Che cosa penseremmo di un ospedale nel quale esista un apposito reparto, incaricato di verificare se sia possibile negare il ricovero a chi lo richiede?
Penseremmo che in quella struttura prestino servizio medici sadici o infingardi, oppure, che, in quella plaga, vi sia una diffusa tendenza a simulare malattie (per scopi turpi, ovviamente), ovvero che essa sia abitata da ipocondriaci e malati immaginari; con la conseguenza che la istituzione sanitaria sarebbe stata costretta ad approntare un “meccanismo di difesa”, per non rimanere sommersa da pretestuose pretese di ricovero o da fantasiose richieste di cure.
Ebbene, ciò è esattamente quel che fa la Suprema corte di cassazione nei confronti delle migliaia di ricorsi che le “piovono addosso” ogni anno: innanzitutto e preliminarmente (oltre che pregiudizialmente) verifica che essi non siano inammissibili.
E non si tratta di un abuso perpetrato da magistrati stanchi, demotivati e avanti con gli anni, che intendano, così, sottrarsi al lavoro, per potersi dedicarsi agli otia della terza età e neanche si tratta di un pretesto per denegare giustizia a cittadini assetati di diritto e nomofilachia; si tratta di una esigenza obiettiva, avvertita (con ritardo, ovviamente), “persino” dal legislatore che, con la legge 26 marzo 2001 n. 128 (art. 6), ha previsto la istituzione di una “apposita sezione”, incaricata di questa sorta di “raccolta differenziata”.
Non che “il sistema”, come precedentemente articolato, volesse consentire a chiunque di ricorrere -sempre e comunque- per cassazione.
Una scelta “a monte” esisteva e persiste: il legislatore, aveva individuato i criteri con riferimento ai quali si può accedere al giudizio di legittimità.
Tali criteri attengono ai provvedimenti impugnabili e ai motivi di impugnazione.
Dobbiamo però dire che l’esperienza ci ha insegnato che questi criteri pre-selettivi funzionano male; tanto è vero che il numero dei ricorsi è crescente e, tra di essi, il numero dei ricorsi strumentali e dilatori è rilevante.
La ragione è chiara: da un lato, la tendenza ad ottenere un “terzo giudizio”, dopo i primi due eventuali giudizi nel merito, dall’altro, l’intenzione di sfruttare le distorsioni e le inefficienze del sistema, mirando al verificarsi di eventi neutralizzatori delle procedure giudiziarie di accertamento dei fatti e di applicazione delle sanzioni.
Proprio per rimediare all’abnorme aumento (e allo strumentale utilizzo) dei ricorsi per cassazione, è stato previsto, come si diceva, nel 2001 (nuova formulazione dell’art. 610 cpp e introduzione dell’art. 169 bis disp.att.cpp), che venga eseguito –a cura del presidente o di magistrati da lui delegati- un esame preliminare dei ricorsi stessi, allo scopo di individuare quelli che, prima facie, presentino i caratteri della inammissibilità. Essi vengono, previa richiesta del procuratore generale, incanalati verso la VII sezione (si diceva, costituita ad hoc) che, in camera di consiglio, decide della eventuale inammissibilità. Il contraddittorio è meramente cartolare (il ricorrente viene avvisato dalla motivata richiesta del procuratore generale e può controdedurre per iscritto).
Naturalmente, “la sezione delle inammissibilità” può anche essere di contrario avviso; nel qual caso, restituisce atti e ricorso, che –a tal punto- segue l’iter ordinario.
Ma il sistema, anche dopo questa “aggiunta”, rimane inceppato: la diga non è stata sufficiente e la Suprema corte deve -comunque- occuparsi di migliaia di ricorsi (spesso manifestamente infondati, quando non del tutto “fuori bersaglio”) relativi a diffamazioni tra comari, scambio di parolacce tra focosi automobilisti, impertinenti goliardate, ecc.
Per arginare il fenomeno, occorrerebbero ben altri rimedi, dovendosi addirittura porre mano alla Costituzione.
Il problema è stato affrontato (ab imis) nel corso della riunione della “Associazione degli studiosi del processo penale- G. D. Pisapia”, riunitasi a Napoli il 18 maggio di quest’anno (“La Corte di cassazione e la valanga dei ricorsi: quali rimedi?”).
Sono state avanzate le seguenti proposte: 1) modifica del comma settimo dell’art. 111 Cost., per restringere l’area dei provvedimenti ricorribili, 2) abolizione dell’art. 613 comma primo cpp, nella parte in cui prevede che il ricorso possa essere proposto personalmente dalla parte, 3) ri-selezione della categoria degli avvocati cassazionisti, 4) nuova disciplina del criterio di autosufficienza del ricorso.
