L’Italia, anche in virtù di un retaggio storico, sociale e religioso, ha sempre preferito il matrimonio regolare “consacrato”, sia di fronte alla legge che di fronte alla religione.
Questa è stata la scelta del legislatore italiano, scelta che non tutte le nazioni hanno però condiviso, considerandola troppo rigorosa.
Situazione fuori dall’Italia
In numerosi Stati esteri infatti il fenomeno è stato regolato diversamente; non è difficile trovare normative che parificano il matrimonio al rapporto di convivenza, basato sulla comunione materiale e spirituale, che diviene giuridicamente rilevante, sia sotto l’aspetto sociale e patrimoniale, sia sotto il profilo dell’assistenza reciproca (così avviene per esempio in alcuni paesi africani, nell’America del Sud, ed anche in Giappone).
Al contrario invece in altre nazioni, come quelle di origine araba, la convivenza non solo non è per nulla regolamentata, ma viene prevista come reato.
Si tratta in quest’ultimo caso di applicazioni della legge che sembrano decisamente severe, anche se va ricordato come, fino a non molti anni fa, anche in Italia, la normativa era similare.
Ricordiamo infatti l’art. 560 del nostro codice penale che puniva con la reclusione fino a due anni il marito che conviveva con un’altra compagna al di fuori del rapporto coniugale.
Soltanto con una sentenza della Corte Costituzionale del 1969 tale norma veniva dichiarata illegittima, fino a giungere alla nuova normativa in tema di diritto di famiglia del 1975.
La situazione attuale
Statisticamente non vi è dubbio che i rapporti di convivenza siano non solo in netto aumento, ma oggi superino ampiamente quelli matrimoniali.
Tale fenomeno può solo parzialmente giustificarsi con una diversa visione dei valori etico-religiosi.
Certamente a parte la diversa visione morale, vi è anche da considerare una maggiore diffidenza per il matrimonio formale, a causa delle notevoli conseguenze sul piano patrimoniale ed interpersonale previste da varie normative a partire dal diritto di famiglia fino alle leggi in tema di separazione e divorzio.
In altri casi, a parte la diffidenza nei confronti del matrimonio, l’aumento delle convivenze e delle famiglie di fatto, deriva più semplicemente dalla necessità dei conviventi di conoscersi meglio e dalla mancanza di volontà di entrambi di formalizzare il rapporto di fronte alla Chiesa o all’Ufficiale di Stato Civile.
Né mancano le convivenze dovute alla semplice impossibilità di legalizzare il rapporto essendo uno, o entrambi i conviventi già coniugati o separati in attesa di divorzio.
In Europa la percentuale di coppie conviventi non sposate è più o meno simile alle coppie coniugate. In Italia i matrimoni si sono dimezzati, e si è passati da 400.000 matrimoni di circa dieci anni orsono a poco più di 200.000 del 2013 ed un numero simile è quello delle convivenze tra cui vanno però annoverate anche quelle che dopo un certo tempo vengono formalizzate nel matrimonio.
La tutela giuridica del convivente
Per quanto riguarda i diritti vicendevoli, va detto che nessuna obbligazione sussiste fra i conviventi more uxorio, mancando qualsiasi tutela giuridica in tal senso, in assenza di figli.
Il fatto che manchi una regolamentazione, comporta notevoli conseguenze nella differenziazione di una coppia sposata ed una non sposata, soprattutto nel caso di crisi nel rapporto.
Infatti, a prescindere dalla mancanza del diritto al mantenimento, all’assegnazione della casa in assenza di figli e ad ogni altra forma di tutela assistenziale, dobbiamo ricordare che anche sotto altri aspetti numerose sono le distinzioni.
Sotto il profilo fiscale per esempio, nella coppia sposata, se lavora uno dei coniugi, l’altro può risultare fiscalmente a carico ed il coniuge con il reddito da lavoro ha diritto alle detrazioni fiscali, cosa che non avviene per le coppie di fatto.
