La Clemenza di Tito è una delle opere più belle e meno rappresentate di Mozart. L’ha messa in scena il Teatro Valli di Reggio Emilia, in un interessante allestimento di Walter Pagliaro, già presentato al Petruzzelli, e coprodotto con il Teatro Comunale di Modena. L’originale scenografia di Luigi Perego collocava tutta la vicenda all’interno di un Pantheon rovesciato (presentato sul proscenio anche in un piccolo plastico in scala), una grande architettura lignea che sembrava a primo impatto più la chiglia di una nave che una cupola rovesciata.
Niente evocava davvero l’antica Roma. Solo un gioco di tendaggi, di drappi bruciati, le luci colorate, i fumi, le lunghe corde che legavano Sesto, suggerivano le diverse scene dell’opera. I personaggi (anche loro in costumi d’epoca mozartiana, non romana) si muovevano in questo spazio con qualche impaccio, ma con una gestualità molto credibile, attenta alle sfumature psicologiche, e con un certo gusto pittorico, come nel quintetto finale del primo atto, simile a un compianto. Il regista pugliese ha voluto anche trovare un pendant tra la figura di Tito e quella di Mozart, che compose quest’opera nel 1791, l’anno della sua morte: «Dopo il Tito, Mozart dovrà scrivere ancora pochissime cose, tra cui l’ incompiuto Requiem che, come egli ebbe a dire, gli sembrava di scrivere per se stesso. Questa può essere la ragione per cui nel Tito si ha la sensazione che Mozart osservi il mondo un po’ dall’ alto, come se fosse in questo mondo ma si sentisse in parte già altrove. Mozart guarda alle umane vicende filtrate attraverso una sensibilità che lo porta quasi a identificarsi con Tito. Ecco perché la mia sensazione di regista, di fantasia se vogliamo, è che Tito fosse in parte Mozart stesso. A me e ai miei collaboratori è sembrato che la storia del Tito potesse essere intesa, detto molto schematicamente, come quella di un uomo stanco del potere, che egli detesta nei suoi modi arcigni, e che sogna in realtà una società più artistica, quasi una ‘teatrocrazia’. Alla fine, tutto si armonizza nella musica, e per questo abbiamo immaginato che lo scettro di Tito fosse una bacchetta da direttore d’orchestra, che potesse rimettere tutto insieme come in un grande sogno».
Un cast di cantanti giovani (e bravi)
L’ottima Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna era diretta da Eric Hull con un piglio scattante e nervoso. Una lettura molto nitida, con uno stacco di tempi ben calibrato, capace di cogliere insieme la vitalità e l’espressività sentimentale di questa partitura. Il cast, di giovani cantanti, affrontava con sicurezza e perizia tecnica i vari ruoli, tutti molto impegnativi. Il Tito di Paolo Fanale, tenore lirico dalla voce timbrata e squillante, dimostrava la sua esperienza nei ruoli mozartiani e l’ottima tecnica vocale. La voce copiosa e brunita di Teresa Romano dava a Vitellia una grande forza drammatica, da vera eroina, piena di personalità. Gabriella Sborgi era un Sesto molto tormentato, Aurora Faggioli nei panni di Annio incantava con le sue agili volute, Ruzan Mantashyan era una Servilia candida, con la voce sempre a fuoco, Valeriu Caradja interpretava con grande autorevolezza il ruolo di Publio.
Dal Metropolitan alla Scala
Negli stessi giorni il Teatro alla Scala, spesso al centro di polemiche per l’audacia delle scelte registiche, proponeva invece un allestimento molto tradizionale della Lucia di Lammermoor, una produzione ripresa dal Metropolitan e firmata da Mary Zimmerman. L’elegante scenografia di Daniel Ostling giocava su raffinati effetti di luci e controluci, su belle scene di natura, con radure, declivi, boschi dai rami secchi, su trasformazioni a vista dello spazio scenico, ad esempio nel grande salone del secondo atto, che all’inizio appariva triste e polveroso, con tende lacere e mobilia ricoperta di teli bianchi, poi d’emblée prendeva vita con piante e lampadari illuminati. Anche la regista si sforzava di inserire qualche invenzione sfiziosa: come la ballerina biancovestita che si aggirava nel bosco, il sestetto trasformato in una foto di gruppo (con un fotografo indaffarato a trovare l’inquadratura giusta), la scena della pazzia nella quale Lucia veniva soccorsa da un dottore, pronto a praticarle un’iniezione con un’enorme siringa, la scena finale dove la protagonista appariva come un fantasma che accoglieva tra le sue braccia Edgardo suicida. Tutte trovate dal gusto discutibile, e svincolate da una precisa visione drammaturgica. E nell’insieme la regia appariva così tradizionale da essere noiosa. Di qualità invece, la parte musicale. Sul podio, Pier Giorgio Morandi si è dimostrato un ottimo conoscitore del melodramma italiano e di Donizetti, e si è ammirata la sua capacità di seguire sempre da vicino i percorsi vocali, in ogni snodo drammatico ed espressivo. Albina Shagimuratova, soprano russo di coloratura, sfoggiava una tecnica sopraffina, un controllo perfetto dell’emissione, una voce piena sfumature dinamiche, ma dal timbro schiacciato e davvero poco espressiva. Al contrario Vittorio Grigolo quasi eccedeva in espressività, caricava di pathos ogni frase di Edgardo (e anche la gestualità), trasformandolo in un personaggio verista.