Ovviamente la prima sarebbe la più incisiva modifica (e la più controversa, prevedibilmente).
Nelle intenzioni dei proponenti, essa dovrebbe prevedere anche una restrizione delle ipotesi di impugnazione dei provvedimenti in tema di libertà personale. Sul punto, ci sia consentito esprimere qualche perplessità.
Più condivisibili ci sembrano: la proposta di escludere la possibilità di ricorso per le sentenze che abbiano applicato la sola pena pecuniaria (sia perché prevista come sanzione esclusiva, sia quando, in presenza di pena alternativa, il giudice abbia optato, appunto, per quella pecuniaria), nonché la proposta di cancellare la possibilità di impugnare innanzi al giudice di legittimità la sentenza di non luogo a procedere (che, oltretutto, ad oggi è ricorribile -ai fini penali!- anche dalla parte civile: cfr. Sez. unite, sent. n. 25695 del 2008, ric. PC in proc. D’Eramo, rv 239701).
Una novità “rivoluzionaria” inoltre è contenuta nella “Carta di Napoli”: la manifesta infondatezza del ricorso che non contenga argomenti per mutare l’orientamento giurisprudenziale di legittimità su di una questione che sia stata risolta dal giudice di merito in modo conforme alla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (come già previsto nel settore civile: cfr. art. 360 bis cpc). Si tratterebbe di un serio passo avanti verso la affermazione di un vero sistema nomofilattico.
Altro punto qualificante è quello che vuole sottoporre a un diverso (e più severo) controllo il vizio di motivazione.
In merito, le proposte sono state disparate; esse vanno dalla completa abolizione del predetto controllo (da affidarsi in via esclusiva alle Corti di appello), alla eliminazione del novum introdotto dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006 n. 46 (vale a dire, la possibilità di operare confronto tra la motivazione del provvedimento impugnato e gli atti del procedimento, specificamente indicati dal ricorrente).
Personalmente saremmo per il mantenimento dell’attuale impianto, con previsione, tuttavia, di una sanzione (da porsi, non a carico dell’interessato, ma dell’estensore del ricorso, firmatario dello stesso) per i casi di manifesto abuso della doglianza. Ci si riferisce a quelle ipotesi in cui, piuttosto maldestramente, accampando un preteso vizio di motivazione, si tenta di accreditare una diversa ricostruzione del fatto.
La sanzione, per essere efficace (e per essere applicabile a tutte le parti, non solo a quelle private), dovrebbe essere di natura disciplinare: una nota di demerito per l’estensore dei motivi (sia esso un magistrato o un difensore), da valutarsi poi, in sede di avanzamento di carriera o di conferma nei ruoli degli “avvocati cassazionisti”. Evidentemente la revisione dell’albo speciale dei professionisti autorizzati a patrocinare innanzi alle giurisdizioni superiori (cfr. supra, punto 3) dovrebbe comportare anche verifiche periodiche, dovendosi -oltretutto- ai fini di tale selezione, tener conto, non solo del possesso delle capacità tecniche, ma anche del rispetto delle regole deontologiche.
Ci rendiamo conto che, in tal modo, si finirebbe per costituire, in capo alla Corte di cassazione, un indiretto jus corrigendi, ma si tratterebbe di un male necessario.
Se, consapevolmente, si propongono ricorsi destinati -con certezza- all’insuccesso, ciò si traduce in un inutile aggravio di lavoro per il giudice di legittimità ed in una “presa in giro” (non gratuita) del cliente.
E a ciò occorrerebbe porre rimedio, per la stessa credibilità della classe forense.
Naturalmente, in tanto è possibile che ciò accada (o, comunque, è più facile che accada (scil.: la distorsione del sistema), in quanto: a) la funzione nomofilattica è garantita dal giudice di legittimità in maniera insoddisfacente, b) le possibilità che il processo, durante il suo iter, si estingua ”per cause naturali” sono alte, c) l’offerta professionale (l’abnorme numero degli avvocati) costituisce evidente elemento di inquinamento del “mercato giudiziario”.
E allora, pensare di risolvere i problemi del giudizio di legittimità, intervenendo normativamente solo su di esso, rappresenta, se non l’ennesimo inganno, la consueta illusione.
I componenti della Associazione degli studiosi del processo penale si sono dati appuntamento per i giorni 27, 28 e 29 settembre nell’aula magna della Corte di cassazione, ma, perché il tutto non si risolva in un (pur interessante) confronto tra accademici, occorrerebbe una adeguata attenzione da parte dei “decisori politici”.
Altrimenti tutto rimarrà…..sulla carta.