Un'immagine dal film Via Appia, di Paolo De Falco

Gli articoli che Golem ha dedicato, in questi ultimi mesi, alla “questione cinematografica” in Italia e, in particolare, al ruolo che hanno progressivamente assunto le Film Commission, hanno costituito l’occasione, qualche tempo fa, per uno scambio di considerazioni con l’attore e regista Paolo De Falco. Da questo confronto – un tempo sarebbe stato un epistolario, oggi è stato un assai più evanescente scambio di email – è nata l’idea di una rubrica che fosse una sorta di diario di viaggio, interiore oltre che oggettivo, più che nel mondo del cinema o della cultura, nel codice genetico che rende (dovrebbe rendere) il mondo capace di generare cultura.
Da questa settimana offriamo ai lettori questa rubrica. Abbiamo pensato di chiedere all’autore, Paolo De Falco, di far precedere la puntata d’esordio da una premessa complessiva.

Il mio desiderio sarebbe non tanto di parlare di cinema o del clima culturale italiano, del suo stato di salute o malattia, quanto di scrivere come potrebbe scrivere un esploratore che si è perso dentro un paesaggio familiare.
L’idea di vagare cominciando “a perdere conoscenza”, a perdere intimità con un territorio e i suoi rituali, a favore di un’estraneità stimolante e seduttiva, mi sembra, infatti, una possibilità importante.
Forse sto parlando di una condizione metafisica e non tanto politica o geografica, di un’illusione un po’ vana e irraggiungibile ma ciò che auspico a me stesso, oggi, per continuare a vivere e lavorare qui, è quello di trovare, appunto, uno stato di smarrimento, di abbandono fertile. Di lucidità disponibile alla domanda e alla meraviglia, perfino.
Certo è, che il desiderio di osservare il mondo non può essere contenuto ed espresso, mi verrebbe da dire meglio, placato o risucchiato, dalla denuncia costante, dalla lamentela o dall’invettiva.
Né la nostalgia (cosciente o incosciente) e lo specchiamento narcisistico (anche quello generoso e creativo) mi sembra possano rappresentare una risposta significativa di fronte alla realtà.

Se osservare vuol dire restare aperti, darsi del tempo, quello che propongo a me e ai lettori è un punto di vista in movimento.
Una documentazione intellettuale che riflette nella misura in cui prova a cercare gli strati di un paesaggio.
A seguirne le tracce nell’ignoto, sia passato che futuro.
Non vorrei apparire criptico ma sento che questo movimento deve avvenire soprattutto nel tempo, più che nello spazio. L’epoca di obliò nella quale viviamo ci ha fortemente indebolito, ma se ci scandalizziamo ancora, se veramente lo scandalo ci scolpisce e a me, purtroppo, mi scolpisce molto, bisogna che esso non ci faccia perdere la capacità-volontà di sentire le sfumature. Quelle sfumature che si nascondono nel tempo e che ci possono aiutare, forse, a dissolvere la stessa tirannia del tempo; lasciandoci meno arroccati nella difesa di una “posizione” unica, meno convinti e deboli di fronte all’assedio del presente.

Quello che è avvenuto e continua ad avvenire nella cultura italiana (ma anche all’estero) è non soltanto questa riduzione sbrigativa e autoritaria per cui la forma è divenuta sostanza, il mezzo è diventato il fine, ma la rimozione di alcuni fenomeni-eventi-persone che hanno messo in campo (o cercano, nonostante tutto, di farlo ancora) una complessità sottile e rispettosa.
Forse la democrazia sta non tanto nell’efficienza di regole sociali trasparenti ed egualitarie ma nella creatività di un paesaggio, appunto. Nel grado di umanità degli esseri che la costituiscono. Intendo dire che quanto più gli uomini si pongono in una prospettiva di ricerca e aprono i livelli della comunicazione, tanto più contribuiscono a creare un terreno in grado di sostenere complessità e movimento. Dunque partecipazione. Rendendo semplice la complessità.
Ovviamente questo è possibile se lo sguardo è ampio e se ci si pone in una relazione problematica con il potere. E parlo di potere a tutti i livelli.