Stessa differenziazione per le spese mediche, che possono essere detratte solo dal coniuge e non dal convivente, per gli interessi del mutuo che possono essere detratti solo dall’altro coniuge, ecc.
La questione della successione
Ciò senza parlare dell’inesistenza di qualsiasi diritto ereditario per il convivente, salvo ovviamente che non sussista testamento e comunque senza poter violare le quote eventuali di legittima.
In tal caso, a differenza del coniuge, il convivente è tenuto a pagare una tassazione estremamente rilevante dell’8%, oltre per gli immobili le imposte ipocatastali, mentre per esempio per il coniuge l’abitazione destinata a prima casa è soggetta solo all’imposta a tassa fissa.
Dunque in sostanza il convivente non gode di alcuna forma sostanziale di tutela.
Va però detto che, in alcuni casi il rapporto di convivenza va preferito a quello matrimoniale, anche proprio nell’ottica della tutela dei diritti ereditari.
Ciò si verifica con frequenza, dal momento che molte coppie di conviventi, i quali hanno figli già da una precedente relazione, dopo il divorzio tendono a sposarsi tra loro.
In questo caso può accadere che, il patrimonio di uno dei due in caso di premorte, vada a finire al coniuge sposato in seconde nozze e, alla morte di questi vada infine ai figli di quest’ultimo, i quali magari erano proprio coloro che si erano opposti violentemente alla relazione extraconiugale del genitore.
Alcuni diritti marginali
Premesso dunque che il convivente non può assolutamente equipararsi al coniuge sposato, tuttavia la legge ha ritenuto, in determinati casi, di prevedere alcuni diritti in favore del convivente anche perchè la convivenza in sé per sé è tutelata dalla Costituzione ex art. 2.
Ciò si verifica innanzitutto in ambito locativo laddove la legge n.392/78 e la legge n.431/98 stabiliscono espressamente per il conduttore, convivente more uxorio, il diritto di subentrare nel rapporto locativo.
In altri casi sotto il profilo dell’assistenza sanitaria, l’art. 1 della legge n° 405 del 1975 relativa ai Consultori familiari prevede tra coloro che hanno diritto alle prestazioni, anche le coppie di fatto.
Così nell’interruzione di gravidanza (legge n° 194/78 art. 5) può partecipare al procedimento il padre del concepito e quindi anche il convivente more uxorio.
In altri casi la convivenza è considerata ai fini delle visite in carcere o in talune fattispecie particolari di adozione ex art. 44 della legge n° 184/83 e successive modifiche.
A tali normative principali vanno aggiunte alcune decisioni della Corte di Cassazione e dei Giudici di merito, che hanno riconosciuto al convivente il risarcimento del danno per morte dell’altro e ciò anche nei rapporti di convivenza omosessuale.
Di particolare interesse è la questione del rapporto lavorativo del convivente nell’azienda familiare.
Di norma, prima dell’introduzione dell’art. 230 bis del Codice Civile, la giurisprudenza riteneva che il convivente, così come il familiare, non avesse diritto alla retribuzione secondo i contratti di categoria in ragione di una presunzione di gratuità che nasceva proprio dal vincolo affettivo e di coabitazione.
Attualmente con l’introduzione dell’art. 230 bis il convivente, se riesce a dimostrare la sussistenza di un preesistente rapporto di lavoro ed il carattere di continuità della prestazione eseguita , ha diritto a partecipare agli utili dell’Azienda in modo associativo.
Da ultimo ricordiamo il recente orientamento secondo il quale i conviventi possono comunque regolamentare, con la stipula di un contratto, preferibilmente autenticato da un notaio, i rapporti patrimoniali tra loro, costituire un fondo comune per far fronte alle spese e prevedere altri accordi in tema di gestione del denaro o dell’utilizzazione della casa comune, nell’ipotesi in cui il rapporto dovesse interrompersi.