I Tedeschi risalivano la Penisola, cercando di rallentare il più possibile l’inarrestabile avanzata degli Alleati, e lasciando dietro di sé solo macerie, devastazioni e lutti; quell’operazione, del resto, era stata da loro stessi definita “TERRA BRUCIATA”.
Ciò avveniva, appunto, dopo il bagno di sangue della Campania, la nascita delle prime formazioni partigiane e le città martiri che a loro devono questo riconoscimento di dolore e di sacrificio, che sintetizzo brevemente (in modo più diffuso ne parlo nel mio libro “Nola, cronaca dall’eccidio”): Nola 11 settembre, eccidio di 11 ufficiali italiani, quale asserita rappresaglia, a seguito della morte, il giorno precedente, di un ufficiale tedesco, in aperto combattimento tra opposte fazioni, da una parte, di militari e civili italiani, ormai allo stremo della sopportazione dell’arroganza e degli abusi dei militari tedeschi, ed una pattuglia di questi ultimi dall’altra, attuato dalla Divisione Göering dell’esercito tedesco, per mano del maggiore Walter Reder [che, un anno dopo, si distinguerà quale (co)autore della strage di Marzabotto; ma per i fatti di Nola non è stato mai ufficialmente riconosciuto responsabile, né processato]; il 12 settembre a Napoli furono fucilati, solo per provocare, sotto la minaccia dei mitra, l’applauso di una folla atterrita, un marinaio davanti all’entrata principale dell’Università Federico II, ed altri 4 marinai ed un finanziere davanti al Palazzo della Borsa; su quei suoli bagnati dal sangue di innocenti, furono, in seguito, inserite lapidi commemorative; 13 settembre, 14 carabinieri che si erano strenuamente battuti per 3 giorni, in difesa del Palazzo dei Telefoni, in una Napoli abbandonata alla indiscriminata e dilagante repressione dei Tedeschi, dai Generali che avrebbero dovuto difenderla, Del Tetto e Pentimalli e dal loro superiore, con sede in Potenza, Comandante d’Armata, Generale Arisio (del resto se il Re e il Governo fuggivano…), furono catturati e condotti a piedi a Teverola, nell’agro aversano, e qui trucidati, unitamente a due civili; c’è ora una scarna lapide a ricordo (v. “Tre giorni di abnegazione e sacrificio per l’Arma dei Carabinieri a Napoli” a cura di Giuseppe Chirico, presidente della ONLUS “Un ponte di Storia per l’Europa”); il 30 settembre, 25 civili furono trucidati ad Orta di Atella, in attuazione di una rappresaglia diretta a “punire” un precedente scontro tra una pattuglia tedesca e un gruppo armato di Italiani; il 7 ottobre a Bellona, la difesa, da parte di un giovane, della propria sorella che un soldato tedesco voleva stuprare, costò la vita a 54 uomini rastrellati tra i cittadini; intanto, in solo 4 giorni, tra il 28 settembre e il 1 ottobre, il popolo di Napoli aveva cacciato dalla città gli ex alleati, ormai divenuti arroganti oppressori.
Questo preludeva alla definitiva cacciata dei nazisti dalla Campania.
Ma prima di lasciare la Campania, va fatta qualche considerazione: non si possono dimenticare gli eccidi di soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi, dopo che c’erano state battaglie in campo aperto, nelle isole greche di Cefalonia tra il 22 e il 24 settembre: 5035 militari, tra cui 305 ufficiali, e di Kos, il 5 ottobre: 103 ufficiali, con l’aspro dissenso di molti militari tedeschi, vinto con la minaccia di essere, a loro volta, passati per le armi. Va detto che già dal 9 – 10 settembre focolai di ribellione, se non ancora di vera e propria resistenza, si accendevano in tutta la Penisola, in particolare nel Nord dell’Italia, “officina” di produzione industriale del Paese; tra il 10 e il 12 settembre, Milano fu occupata da Divisioni dell’Esercito tedesco, che si diedero a violenze e saccheggi. Ci furono molti giovani, cittadini morti in scontri armati e rappresaglie, i cui nomi e gli eventi sono consegnati alla Storia, nei monumentini e sulle lapidi che, in moltissime strade e piazze, sulle pareti dei palazzi e sulle mura, in modo particolare nelle zone operaie, ma non solo, illustrano il percorso attraverso il quale, la città ha ottenuto il glorioso, ma non desiderato, premio di Medaglia d’oro della Resistenza.