Per questo la mia esplorazione, nonostante desidererei non avesse punti di partenza o peggio ancora tesi da svolgere, credo che si orienterà attraverso una bussola tarata su una stella decisiva per la nostra monotona rotazione.
Qual è, oggi, il rapporto degli uomini di cultura con il potere? Come si pongono, nel quotidiano e nello straordinario, rispetto, non tanto, a chi detiene il comando politico od economico ma di fronte alla propria volontà e possibilità?
Sappiamo cosa è successo affinché la nostra società diventasse così conformista ma poco, forse, abbiamo indagato nel privato, per capire.

Insomma quello che (le propongo) vorrei proporre è una finestra aperta o semichiusa da cui guardare non solo il cinema o le associazioni di stampo culturale, quanto l’animo italiano, il suo stato di libertà o di prigionia, misurandone la temperatura attraverso “riflessioni” e spostamenti nel tempo.
Non solo cinema, dunque, ma anche teatro, danza, arte visiva, letteratura, musica, calcio, televisione, pubblicità, educazione, drammaturgia del paesaggio e altro.
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Ogni tanto, sempre troppo raramente a mio parere, si parla della fuga dei cervelli dall’Italia.
Si citano ricercatori nel campo della medicina, della scienza, al limite professori universitari che, appunto, altrove ricevono adeguati riconoscimenti economici e morali. Però, le categorie professionali considerate, non si “allargano” molto e mai, o quasi mai, si considerano altri mestieri, altri ricercatori come, per esempio, gli artisti, se non come pretesti per un gossip dalla sfumatura seriosa e senza alcun approfondimento: il tale regista lavora in America e là fa film miliardari, con star e veri mezzi, e là, gli americani, comprendono il suo talento, la sua creatività tutta italiana etc…

Che cosa sia questa creatività, questo talento, ormai non ce lo si chiede più: forse perché riflettere sulla nostra identità vorrebbe dire riflettere anche sulla nostra storia e questo non è tanto vietato quanto sembra diventato una specie di tabù. Anzi, peggio di un tabù, un tabù non riconosciuto.

Un meccanismo di auto censura inconscio e piuttosto potente.
Perché siamo così impegnati a vivere il presente (pur non vivendolo)? E non siamo collegati con ciò che ci siamo lasciati alle spalle, sia nelle nostre storie individuali che in quelle collettive?
Eppure, molte persone, magari ogni tanto, il passato lo citano, lo ricordano e confrontano, con le condizioni di oggi. A volte, restando intrappolati in una strana nostalgia, altre, prendendo forza da questo confronto per dirsi e dire che il mondo è cambiato, che ora…
Ma, citare o ricordare, la differenza può essere minima, non è, appunto, costruire sul passato. Può voler dire molto spesso omaggiarlo, celebrarlo, ripeterlo, con il segreto desiderio, però, di distruggerlo, prova ne è il bisogno di contenerlo, relegarlo, appunto, ad una forma. Perfino, forse, quella del racconto.

Non sono un fautore della storia, del suo significato o della sua funzione e dunque mi trovo in una condizione assai strana che è quella di difendere ciò da cui si vorrebbe fuggire.
Se oggi sembriamo, sempre più, uomini senza storia o senza una storia, anche se, fortunatamente la vita è in grado ancora di offrire un disegno magico ad ognuno di noi, questo non ci ha portato ancora, io credo, ad una condizione aperta di smarrimento, ad un naufragio in grado di ricondurci al sentimento dell’infinita possibilità. Così vaghiamo in una luce accecante che, a differenza del buio o della nebbia, non ci permette ancora di immaginare, come un tempo.

Abbiamo scoperto tutto? E’ questo il motivo della nostra brutale condizione? O la storia ci ha così deluso da non permetterci di essere più né i suoi ammiratori né i suoi detrattori. Del resto non c’è nulla di più inutile del ribellarsi a qualcosa che non ha più potere su di noi.

