Il rischio che l’Italia rimanga a secco d’acqua quest’estate è elevato. Toscana e Umbria stanno ipotizzando di chiedere lo stato di calamità se non arriveranno le piogge primaverili. Alcuni territori, dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia, sono già serviti dalle autobotti e in molte regioni, se proseguirà questo continuo calo della portata dei bacini idrici, si dovrà procedere al razionamento dell’acqua nelle case.
L’allerta è altissima eppure l’80% del patrimonio idrico del Paese continua ad essere in mano alle multinazionali delle acque minerali che con l’acqua dei nostri fiumi creano un volume d’affari annuo di 3,4 miliardi di euro.

Una mappa ragionata
L’allarme siccità arriva dopo una serie di inverni poco piovosi che già di per sé hanno causato l’abbassamento del livello dei fiumi. Ma nel corso di quest’autunno la situazione si è ulteriormente aggravata – per via del prolungamento dell’estate fino a novembre e per la quasi totale carenza di piogge nei mesi successivi – al punto che i livelli di acqua che si registrano nei nostri corsi d’acqua sono così bassi che, pur essendo in pieno inverno, si avvicinano a quelli estivi.
Il confronto tra gennaio 2012 ed gennaio 2011 dei dati relativi alla portata media dei fiumi è più che eloquente. L’acqua del Tevere, per esempio, nel suo tratto che attraversa l’Umbria, in particolare dal rilevamento effettuato nella sezione di ponte Felcino, risulta diminuita del 94,7% passando, in un anno da 38,2 a poco più di 2 metri cubi al secondo! E il confronto con la media trimestrale degli ultimi tre mesi del 2011 e del 2010 non si discosta di molto perché il calo di portata registrato nella stessa sezione è del 96% (da 41,5 a 1,4 metri cubi al secondo).
“Negli ultimi tre mesi – spiega Angelo Viterbo, direttore del servizio idrografico della regione Umbria – abbiamo registrato un deficit del 40% delle precipitazioni medie annuali. Un dato molto anomalo se si considera che, quando nel 2000 e nel 2005 abbiamo dichiarato lo stato di calamità, il calo delle precipitazioni era stato del 20%”.

Piave, Trebbia e Arno in calo netto
Si tratta di una situazione generalizzata che coinvolge quasi tutte le regioni italiane. Cali significativi di portata dei fiumi, legati per lo più, ad una riduzione delle precipitazioni, si registrano, per esempio anche sui fiumi marchigiani come il Candigliano (-96% della portata, da 15 a 0,3 m3/s) o il Metauro (-63,5%) quelli emiliano-romagnoli come il Reno (-94%) o il Savio (-92,9%). A Trento la portata del Brenta è diminuita del 66,4% tra gli ultimi tre mesi del 2011 e lo stesso periodo del 2011. Ma riduzioni significative si registrano anche in Veneto (dove la portata del Piave è diminuita del 72% rispetto mentre l’Adige del 48%). A Bolzano, il Trebbia registra, nell’ultimo trimestre 2011, riduzioni di portata fino al 67% inferiori rispetto al 2010) e in Toscana l’Arno ha visto ridursi la sua portata, nello stesso periodo, fino al 90%.

L’Emilia Romagna e la diga (semivuota) di Ridracoli
“L’acqua – spiega Lucio Botarelli, dirigente dell’arpa Emilia-Romagna del settore agrometeorologia territorio e clima – ha raggiunto livelli che normalmente si registrano nei mesi estivi. Il problema è che siamo ancora a febbraio. Secondo le nostre stime le ultime nevicate a Rimini, Ravenna e Forlì potrebbero, nella migliore delle ipotesi, recuperare la capacità di campo, ossia la capacità del terreno di assorbire l’acqua fino alla sua saturazione, fino all’80%, ma il deficit di acqua rimarrebbe comunque. La diga di Ridracoli, che serve molta parte del territorio romagnolo, in condizioni normali contiene 35 milioni di metri cubi di acqua, attualmente ne ha 9 milioni e, le abbondanti nevicate di questi giorni non serviranno a farle ricoprire il gap”.
In mancanza dell’acqua della diga, i territori serviti dal bacino di Ridracoli, attingono al canale emiliano-romagnolo (Cer): in poche parole il Po che in alcuni casi è già stato sottoposto a potabilizzazione. Ma la situazione non è a lungo sostenibile e, se dovesse perdurare la carenza di acqua, in estate si dovrà procedere al razionamento.

