Alla Scala è andato in scena il Così fan tutte firmato da Claus Guth, una “nuova produzione” basata sullo spettacolo presentato a Salisburgo nel 2009. Un’opera dunque semi-importata dal festival austriaco, ma programmata assi prima che scoppiasse il caso Pereira-Salisburgo. Il regista tedesco (che ha recentemente incantato il pubblico scaligero con le sue oniriche regie della Frau ohne Schatten e di Lohengrin) ha sfrondato i riferimenti simbolici alle altre opere della trilogia dapontiana, ha eliminato le turcherie insieme a tutti i cliché accumulati nel corso della storia, evitando anche ogni volgarità, offerta dagli infiniti doppi sensi erotici di cui è punteggiato il libretto.
La sua è stata, come al solito, una lettura psicanalitica, come se le radici dell’incostanza umana, del tradimento, della seduzione amorosa, non fossero causate dall’inganno di Don Alfonso, ma dai fantasmi dell’inconscio che abitano nel profondo degli esseri umani. Assai pertinente era dunque il breve saggio di Andri Hardmeier, pubblicato nel programma di sala con il titolo Il dis-inganno degli amanti. Questo testo faceva riferimento a una lezione di Freud, Widerstand und Verdrängung (Resistenza e rimozione) che proponeva un modello spaziale della psiche, dove l’inconscio è paragonato a una grande anticamera e la coscienza al salotto: «Sulla soglia tra queste due stanze svolge le proprie mansioni un guardiano, il quale esamina e censura i singoli impulsi psichici, e li ammette nel salotto solo se gli vanno a genio […] Don Alfonso può essere visto come una sorta di guardiano alla soglia dell’inconscio, ma egli non si limita a fare distinzione fra le pulsioni ammissibili e quelle giudicate malvagie […] va oltre e apre le chiuse, facendo scendere gli altri protagonisti nei meandri più profondi e ancora ignoti della coscienza». In questo allestimento il “filosofo” Don Alfonso appariva come «una sorta di incarnazione del dubbio che tormenta, una pulce nell’orecchio degli amanti» (Guth), e insieme come un vero e proprio burattinaio, un regista che schioccando le dita apriva e chiudeva il sipario, avviava la musica, metteva in moto o congelava i personaggi sulla scena, creando così dei bellissimi fermo-immagine alternati tra le due coppie. Guth ha ambientato tutta l’azione in un bel salotto geometrico e minimalista, con due ampie balconate e una grande scalinata. Un salotto che progressivamente si apriva a un mondo di natura, con un giardino, piuttosto oscuro e inquietante, che nel primo atto si intravedeva all’esterno, e nel secondo atto invadeva il salotto, metafora di passioni umane incontrollate: «il bosco, che man mano occupa sempre più spazio sulla scena, contamina questo mondo e vi insinua contemporaneamente qualcosa di sensuale e qualcosa di minaccioso; soprattutto qualcosa che lascia tracce durature». Lo spettacolo appariva così immerso in una dimensione insieme realistica e misteriosa, popolata di fantasmi. Vi contribuiva il coro, sempre fuori scena. Ma anche i travestimenti di Guglielmo e Ferrando, che lasciavano la loro immacolata abitazione in abiti eleganti e cravatta (i costumi erano di Anna Sofie Tuma), poi ritornavano dietro due maschere africane (mostri nati dall’inconscio delle due ragazze: Fiordiligi cantava la sua aria «Come scoglio immoto resta» vagando terrorizzata per la casa, improvvisamente al buio per un black-out, con una torcia in mano), infine con abiti sporchi di fango. E con quel fango, che invadeva la casa, i quattro protagonisti sfogavano le proprie pulsioni, le delusioni, la rabbia, imbrattando le pareti immacolate del salotto. Ancora, i sensi di colpa di Fiordiligi, nella sua scena che precede il finale secondo, erano accompagnati dall’immagine di Guglielmo con una pistola puntata alla tempia. Sul podio, Daniel Barenboim sembrava assecondare molto bene questa lettura registica, cupa e amara, togliendo alla musica ogni leggerezza, ogni guizzo di commedia, ogni brio, mettendo in risalto gli squarci lirici ma sempre con inflessioni malinconiche, privilegiando i tempi lenti, cercando sempre una pasta timbrica uniforme, quasi cameristica, priva di grandi contrasti, imprimendo a tutta l’opera una grande tensione drammatica. Michele Pertusi incarnava assai bene il personaggio del Don Alfonso, burattinaio elegante, in giacca bianca e papillon, stilisticamente e tecnicamente adeguato, così come il baritono Adam Plachetka nei panni di Guglielmo, che però mancava di personalità. Rolando Villazón era invece un Ferrando decisamente fuori luogo, sguaiato vocalmente, con un emissione troppo aperta, spiritato scenicamente, sempre a gesticolare, nemmeno fosse nella Cavalleria Rusticana. Le cantanti svedesi, Maria Bengtsson e Katija Dragojevic, nei ruoli delle due ragazze, avevano voci discrete, ma molto simili, piuttosto leggere, non proprio impeccabili. Una felice sorpresa è stata la Despina di Serena Malfi, mezzosoprano casertano di indubbie potenzialità: da tenere d’occhio. Farà strada.