Non è tanto la questione di ammettere quanto la storia non sia una magistra vitae, di smascherarla nella sua insensatezza, ad averci portato verso la disillusione, ma quanto, forse, l’incapacità di vedere il presente come qualcosa di inesistente. Abbiamo creduto troppo al tempo, ai suoi diktat e questo paradossalmente ci ha portato a perderlo (nel senso, semplice, di perdere il tempo, di non usarlo più), staccandoci da quella materia che più di qualsiasi altra è in grado di unirci. Lo spazio, infatti, è un contenitore attivo, certo, ma senza il vento del tempo, che è dentro di noi, esso langue, come una pianta senza acqua. Prova n’è che la fotografia, l’arte più metafisica e profonda, è rimasto il linguaggio più potente che siamo in grado di ricevere. E questo perché, l’assenza del tempo, è la condizione più forte per la sua presenza. Nulla esiste tranne ciò che non esiste, dice Macbeth a sé, di fronte alla tentazione di uccidere il re, ovvero il tempo, per giungere ad un potere che non potrà mai lasciarlo in pace.
Così, ora, in questo inverno del nostro affanno, sotto questo bel sole di York, dove l’azione sembra esserci preclusa, mentre guardiamo il mondo scomparire sotto le sue stesse luci, cosa possiamo fare, se non desiderare una deriva diversa?

Se della fuga degli artisti non ci si accorge, magari, è perché di loro non ci si accorge neanche in casa. Essi sono diventati, del resto, come dei sopramobili che abbelliscono l’ambiente, lo rendono più piacevole ma non sembrano necessari né all’areazione né all’uso effettivo dello spazio che viviamo. Tuttavia, non è mia intenzione difendere la categoria di cui farei parte. Tutt’altro!
O, meglio, esprimere quella vaga e diffusissima sindrome d’abbandono che, appunto, aleggia costante nella mentalità dei protagonisti del mondo culturale. Mi spiego: si può ascoltare con costanza la loro lamentela a non essere considerati sufficientemente importanti, all’assenza di considerazione della loro rilevanza nei meccanismi economici, (tra tutti il famoso PIL) che regolano la vita sociale.

Per questo la frase recente … “con la cultura non si mangia” è esattamente la frase di un geniale sadico che, riconosciuta la debolezza della sua vittima, mette il dito elegantemente nella piaga, magari volgendo pure lo sguardo altrove per non dargli tanta importanza!
Ed ecco che, immancabilmente, essa libera l’atavico bisogno di attenzione e le voci si alzano fiere per protestare e dimostrare che l’industria culturale, invece, produce tanto, che grandi sono i numeri e che insomma l’Italia deve investire e riconoscere l’importanza dei suoi sopramobili.

Artaud diceva che “bisogna scagliarsi contro le vittime”, non tanto perché esse sono le prime responsabili della loro condizione ma perché, se si indirizza le energie contro se stessi (implicitamente ammettendo di essere tutti vittime del mondo), forse si può generare una reazione fruttuosa, un desiderio di elevarsi, di migliorarsi e riscattarsi.

Eppure, quanto è rischioso questo desiderio artaudiano e soprattutto quanto appare utopico e perfino crudele, un ammonimento altezzoso e inutile, considerando che le persone o meglio le vittime (che forse non sono a pieno delle persone) tendono generalmente a farsi del male, a restare immobili proprio perché non riescono a vedersi o, se si vedono, si deprimono e basta.
Insomma sto parlando di quella fatidica parola che si chiama autostima, senza la quale ogni attentato contro se stessi diventa non una pratica fruttuosa e liberatrice ma un’azione inutile quanto un omicidio su un corpo già morto.

Ma perché parlo di questa sindrome d’abbandono? Proverò a mettere a fuoco una questione che non è solo delicata ma che può essere osservata, credo, da tanti punti di vista. Per questo, del resto, appare significativa e per questo, allo stesso tempo, essa è poco indagata. La complessità, si sa, è bandita dalla comunicazione contemporanea, tutta protesa a restituire le notizie del mondo e non il mondo che si cerca nella notizia; certamente smarrendo, in quest’ansia di prestazione, un piacere e un gusto che avvicinerebbe, invece, gli uomini e le donne, non solo alla bellezza degli opposti, alla luce e al buio, di cui abbiamo così bisogno, ma, in definitiva, a quel meccanismo semplice, primitivo, che c’è tra il soggetto e la realtà che lo circonda. Quel legame stratificato eppure immediato, che prevede la sua capacità di riconoscere il mondo e dunque di restituirlo.
E viceversa.

