Non si tratta di una bufala, anche se la notizia ha suscitato una notevole ilarità nel mondo della finanza. La Corte dei Conti vorrebbe notificare a S&P, la principale agenzia di rating, la richiesta (o meglio, l’intenzione a procedere) di un risarcimento pari a 234 miliardi di Euro per una serie di presunte mistificazioni nei documenti a supporto del downgrade ricevuto dall’Italia nel 2011.
In particolare, la documentazione dell’autorità italiana rileva, tra i vari contenuti, la mancata valutazione degli asset storico-culturali nostrani, di cui l’agenzia avrebbe dovuto tener conto nel calcolo della ricchezza nazionale, che si riflette sulla capacità di ripagare il proprio debito pubblico.
Il titolo del Financial Times, che per primo ha riportato la notizia, è significativo: «L’Italia accusa S&P di non prendere in considerazione “la dolce vita”», rilevando dunque la natura eterea, se non inconsistente, di un patrimonio estremamente complesso da valutare.
Al di fuori della piccola polemica, tuttavia, la diatriba mette in luce le criticità intrinseche degli indicatori economici, riallacciandosi al filone dei beni non commerciabili, che da anni obbliga gli economisti a confrontarsi con valori e numeri non sempre omnicomprensivi.
Per comprendere la ratio della vicenda, occorre contestualizzare il ricorso all’interno del periodo storico di riferimento. Siamo nel 2011, apice della tempesta finanziaria che rischia di affondare l’Italia per via dell’imponente debito pubblico, di cui gli investitori iniziano seriamente a non fidarsi più.
Il governo Berlusconi vacilla pesantemente sotto la minaccia di fallimento proveniente dai mercati, emergono lettere “segrete” dalla BCE recapitate in agosto, mentre pochissimi mesi dopo l’esecutivo lascia il passo al nuovo premier Mario Monti, all’insegna del risanamento a tutti i costi.
Questo è il nodo centrale: al di là delle specifiche mosse dei governi citati, che ruolo hanno avuto le agenzie di rating nel determinare il cambio al vertice e la nomina di un esecutivo completamente “tecnico”?
Secondo la Corte dei Conti, la valutazione distorta della ricchezza nazionale, e quindi della capacità di ripagare il debito, ha contribuito in modo decisivo all’esplosione dello spread sui titoli di Stato.
Le successive turbolenze politiche sono dunque una diretta conseguenza di tale interpretazione, per cui il danno non sarebbe solamente pecuniario.
Si tratta di una discussione antica, che riguarda il potere della finanza (in questo caso delle agenzie di rating) di influenzare le scelte elettorali, fino a costringere un governo alle dimissioni. In sostanza, una questione di democrazia.
Alla luce dei fatti, o meglio delle supposizioni, sarebbe facile abbandonarsi alla soluzione drastica, ripudiando in toto la funzione svolta dalle agenzie nel contesto dell’economia globale.
Obiettivamente, l’economia non può fare a meno di queste entità, semplicemente perché chi investe vuole sapere qual è il livello di rischio relativo ai propri soldi, non avendo accesso o non essendo in grado di valutare adeguatamente i dati contabili di una società o, in questo caso, di un governo.
Il problema riguarda piuttosto la struttura attuale del meccanismo, bloccato in un quasi-monopolio mondiale di S&P, con un ruolo minore giocato da Moody’s e Fitch, per cui chi emette debito non può decidere liberamente a chi affidarsi.
Non bisogna dimenticare, infatti, che i governi, come le società, pagano per ottenere il rating, essendo quindi clienti dell’agenzia. La potenziale distorsione appare evidente: chi paga può tentare di influenzare la valutazione, evento che è già stato accertato in innumerevoli casi, alcuni clamorosi come quello Parmalat.
In Europa, travolta dalla crisi del debito, erano circolate voci riguardo la creazione di un’agenzia pubblica, quindi presumibilmente non guidata dalla ricerca del profitto, che potesse competere con i colossi americani: il progetto rimasto un’idea e rischia di rimanere tale, soprattutto con la lenta uscita dal dissesto.
Per tornare all’istanza sollevata dalla Corte dei Conti, a destare scalpore non è tanto l’accusa di manipolazione nei confronti di un’agenzia di rating, che peraltro ricevono centinaia di contestazioni metodologiche ogni anno, quanto piuttosto lo specifico riferimento alla storia ed alla cultura italiana, «universalmente riconosciute come fondamento dell’economia del paese».
Quantificare questo patrimonio non è certo un esercizio facile, poiché non esiste un prezzo di mercato per un bene immateriale come la “storia”.
Il fatto che i Romani abbiano costruito il Colosseo a Roma costituisce senza dubbio un valore aggiunto per la nostra economia, in termini di attrazione turistica e relativo indotto, ma l’impatto sui conti pubblici è quantomeno incerto.
Gli introiti derivanti dalle visite, infatti, sono già incorporati nei conti pubblici, essendo tali monumenti gestiti generalmente da enti locali, beni culturali o altre figure facenti capo alla pubblica amministrazione.
Se il ritorno però non supera le spese di manutenzione, come spesso accade, è chiaro che una perdita si rifletterà sul bilancio e quindi sul debito. Altro discorso vale per il valore culturale in senso lato del paese: alla base del ragionamento sembra esserci l’assunzione che l’Italia, indipendentemente dalle condizioni economiche, continuerà per sempre ad attirare visitatori e quindi a produrre ricchezza, per il solo fatto di essere, appunto, l’Italia.
Resta da discutere come mai questo settore, dal potenziale chiaramente inespresso, non riesca a generare molta più ricchezza di quanto faccia attualmente.
Potremmo essere tutti più ricchi grazie alla nostra storia? Se la risposta al quesito è affermativa, allora le responsabilità vanno cercate nella politica, nella gestione del patrimonio artistico, nella capacità di attrarre investimenti culturali.
Chiedere alle agenzie di rating di contabilizzare la cultura come garanzia per ripagare il debito pubblico sembra francamente eccessivo.
Il ragionamento, tuttavia, potrebbe assumere connotati più realistici quando si parla di indicatori alternativi, in particolare al PIL: il celebre rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi ipotizza appunto l’inclusione di nuovi parametri relativi ai beni immateriali.
Questo argomento sfiora l’utopia, vista la radicale avversione del mondo finanziario verso qualunque tipo di ampiamento concettuale degli indicatori, ma in futuro potrebbe diventare non così assurdo.
Se la cultura, la storia, perfino la tradizione potessero influenzare il PIL, o qualunque indicatore venga utilizzato per misurare il rapporto con il debito nominale, l’Italia ne trarrebbe certamente un vantaggio.
Per il momento, tuttavia, è inutile nascondersi dietro le nostre rovine archeologiche: o ci adeguiamo alle regole, non rinunciando a volerle cambiare nelle sedi opportune, oppure affondiamo lentamente.