Un banale colpo di tosse, una mano portata agli occhi o alle labbra e il virus si diffonde. Se si pensa che mediamente un uomo si tocca il volto senza lavarsi prima le mani un migliaio di volte al giorno, è facile ipotizzare che basti frequentare quotidianamente luoghi pubblici per ritrovarsi appieno nella fascia di popolazione a rischio. E se l’agente patogeno è sconosciuto e particolarmente aggressivo, in un attimo la situazione da allarmante può diventare tragica.
Beth Emhoff (una Gwyneth Paltrow spigliata e indipendente) ha terminato in anticipo la trasferta di lavoro a Hong Kong, ne ha approfittato per una sosta a Chicago prima di rientrare a casa dove l’attendono il marito Mitch (un dimesso Matt Damon) e il loro figlioletto. La stanchezza sembra velare l’espressione soddisfatta della donna che ha portato a termine una buona missione e si è concessa anche un po’ di relax in compagnia dell’amante. Debolezza, mal di testa, dolori diffusi, sintomi generici dovuti probabilmente al jet leg o a un’influenza incipiente, ma non è cosi. Nel giro di una manciata di ore la situazione precipita. Beth crolla a terra in preda a convulsioni. Ricoverata d’urgenza, muore poco dopo su un lettino di terapia intensiva. Sembra inspiegabile per Mitch, che una volta a casa scopre di aver perso anche il figlioletto.
A uccidere i due è stata una malattia infettiva causata da un nuovo virus. Sars e aviaria sembrano inezie al confronto. In Contagion il riferimento storico va alla febbre spagnola che causò milioni di morti nel primo decennio del Novecento, anche se in questo caso non si tratta di una variante ma di un nuovo virus di cui si scoprirà l’origine soltanto alla fine. È dalla seconda fase del contagio che parte Steven Soderbergh per realizzare un film corale che intreccia continuamente la sfera sociale con quella privata, gli interessi pubblici con le questioni personali.
Più vicino a Traffic (con cui Soderbergh conquistò quattro Oscar) che ad America oggi di Altman o a Magnolia di Anderson; dai tempi serrati già sperimentati nella saga di Ocean’s. Il tema non è nuovo, Virus letale di Petersen ne è un esempio, Contagion però vuole essere più completo narrativamente e soprattutto è mostra una maggiore ricchezza sul piano visivo. È lì che Soderbergh gioca le sue carte migliori da regista esperto e raffinato, capace di sapienti inquadrature e sequenze e di continui tagli per imprimere fin dall’inizio un gran ritmo per passare così dall’estremo oriente agli States seguendo le prime persone infette e poi i focolai.
In una lotta contro il tempo, saranno i medici interpretati da Laurence Fishburne e Kate Winslet del Center for Desease Control e da Marion Cotillard dell’Oms a condurre le ricerche e contemporaneamente a far fronte alle emergenze.
Ricerca scientifica, interessi farmaceutici, informazione controllata e quella dei blogger, mantenimento dell’ordine pubblico e rivolte della disperazione, società occidentali privilegiate e comunità orientali bistrattate, americani ricchi e poveri, ma anche crisi matrimoniali e rapporti fra padri e figlie adolescenziali si annodano in un racconto che non intende escludere nulla e che fa del cast la sua credibilità.
Il ruolo del giornalista cinico Alan Krumwiede è affidato a Jude Law, più che collaudato ormai in parti del genere, quasi a riprendere la vecchia tradizione hollywoodiana varata ai tempi dello star system che intendeva far crescere professionalmente gli attori assegnando ruoli simili per sperimentarne le variazioni prima di affidare loro personaggi completamente diversi. Il blog reporter di Law è una certezza: si lancia in una campagna di controinformazione conscio del potere mediatico ma pure delle possibilità di drenare grosse cifre di denaro.
Alla fine, con tutti i limiti pubblici e le debolezze private, gli Stati Uniti restano sempre un grande Paese, forse il più grande, capace di far fronte alle emergenze e risolvere anche le terribili pandemie. Questo almeno a vedere il film di Soderbergh.