Cosa può esserci dietro una paura dell’abbandono? L’abbandono, naturalmente. Eppure, l’umanità ha riconosciuto e amato abbastanza i suoi artisti e poeti, certamente più di quanto abbia saputo fare con i contadini, i magistrati o i benzinai che nel passato si potevano chiamare carbonai. Prova questo, dunque, di una loro atavica insaziabilità o spiccato egocentrismo? Forse, ma sta di fatto che questa famosa tendenza della personalità è diventata patrimonio comune di questi tempi e che il viver civile sembra diventato una pista da scontro dove delle monadi impazzite si aggirano continuamente urtandosi.

La ragione di ciò non sta, solo, in una perduta capacità di ascolto (di sé e degli altri) o nel fatto che il mondo si è molto rimpicciolito, ma nella considerazione che, magari, non possono esserci più vittime in un mondo in cui tutti si sentono vittime. In un mondo dove fondamentalmente, si passa il tempo ad incor(o)narsi o si resta immobili come tori feriti.

Certo la mia è un’esagerazione, ci sono tante persone che vivono serenamente e serenamente mangiano, lavorano, vanno a dormire, senza, quindi, soffrire più di tanto di senso d’abbandono o di claustrofobia. O magari di noia.
Ma questa pacatezza, quest’apparente equilibrio, è poi così reale? O si tratta solo, il più delle volte, di una patina, una maschera sotto la quale nascondere l’insostenibile pesantezza dell’essere?
Non voglio addentrarmi in analisi sociologiche e psichiche che del resto persone più competenti di me potrebbero compiere ma, semplicemente, auspico che si abbia ancora desiderio di osservare l’uomo (contemporaneo o meno) alle prese con la vita e di riflettere su ciò che gli accade. O non accade. In questo, mettendo al centro ancora l’umanità che si specchia e non che si scruta.

In questo nostro inverno, infatti, siamo arrivati a guardarci come se ci si dovesse rubare l’anima uno con l’altro. Tutto è dentro la palude del sospetto. Forse avevano ragione, gli indiani, a temere che lo “sguardo meccanico” potesse rubare l’anima delle persone. Vedendo come esso sia entrato nello sguardo sanguigno, come l’implicita violenza della macchina che riprende, la sua capacità di trarre immagini e pezzi di tempo, abbia cambiato il nostro coefficiente di rappresentazione, il nostro approccio all’altro, la loro paura appare, oggi, non solo giustificata ma anche, forse, la prima intuizione del declino del mondo moderno. Mi rendo conto che, essendo io un cineasta, questa considerazione può apparire insolita, ma il punto non è il guardarsi in sé o il puntare lo sguardo sull’altro, ma il farlo senza sospetto. Senza paura. O, peggio, con il pathos della retorica, del finto amore, che riduce solo gli uomini a personaggi senza densità, rubandogli, appunto, l’anima.

La macchina, che in sé non ha un’anima ma solo una disposizione, non ha fatto altro che aiutare gli uomini a perdersi, visto che la loro tentazione più segreta forse era proprio quella di non essere… uomini. O di non essere, semplicemente. In questo tendendo al Dio, magari.

Se, quindi, dietro al senso di abbandono c’è l’abbandono dell’umanità, se il mondo appare come una nave deserta-stracolma e in preda al panico, se riconosciamo che gli artisti o più in generale chi si occupa di cultura, (di “senso” si sarebbe detto un tempo, oppure di coraggio), appare troppo in balia del mondo, immerso nello stesso disordine, allora dobbiamo riconoscere che, dietro questa mancanza, questa debolezza di coloro i quali, un tempo, nel caos, sapevano vedere e farsi- dare coraggio, forse si nasconde qualcos’altro.
Se, poi, osserviamo che, nella folla, chi si alza ogni tanto a scrutare, sotto, il mare, più che l’orizzonte, lontano, premessa, però, fondamentale per capire dove si sta andando, sono, invece, i lucidi economisti, i quali, dal posto più sicuro della nave, a bassa voce e un po’ tra loro, sentenziano con autorevolezza sulle manovre da fare… allora possiamo chiederci: perché gli artisti o gli uomini e le donne di cultura, naturalmente nella loro dimensione generale, sembrano sempre più interessati solo ad avvicinarsi alla cabina di guida, al luogo dove apparentemente si raduna il potere, e non alzano invece lo sguardo, fieramente, verso l’orizzonte o il buio che assedia la nave, per captare qualche segnale, magari anche solo un flebile scorcio di paradiso perduto o mai trovato? Già, la fierezza… forse essa si è dissolta perché manca lo scheletro che la può sostenere, perché manca l’autostima? E, dunque, dietro la voglia di attenzione o il senso d’abbandono di cui si è parlato, ci potrebbe essere anche o proprio, un coefficiente basso di autostima?
Se fosse così, però, perché gli artisti etc. si stimerebbero poco? L’arte è la cartina al tornasole dell’umanità, si dice: quindi, se gli uomini si stimano poco in generale, gli artisti lo evidenzieranno in modo più acuto…
Ovviamente bisogna considerare che l’autostima è tutt’altra cosa dalla presunzione.