Pomodoro e kiwi, colture a rischio
“La mancanza di acqua – continua Botarelli – potrebbe modificare da qui a 40 anni, lo scenario produttivo di queste terre. Potrebbe rendersi necessario abbandonare le colture che maggiormente abbisognano di acqua (quelle di pomodoro, per esempio, di kiwi ed in genere tutti i frutteti del forlivese, e ne risentirebbe anche tutta la filiera del parmigiano reggiano. Bisogna iniziare a ragionare sulla possibilità di irrigare i campi con le sole acque piovane altrimenti i costi di produzione saliranno alle stelle”.
In Toscana, si sta iniziando a valutare la possibilità di dichiarare lo stato di calamità. In questa regione, il lago di Bilancino, che, fra l’altro, porta l’acqua potabile anche al comune di Firenze, sta subendo una riduzione di acqua (anche per via di una rottura importante verificatasi l’anno scorso) di circa 25 milioni di metri cubi rispetto alla media di questo periodo di 37 milioni circa. Ciò ha determinato una riduzione dei rilasci di acqua destinati alle colture e al comparto idroelettrico. Da 1200 litri al secondo a 500. Per questo nei giorni scorsi si è riunita in via straordinaria la commissione tutela Acque presso l’autorità di bacino dell’Arno che ha costituito una task force permanente per monitorare la situazione sul campo e gestire la crisi idrica. Intanto in alcuni territori, soprattutto nella provincia di Siena, l’emergenza è già una realtà dal momento che l’approvvigionamento idrico nelle case avviene tramite le autobotti.

Sorgenti in concessione a 2mila euro annui
Nonostante il rischio siccità riguardi tutta l’Italia, c’è da chiedersi come mai ancora oggi l’80% dell’acqua dei nostri fiumi sia in mano all’industria e alle multinazionali dell’acqua minerale.
“Nei nostri rubinetti – spiega Erasmo D’Angelis, presidente di Publiacqua, che gestisce il servizio idrico integrato nel Medio Valdarno e che serve 49 comuni e 1,3 milioni di abitanti distribuiti tra le province di Firenze, Prato, Pistoia e Arezzo – arriva il 20% dell’acqua dei fiumi. L’80% dell’acqua potabile, quella che sgorga dalle nostre sorgenti, infatti viene data in concessione pubblica a canoni irrisori che non superano le 2mila euro l’anno, a industrie, che usano l’acqua potabile per raffreddare i macchinari, e alle multinazionali dell’acqua minerale. Si tratta di uno spreco che complessivamente riguarda circa 8 miliardi di metri cubi. Questi 8 miliardi di metri cubi fruttano alle major dell’acqua in bottiglia un volume d’affari di 3,4 miliardi di euro a fronte di canoni di concessione per il prelievo dell’acqua per circa 350mila euro all’anno. Con questi soldi le regioni non riescono neanche a coprire le spese amministrative sostenute per le concessioni stesse”.

