A Pripyat, una cittadina di 50 mila abitanti immersa nel verde dell’Ucraina, è arrivata la primavera. È il 25 aprile del 1986, il piccolo Valery pianta un melo con l’aiuto del padre Alexeï, uno scienziato. Anya e Piotr festeggiano il matrimonio con amici e parenti.
Un’esplosione nella vicina centrale nucleare di Chernobyl seguito da violenti acquazzoni scuote la comunità che, ignara dei pericoli, viene sfollata solo quattro giorni dopo. Piotr partecipa alle operazioni dei vigili del fuoco. Dieci anni dopo, in uno scenario apocalittico, Anya ritorna in quei luoghi deserti come accompagnatrice di visite guidate. Piotr non è mai più tornato a casa. Alexeï è disperso. Valery, ormai ragazzo, è in cerca di un passato che gli è stato sottratto. Per tutti i sopravvissuti nulla sarà più come prima. La terre outragée, opera prima di fiction della giovane regista franco-israeliana Michale Boganim già segnalatasi per la realizzazione del bel documentario Odessa… Odessa! del 2005, verrà presentata alla Settimana Internazionale della Critica in programma dal 31 agosto al 10 settembre a Venezia nell’ambito della Mostra del cinema.
L’impianto documentaristico è soltanto una falsariga adottata da Michale Boganim per raccontare la prima grande tragedia nucleare avvenuta nella centrale di Chernobyl venticinque anni fa, che causò la morte di oltre quattromila persone. Fra silenzi di regime e oblii collettivi, le ferite di quella catastrofe riemergono in tutta la loro drammaticità umana e ambientale, esistenziale e politica. Un affresco tragicamente attuale – ancor di più dopo lo scoppio della centrale giapponese di Fukushima -, quello che la giovane regista franco-israeliana ha realizzato nella sua prima opera di fiction ricorrendo a soluzioni narrative che le consentono di ripercorrere quanto accade prima e dopo la contaminazione.
Un tranquillo week end di paura…
La cittadina di Pripyat con i suoi paesaggi, da un lato, e Anya – interpretata dall’ex modella ucraina Olga Kurylenko, già Bondgirl in Quantum of Solace (2008) – dall’altro, sono i perni intorno ai quali ruota l’intera pellicola. Il salto temporale è di dieci anni: dalla vita tranquilla condotta dalla comunità fino al disastro dell’aprile del 1986 si passa al 1996. Ma seguiamo i tempi. Il 25 aprile 1986 è un venerdì, la rigogliosa natura primaverile sembra scandire le attività di un’area di pascoli e foreste che circonda la moderna cittadina concepita dallo statalismo sovietico per dare un impulso industriale alla zona e che conta ormai 50 mila abitanti. Le sequenze iniziali sono quasi bucoliche. All’1.23 del giorno seguente, durante un test condotto ignorando tutte le norme di sicurezza, esplode il reattore 4 della centrale nucleare che dista soli tre chilometri da Pripyat. Il film continua a seguire i personaggi completamente ignari. Anya e Piotr festeggiano il matrimonio con amici e parenti. Il piccolo Valery se ne va in giro col padre Alexeï. Sarà proprio quest’ultimo, uno scienziato che lavora nella centrale, a ricevere telefonicamente la notizia “riservata” dell’incidente. Nessuno deve sapere. I militari prendono il controllo della zona che sarà evacuata soltanto quattro giorni dopo.
La città proibita.
È qui che si passa alla seconda parte del film, la più drammatica, esistenzialmente lacerante. Le piogge acide sono terminate, ma lo scenario resta inquietante come la condizione di Anya che ha perso il marito morto nel tentativo di spegnere l’incendio e adesso guida i turisti nella “città proibita”, tornando una volta al mese nell’area contaminata. Periodicamente si recano in pellegrinaggio anche i parenti delle vittime definite da un regime che marmifica se stesso “gli eroi di Chernobyl”. Le campagne intorno si stanno intanto ripopolando sebbene i rischi restino alti. È una sorta di terra di randagi quella mostrata dalla Boganim: c’è chi, anziano, si è reinsediato nella propria masseria perché non sa o non vuole vivere altrove; chi, più giovane, pensa che lì si possa ricominciare, ma ci sono anche quelli che vengono da lontano come i rifugiati del Tajikistan che hanno perso tutto e occupano una casa quasi fosse il segno di una terra promessa.
Gli inquietanti scenari di un mondo fantasma.
Anya incarna tutte queste condizioni, è la donna di frontiera che varca continuamente il confine fisico di Pripyat e quello che psicologicamente rappresenta. Potrebbe cambiare vita, non essere più la vedova di Piotr e rifondarsi lì assieme al vecchio amico Dimitri, oppure potrebbe abbandonare la terra d’origine, seguire a Parigi l’uomo francese che la ama, ma la malattia che la mina le toglie ogni prospettiva futura. È nel quotidiano che la giovane e affascinante donna deve trovare la forza per andare avanti, giorno dopo giorno, nonostante i segni angoscianti che il corpo evidenzia. Nel silenzio innaturale della città fantasma, una sorta di Pompei del XX secolo con le abitazioni abbandonate e gli arredi in degrado, si muove furtivo anche il giovane Valery alla ricerca di qualcosa che possa aiutarlo a recuperare il proprio mondo distrutto, quello dell’infanzia perduta con la sparizione del padre. Il continuo passaggio tra questi due mondi restituisce un affresco tragico e disperante, un macigno sulla coscienza di ognuno. E l’incontro occasionale di Anya con Valery, nella scena finale riproposta due volte in un’aura kieslowskiana, restituisce lo sguardo intenso che soltanto due reduci possono scambiarsi, mentre riecheggiano ancora nella mente dello spettatore le frasi degli ex compagni di classe del ragazzo. Li ha rivisti ai controlli sanitari e in un tema ha riportato le loro considerazioni: “Misha pensa che moriremo e diventeremo materia per gli scienziati; Valera che moriremo e saremo dimenticati”.
Per saperne di più sulla 26 ͣ Settimana Internazionale della Critica
e sulla 68 ͣ Mostra del Cinema di Venezia
http://www.labiennale.org/it/cinema/news/30-ago.html