Sempre in questo nostro inverno, quanta presunzione si è sviluppata! Credo che tutti possano essersi accorti di ciò: le persone, specie in Italia, credono di sapere, di essere, e sotto nascondono un buco di fragilità che è diventato una voragine.
A parte la condizione generale dell’umanità, credo che bisognerebbe, allora, davvero indagare dentro questa poca autostima degli uomini di cultura. Mi piacerebbe occuparmene e sto pensando ad un film che assuma in sé questa ricerca. Ogni ricerca è un viaggio ed esso è vero e proficuo quanto più è capace di restare aperto, di non partire già con delle certezze.

Tuttavia, prima di chiudere questo mio articolo, che apre questa rubrica dedicata al paesaggio culturale italiano, e dunque anche alla questione autostima, vorrei aggiungere qualche considerazione che mi sembra doverosa e purtroppo “certa”. Nessun movimento o partito e nessun “intellettuale” parla seriamente della questione culturale del nostro paese. Del resto per raggiungere una “serietà” c’è bisogno, forse, di una partecipazione diffusa. Non voglio dire che il percorso di riflessione solitario non possa raggiungere livelli di serietà. Anzi, credo che sia il contrario e che come scriveva Kafka “… non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta…. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te». Ma, qui, intendo, per serietà, quel meccanismo, quella temperatura che scaturisce da un processo di verifica allargato, condiviso, capace di chiamare le coscienze e le esperienze a dare un contributo significativo. Sappiamo, del resto, che questo è il vero problema dell’Italia: l’incapacità a saper costruire insieme, dentro una prospettiva “scientifica” che poi vuol dire, semplicemente, avere o cercare un metodo, mettendoci impegno e senso della responsabilità. Riconoscendo quindi che, alla fine, il vero metodo è proprio l’impegno, la base senza la quale ogni altro strumento può risultare vano.

Per questo ho deciso, insieme al Direttore Ormanni, di “aprire” questa rubrica a contributi che non vengano solo dalla mia esperienza e percezione, che del resto rischiano di essere offuscate, appesantite, non tanto da un pessimismo radicato, quanto da una amarezza rabbiosa. Per questo incontrerò, come in un viaggio, altre figure e personalità con cui riflettere e confrontarmi, offrendo un processo, spero, dialettico e intenso, che possa dare un contributo concreto per la costruzione di uno scenario diverso nel paese.

Perché è innegabile che, come si diceva all’inizio, si parla della questione culturale solo per richiamare attenzione e finanziamenti e mai per dire come e perché in Italia sia avvenuto un tale disastro culturale. Aldilà delle colpe, fin troppo facili, del Berlusconismo. Per accorgersi di quanto, dagli anni sessanta in poi, il processo di scolarizzazione e di conoscenza si sia rallentato e deteriorato. Distaccandosi progressivamente dai dati del resto d’Europa.

I dati del saggio di Tullio De Mauro lo dimostrano ampiamente, semmai ci fosse bisogno di un saggio per rendersene conto.
Le persone (o le vittime) non sanno più scrivere, far di conto, organizzare un pensiero, ricevere una metafora. I giovani universitari non conoscono niente di quello che studiano. Fanno esami con poche pagine e nella più totale assenza-incapacità di collegamento tra le materie o tra le materie e la vita. Nelle relazioni affettive, nello sport, in ogni campo, regna la totale superficialità, la confusione, che sono le conseguenze, appunto, di una debolezza cognitiva, di una incapacità all’organizzazione oggettiva di un pensiero. L’andamento delle cose umane è in mano alle oscillazioni di un io sempre più debole e sempre più arrogante. Del resto solo una “struttura” forte è in grado di aprirsi, di ricevere e resistere alla critica del mondo esterno. Di usarla per il suo sviluppo. Le strutture deboli non possono che scappare mentre incornano all’impazzata; oppure restare ferme a mostrare le ferite, come se queste fossero la sola prova di umanità che gli resta sul corpo.
E nel frattempo la scienza cosa fa? Sembra concentrarsi, astrarsi più del solito, forse, tutta racchiusa ad occuparsi di altro, anche se quest’altro non sembra ancora la creazione di una nuova vita.

