Italia condannata per non aver tutelato il diritto a mantenere i legami familiari, sancito dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. La Corte di Strasburgo con la sentenza n. 25704/11 censura i rari incontri tra padre e figlia e l’incapacità di rendere efficace le decisioni prese dai giudici italiani.
La vicenda – La coppia si disgrega quando la bambina nata dalla relazione ha quasi tre anni. La mamma torna in provincia di Campobasso lasciando Roma e chiedendo l’affido esclusivo della figlia al Tribunale per i minorenni della Capitale, che glielo concede prevedendo però che si mantengano gli incontri con il padre due volte alla settimana, un week-end alternato senza pernottamento sino all’età di tre anni della bimba, tre giorni a Pasqua e sei giorni a Natale oltre a dieci giorni per le vacanze estive.
Iniziano da subito le difficoltà: la mamma non vuole far vedere la figlia al papà e gli incontri saltano a ripetizione. Va avanti così per anni, nonostante le ingiunzioni del giudice tutelare, nonostante l’affido della bambina ai servizi sociali, nonostante l’investitura di quegli stessi servizi sociali del compito di organizzare gli incontri. Il tempo che passa fa crescere l’ostilità della figlia nei confronti della figura genitoriale paterna, aumentata dall’ostruzionismo della mamma che, nel 2006 – tre anni dopo l’avvio della lotta tra i genitori – inizia un percorso di sostegno psicologico su indicazione del Ctu nominato dal tribunale per valutare la situazione “familiare”. Il rapporto tra padre e figlia non riesce a formarsi e nel 2011 si ricorre alla Corte di Strasburgo per violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
Le affermazioni della Corte – Per la Cedu, le decisioni dei giudici italiani sono state stereotipate, non in grado di stimolare adeguatamente il rispetto del diritto del ricorrente – il papà – a mantenere il legame con la figlia: il passare del tempo «ha avuto – si legge in sentenza – degli effetti negativi sulla possibilità di riannodare una relazione con sua figlia. […] In un caso simile, l’adeguatezza di una decisione si giudica dalla rapidità della sua messa in opera» mentre il tribunale si è limitato a constatare la violazione delle prescrizioni stabilite con i decreti e a delegare i servizi sociali all’attuazione del diritto.
Le Autorità, in altre parole, non hanno fatto tutto quanto era in loro potere, in tempi adeguati, per non pregiudicare la relazione. Da qui la condanna anche al risarcimento del danno morale, quantificato in 15mila euro, a cui se ne sommano diecimila dovuti al ricorrente come ristoro delle spese giudiziarie sostenute negli anni.
Qualche considerazione – Aldilà dei fatti, ben spiegati nella sentenza, fa impressione il numero di ricorsi al sistema giudiziario, i continui rimandi a ordinanze che non vengono attuate, le giustificazioni («mancanza di personale») apportate dai servizi sociali per spiegare l’impossibilità di organizzare quegli incontri decisi dal giudice.
Se la storia non è fatta solo di date, in casi come questi è impossibile non far caso ai tempi. Nelle statistiche se ne leggono tanti di dati sui tempi della giustizia: restano come sospesi perché ammantate dalla pretesa scientifica di ricerca che si portano dietro.
In questa sentenza, quei tempi sono la vita di un figlio conteso. Tre anni alla prima decisione, nove quando il giudice mette nero su bianco la presenza di una depressione infantile. Sei anni in cui i ricorsi al tribunale non sono serviti a mettere in primo piano le esigenze del figlio, che hanno aggiunto lavoro a un sistema congestionato e incapace di rispondere fermamente e in maniera attiva a un comportamento incapace di mantenere quel sistema di relazionalità fondamentale per lo sviluppo dell’identità umana.
Il padre diventa una persona da temere, pur essendo una mancanza intima nella vita del figlio. Si teme possa scombinare un equilibrio basato sull’annullamento dell’altro, che spezzi il binomio madre-figlia.
Una storia fatta di prassi e non di attenzione alla realtà specifica di un nucleo familiare che si disgrega e non sa più come reagire se non nella chiusura verso tutto ciò che è considerato estraneo.
Nessuna voce al figlio, che per l’Europa potrebbe addirittura ricorrere alla Corte di Strasburgo. Il sostegno psicologico, previsto per la madre, solo dopo anni si estende per ordine del giudice alla bambina, vera protagonista muta di una “qualsiasi” storia di figlia contesa visto che non c’è stato alcun avvocato “curatore del minore” a rappresentarla. Non è la prima. Non è l’ultima, purtroppo.
Ci sarebbe da pensare che molti genitori avrebbero potuto arrendersi di fronte a un sistema che risponde retoricamente alle richieste legittime, anche in sede europea, di frequentare un figlio generato in due. Escludendo tutte le altre ipotesi, quale esempio è stato dato alla bambina dei rapporti tra adulti? Quale valore alla sua persona?
Tra le riflessioni critiche andrebbe aggiunta anche quella della spesa sostenuta dal ricorrente e dai contribuenti. Ci sono le uscite di cassa per frequentare la figlia, andando da Roma a Termoli, certamente, a carico del padre. Ci sono anche i costi per ricorrere al giudice che, con i tempi della giustizia italiana, confermava il decreto precedente, investiva il servizio sociale di compiti difficili da attuare in presenza di un’aperta ostilità da parte del genitore affidatario e di una perenne carenza di personale e risorse, nominava un consulente per periziare i rapporti familiari senza mai trovare una formula risolutiva di una situazione ormai cristallizzata nello status quo.
Sono solo spunti dai quali partire per una riflessione più ampia che dal diritto di famiglia, fondamentale nella risoluzione di un qualsiasi conflitto familiare all’interno di uno Stato democratico, arrivi trasversalmente a considerare le persone che sono dietro ai fatti e come tali vi si rapporti.
Corte dei diritti dell’Uomo, causa Lombardo contro Italia, sentenza depositata il 29 gennaio 2013