di 23,6 milioni di euro rispetto al 2011, dei quali solo 7,3 milioni sono imputabili al comparto alimentare mentre i restanti 16,3 provengono dai comparti Pulizia e Nutrizione.
Il contesto economico di crisi generalizzata e l’esigenza di contenimento della spesa hanno favorito nel 2012 una crescita delle piccole marche. Confrontando i dati del 2011 con il 2012 si osserva come i livelli di fedeltà al Brand si stiano riducendo e contestualmente stia aumentando la preferenza per le piccole marche. Attraverso esse le famiglie italiane hanno potuto risparmiare nel 2012 circa 8 milioni di euro rispetto all’anno precedente. L’esigenza di abbandonare i “Top Brand” a favore di marche più economiche risulta trasversale al reddito familiare.
Nel 2012 i “prodotti adult” quelli dedicati appunto agli adulti hanno rappresentato circa il 27% degli acquisti complessivi relativi ai consumi dei bambini fra 0 e 36 mesi d’età, per un valore stimato di circa 537,8 milioni di euro. Il fenomeno è in crescita rispetto al 2011 (+1,4%). Il peso è risultato significativamente più elevato nell’ambito del comparto alimentare (30,2%, con il +1,5% rispetto al 2011) e mediamente più contenuto nel caso dei prodotti no-food (20,1%).
Decisamente più contenuto rispetto al fenomeno dell’adult è risultato il peso delle Private Label nell’ambito degli acquisti per i bambini da 0 a 36 mesi. Sebbene in crescita (+0,2% rispetto al 2011) il fenomeno appare di dimensioni meno significative, attestando la propria quota in valore sul 2,7% del “Totale Baby Product”, stimata in circa 53,8 milioni di euro. Il risparmio realizzato dalle famiglie italiane nel 2012 mediante lo spostamento di consumi su Private Label è di circa 1,3 milioni di euro.