Le quattro major dell’acqua in bottiglia
Le major dell’acqua in bottiglia in Italia sono tantissime ma solo 4 di loro detengono il 60% del mercato: la Nestlé (che controlla, fra gli altri, i marchi San Pellegrino, Levissima, Recoaro, ecc. e che fattura circa 900 milioni l’anno), la Zoppas (San Benedetto, per esempio, o acqua Guizza, che fattura circa 500 milioni l’hanno), la Rocchetta Spa, e la Ferrarelle.
“Per ridurre lo spreco dell’acqua imbottigliata – continua D’Angelis – abbiamo aperto una trentina di fontanelle pubbliche nella Toscana centrale, tra Firenze, Pistoia e Prato. Sono delle strutture che erogano gratuitamente l’acqua sia naturale che frizzante. Ogni fontanella eroga mediamente 80mila litri al mese e in questi territori si è registrata una riduzione di pari entità dell’acquisto di acqua minerale”.

Sprechi e scarsa manutenzione
In presenza di carenza d’acqua, diventa di primo piano il problema degli sprechi riconducibili sia alle cattive abitudini della popolazione che alle cattive condizioni di manutenzione degli impianti. Non sono rari i casi in cui le tubature sono risalgono a più di 100 anni fa con la conseguenza che l’acqua viene dispersa a causa di fori, lacerazioni o falle vere e proprie. Il livello di spreco varia da regione a regione, oscilla tra il 29% della Toscana fino all’oltre il 40% della Sicilia.
In questa regione, dietro lo spreco d’acqua ci sono gli interessi della malavita organizzata sul mercato delle autobotti. A Trapani, per esempio, o anche nell’agrigentino, l’acqua arriva nelle case una o due volte a settimana costringendo i cittadini a richiedere il servizio di erogazione dell’acqua tramite autobotte. Un servizio che risulta molto più costoso dell’acqua pubblica al rubinetto. Con i soldi pagati ogni anno dai cittadini per il servizio di autobotte, in quanto tempo si riuscirebbe a ristrutturare l’intero sistema di tubature?
“A Trapani – spiega Sara Giorlando del forum italiano dei movimenti per l’acqua – la gravissima carenza d’acqua ha scoraggiato le aziende dal partecipare al bando pubblico per la concessione del servizio di gestione dell’acqua pubblica. Allo stato attuale non esiste un ente gestore. La cosa peggiore, qui, è la disorganizzazione. In particolare, la suddivisione del territorio in Ato che non corrispondono alla distribuzione dei bacini idrici sul territorio ma ai confini delle province, di fatto scoraggia qualsiasi forma di solidarietà tra i territori che hanno l’acqua e quelli che non ce l’hanno”.

Piemonte e Valle d’Aosta, le eccezioni
La carenza d’acqua non riguarda tutte le regioni italiane. Ne sono affrancate per esempio il Piemonte oppure la Val d’Aosta e in generale i territori vicini ai grandi ghiacciai alpini. Allo stesso modo, nella medesima regione possono trovarsi territori più a secco di altri come in Sicilia, dove, se a trapani manca l’acqua, questa abbonda in tutta la valle dell’Etna. Per questo una delle soluzioni per arginare il rischio siccità è quello di creare degli impianti di tubature che siano collegati tra di loro e che consentano di distribuire più equamente l’acqua sul territorio. Così ha fatto l’Umbria che per realizzare 7 schemi idropotabili ha speso, tra il 2003 e il 2009, circa 70milioni di euro. In Toscana, invece, per ridurre a zero la percentuale d’acqua sprecata (il 29%) non basterebbero 4 miliardi di euro. “Sono cifre impossibili da investire – conclude D’Angelis, autore del libro Il valore dell’acqua uscito per i tipi della Dalai editore – perché con le tariffe, che ci fanno introitare quasi 89 milioni di euro l’anno, non riusciremo mai a raggiungere questa cifra. Né è praticabile la strada dei prestiti bancari per via della stretta creditizia e dell’elevato costo del denaro. Bisogna iniziare a pensare di lavorare sulla raccolta delle acque piovane. In Toscana ogni anno piovono 20 miliardi di metri cubi mentre il fabbisogno potabile della regione è di 800 milioni di metri cubi”.
TABELLA BACINI IDRICI

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