Così, in questo scenario patologico, mentre Berlusconi va da Santoro (e non Santoro da Berlusconi) e si parla di tasse, magistrati e ristoranti pieni e a nessuno viene in mente di chiedere perché il paese è diventato così ignorante, mentre Grasso scrive che di Gaber preferiva la parte più passionale, imprevedibile, incontenibile a dispetto di quella segnata dal sodalizio con Luporini che lo caricava di un peso e di un tono predicatorio, mentre dovunque, e non solo al Maxxi di Roma, si censurano quelle poche opere creative che cercano, forse, una riflessione seria e complessa e mentre i professori di ogni ordine e genere si seggono comodamente sui loro divani davanti alla tv perfino ignorando che i teatri, le sale cinematografiche, le gallerie (ufficiali e alternative) etc, si stanno svuotando come panini senza salame (anche e soprattutto di dibattito e di cervelli, non solo di numeri), mentre, insomma, aspettiamo il ritorno del Messia, del Duce o del postino e le pensioni mantengono calmi i giovani, ecco che il confronto politico cammina sull’acqua delle elezioni.

Milioni di parole che si rincorrono col vento dell’inverno, senza fermarsi nell’aria.
Tra poco ci sarà una scuola e un separè, una matita e un foglio, dove poter segnare qualcosa.
Qualcuno ci entrerà e si sentirà importante; meno male, però, che si tratta di tracciare una x un po’ in disparte e meno male che non c’è un timer che suona se si resta troppo a lungo prima di rispondere. Meno male che non si perdono soldi se si risponde in modo sbagliato e che i nomi e i simboli non sono poi così difficili da interpretare, altrimenti si rischierebbe una figuraccia in questa vecchia scuola italiana!

Negli Stati Uniti, in alcuni stati, c’è anche la dicitura: nessuno di questi, sotto a tutte le indicazioni di voto.
La democrazia può contemplare l’attesa dell’uomo e non la scelta degli uomini? Si può riconoscere a noi stessi, nell’attuazione dei nostri diritti/doveri, la possibilità di esercitare una negazione che però esprima una speranza? Di votare un augurio, un sentimento insomma, e non una persona, pardon, una vittima?

“I cavalli non puntano sugli uomini e neanche io” scriveva Bukowski, anni fa. Ma, certo, non è più il tempo di smarrirsi in una sbornia risolutrice, di fronte al mondo che tende a prendersi sul serio, quando questo mondo barcolla peggio di un ubriaco e non ha più molto di serio. Bisogna ricostruire il cavallo che è in noi e salirci sopra con calma, con un metodo.
La filosofia si cura con la filosofia, diceva a se stesso Wittgenstein, intuendo che il metodo omeopatico è una direzione possibile perché già in atto aldilà della volontà e della capacità umana. L’arte, dunque, si cura con l’arte e la politica con la politica.

Ma intanto, in quest’inverno del nostro affanno, sotto il bel sole di York, aspettando l’uomo nuovo, chi spera e dunque è, potrebbe provare un altro metodo, antico come quello omeopatico. Il viaggio nel tempo. Come gli argonauti, che navigarono attorno al Mar Nero nel senso contrario al giro del sole, potrebbe cercare lucidamente l’abbandono al paesaggio piuttosto che la protezione della caverna.

Chissà che il mondo e il bel paese non gli appaiano aldilà dei loro simboli e limiti apparenti, mentre smarrisce il tempo “nel riguardar l’ombra sua nel sole e nel ricercar le variazioni della sua deformità”. In fondo i pirati desiderano più il mare che il bottino terreno. In fondo anche “nell’abisso dell’anima”…, “s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

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