Non si può dimenticare che il primo crimine di guerra in assoluto, su suolo italiano, fu commesso in Sicilia, dagli Americani, ad opera del Generale Patton, a Gela, dove, il 14 luglio del ’43, 76 soldati italiani e 4 tedeschi, allora alleati, fatti prigionieri dopo una cruenta battaglia, furono trucidati, in spregio delle convenzioni internazionali e del concetto stesso di Civiltà. Né si può dimenticare che, dopo l’8 settembre l’aviazione americana, non più contrastata dalla contraerea italiana, continuò massicciamente a bombardare i territori che erano ormai sotto la sua amministrazione, e in particolare le linee ferroviarie, ipoteticamente idonee a favorire i collegamenti tra le retroguardie tedesche che si ritiravano e i loro comandi, incuranti di colpire treni su cui viaggiavano famiglie e lavoratori dell’Italia “liberata”.
A questo punto si impone una riflessione: l’odio scorreva nel sangue dei nemici di prima e dei nuovi nemici; questo era un virus che direttamente veniva diffuso dalla guerra, ma nei confronti degli Italiani c’era qualcosa di più.
C’era il DISPREZZO che un intero popolo, volente o nolente, identificato coi suoi governanti dell’ultim’ora, del ventennio precedente e, probabilmente, degli anni risalenti, caratterizzati da diffusi comportamenti indegni, vili, opportunisti (molta retorica è stata fatta intorno alla Ia Guerra Mondiale; molta consegna del silenzio ha coperto di impenetrabile buio le assurde, incredibili guerre coloniali), era riuscito a suscitare tanto nei Tedeschi, quanto negli Alleati.
Questo lascerà un segno profondo di ignominia e, correlativamente, di sangue versato, insito nel fatto stesso di “essere Italiani”, per moltissimi anni, se non per sempre, sia dentro che fuori di Italia.
Questo è il problema. Da questo dovremmo riuscire a riscattarci: il DISPREZZO di tutti, tenace e consistente in sé; eppure ne erano state commesse di azioni scellerate da parte di tutti gli altri popoli coinvolti.
Il popolo italiano non meritava, e forse ancora oggi non merita attenuanti perché AVEVA PERSO l’IDENTITA’; e ahimé, per molti versi, ancora non l’ha ritrovata.
A proposito di “disprezzo ed odio”, come dimenticare le violenze e le delazioni dei Fascisti della RSI? Essi avevano qualcosa da dimostrare ai Tedeschi e sia pure maldestramente e con forti connotazioni di vigliaccheria, ce la mettevano tutta; e come dimenticare, parallelamente, le vendette anche dei partigiani? Che approfittavano della situazione per risolvere beghe e contrasti personali, o si ergevano a detentori della verità assoluta, che comodamente facevano sì che si affermasse, né poteva affermarsi diversamente, semplicemente con l’eliminazione fisica degli avversari.
Abbandoniamo, quindi, la Campania e seguiamo la tremenda scia di sangue e terrore che lasciano dietro di sé i soldati tedeschi, carichi di odio e di disprezzo, lungo tutta la penisola, nella loro devastante ritirata; non mancando di ricordare qualche esempio di carneficina, camuffata da “buona educazione”, qua e là distribuito a pioggia dai nuovi “amici dell’Italia” che, tralasciando l’odio, al disprezzo affiancavano una certa dose di “perbenismo”, di rassicurante “conformismo”, di richiamo all’ineluttabile sorte dei “vinti”, all’affermazione del “primato” della Democrazia sulla Dittatura, forse.
Mi limiterò qui a riassumere brevemente i fatti dei quali ho potuto sapere qualcosa, fino alla fine del 1943, proprio per non incorrere nel rischio dei percorsi impossibili e tortuosi ai quali avevo fatto cenno nella precedente puntata:
23 settembre 1943 è il giorno del sacrificio di Salvo D’Acquisto a Torre di Palidoro (prov. Di Roma);
tra il 5 e il 6 ottobre del ’43 la Città di Lanciano, medaglia d’oro della resistenza, butta fuori i Tedeschi, come avevano già fatto i Napoletani, qualche giorno prima; così si ricorda sul monumento eretto in memoria di quei giorni di gloria e di riscatto;
Il 16 ottobre 1943, a Roma, già dichiarata unilateralmente, “città aperta” da Badoglio, il 14 agosto dello stesso anno, qualcosa che sa di cinico e beffardo, vengono rastrellati 1022 ebrei, già schedati grazie alle leggi razziali, e altri 1000 ancora, della cui esistenza i Tedeschi nulla sapevano, nei giorni successivi, a seguito delle delazioni dei Fascisti italiani, e deportati ad Auschwitz; solo in 15 ritorneranno alla fine della guerra.
Il 21 novembre 1943 a Pietransieri (Comune appartenente al comprensorio di Roccaraso, Prov. di L’Aquila), nel bosco di Limmari, vengono trucidate, dall’esercito tedesco, per ordine del maggiore von der Schulenburg (già resosi responsabile della strage di Matera, città che, per prima insorse contro i Tedeschi, il 21 settembre dello stesso anno), 128 persone, tra le quali nessun potenziale combattente: 60 donne, 34 bambini, tra cui 10 al di sotto dei 10 anni, uno addirittura di appena un mese, e persone anziane, con la strumentale giustificazione che “si sospettava che dessero aiuto ai partigiani”.
Fin dal 1945, la comunità locale, il giorno della ricorrenza, ripercorre lo stesso sentiero attraverso il quale le vittime raggiunsero il luogo del loro supplizio, di notte, con la “FIACCOLATA del RICORDO”.
Intanto, come ricordavo, si moltiplicavano gli atti di eroismo e di barbare repressioni, in ogni parte d’Italia, anche al Nord, che molto ancora avrebbe dovuto attendere e soffrire prima di scrollarsi di dosso il giogo degli occupanti. Il 19 settembre ’43, la città di Boves, nel Cuneese, aveva subito la prima spietata rappresaglia dei tedeschi contro la popolazione civile, quale reazione ad azioni di guerriglia dei gruppi partigiani che andavano formandosi; “trucidare tutti gli abitanti e dare alle fiamme il paese” aveva ordinato il maggiore Joachim Peiper, riuscendoci solo in parte. Una nuova rappresaglia fu scatenata dal 31 dicembre 1943 al 3 gennaio 1944.
Due medaglie d’oro, una al valor civile e una al valor militare, rispettivamente nel 1961 e nel 1963, non hanno certo costituito il premio desiderato.
Il 23 dicembre 1943, all’esito di un complicato intreccio di trattative, verdetti, compromessi ecc. fu fucilato dai Fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana, ad Erba, quale responsabile di un attentato avvenuto a Milano, Giancarlo Puecher, figlio del notaio milanese Giorgio Puecher a sua volta imprigionato e morto a Mauthausen due anni dopo.
Il successivo 28 dicembre, i Fascisti fucilarono nel poligono di tiro di Reggio Emilia i 7 fratelli Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi.
Ben poco troverai di tutto questo, e di altro ancora, mio inquieto lettore e avido di sapere, nei libri di storia.
Il vero ARMADIO della VERGOGNA non è, con tutta evidenza, a Palazzo Cesi-Gaddi, ma nelle coscienze dei responsabili della Politica Italiana del dopoguerra.
Intorno al 20 – 28 dicembre dello stesso anno può collocarsi l’inizio della battaglia di Ortona, che ebbe termine, dopo enormi distruzioni, intorno al 10 giugno del ’44. Questo valse alla città l’appellativo di Stalingrado d’Italia.
La fine del ’43 già conteneva, probabilmente, in sé, l’embrione della battaglia di Montecassino, che avrebbe avuto inizio a metà gennaio del ’44.
Quel capodanno 1944 ben pochi brindisi furono certo fatti, e ben poca allegria dovette esserci in essi. Facciamo fatica a pensarlo, abituati come siamo, ai nostri “Felice anno nuovo… un anno di gioia e di serenità… ecc.”
Di certo non si poteva sapere molto; ma col senno di poi, quello sarebbe stato un ANNO di TRANSIZIONE.
Settanta anni dopo, vaghi parallelismi si affacciano nella mia mente, sperabilmente… molto vaghi.