In un paio di giorni il differenziale tra Bund tedeschi e Bonos spagnoli è tornato a crescere raggiungendo la soglia di 400 punti, lasciando prevedere un ulteriore rialzo: l’effetto contagio non ha risparmiato l’Italia, il cui spread sui BTP è risalito improvvisamente a 380 punti.

 

 

La calma della scorsa settimana, riscontrata sulla scia della ristrutturazione del debito greco, ha avuto vita breve, come peraltro molti avevano previsto, fuori dai palazzi dell’Eurozona. La differenza rispetto al passato recente sta nel fatto che Spagna ed Italia non sono la Grecia: in entrambi i casi i nuovi governi hanno adottato misure fortemente restrittive, nell’ottica del ritorno alla sostenibilità dei conti pubblici. I due paesi hanno ingoiato di malavoglia la medicina europea, sopportando pesanti interventi economici le cui conseguenze recessive sono già visibili: la paura più grande risiede dunque nell’inutilità di questi provvedimenti, che potrebbe portare ad un conflitto senza precedenti nella storia dell’Euro, almeno su due livelli. Il primo riguarda le tensioni interne, che in Spagna stanno già provocando incidenti come quelli di Barcellona la scorsa settimana, mentre il secondo incide sulle relazioni tra i paesi dell’UE, nel momento in cui venga meno la fiducia reciproca sulle decisioni economiche collettive, mai del tutto condivise.

La Spagna, al pari dell’Italia, ha subito un traumatico cambio di governo, con l’avvento del premier Mariano Rajoy subentrato al dimissionario Zapatero. A partire da dicembre, il nuovo governo di centrodestra ha approvato due manovre finanziarie, per un totale di 42 miliardi, di euro ed una nuova legge sui licenziamenti “facili”, nel tentativo di rilanciare un mercato del lavoro a dir poco ingessato. Il paese iberico non è più l’eldorado produttivo di un decennio fa: oggi la disoccupazione è al 23%, con una percentuale ancora più alta per quanto riguarda i giovani, i consumi ristagnano ed il PIL è destinato a cadere dell’1,7%. Le misure di riduzione della spesa pubblica hanno dimostrato una scarsa efficacia, soprattutto a causa della forte connotazione federalista del paese, dove i governi regionali gestiscono quasi il 60% della spesa pubblica, non soggetta ai tagli imposti da Madrid. Sul fronte degli obiettivi di bilancio, principale metro di valutazione da parte degli operatori di mercato, i risultati sono fortemente scoraggianti. Nel 2011 il rapporto deficit/PIL si è attestato all’8,5%, tra i più alti in Europa: inoltre, il governo aveva annunciato, il giorno prima del vertice del 14 marzo a Bruxelles, la deviazione dall’obiettivo 2012 fissato al 4,4%, portandolo al 5,3%. La notizia non era stata presa bene dalle istituzioni europee ed i mercati hanno iniziato a fiutare il pericolo (o il guadagno), inasprendo le richieste sui tassi d’interesse. La certificazione della perdita di fiducia è arrivata mercoledì, quando l’asta dei titoli di stato ha mostrato una domanda in netta discesa ed un rialzo notevole dei tassi: le difficoltà di rifinanziamento alimentano ulteriormente le preoccupazioni sulla crescita del debito pubblico, le cui stime prevedono un balzo dal 68,5% nel 2011 al 79% nel 2012.

La certezza che emerge da questa situazione è data dal fatto che nessun paese in Europa può sentirsi padrone del proprio destino. L’Italia, guidata ormai da alcuni mesi da un governo fortemente voluto dalle principali istituzioni economiche internazionali, deve subire ancora pressioni dai mercati, senza poter sfuggire all’effetto domino che investe il vecchio continente. La sensazione è che le cartucce stiano per finire: dopo un inverno tormentato, trascorso tra pesanti tagli alla spesa, discusse liberalizzazioni e modifiche strutturali al mercato del lavoro, ci si aspettava una primavera di carattere ottimistico, quantomeno sotto il profilo della stabilità finanziaria. Se la medicina non dovesse funzionare si aprirebbero nuovi scenari dagli esiti imprevedibili, anche perché la situazione parlamentare, che poggia su un tacito consenso degli italiani verso l’attuale governo Monti, potrebbe cambiare rapidamente in base agli umori dei cittadini. Sul piano prettamente economico, il ritorno ad uno spread stabilmente sopra i 400 punti comporterebbe un aggravarsi della spesa per interessi nell’anno in corso, mettendo in crisi l’obiettivo sul pareggio di bilancio nel 2013 a causa di un aumento non previsto della spesa per interessi. In altre parole, nel caso in cui si vogliano confermare gli impegni presi con Europa e mercati, non si potrebbe escludere una nuova pesante manovra in autunno, in quanto i calcoli attuali si basano su previsioni di tassi s’interesse più bassi.

Alla luce della scarsa efficacia dei provvedimenti nazionali, appare sempre più evidente la necessità di una cura europea massiccia, le cui basi sono state gettate la scorsa settimana al vertice ECOFIN di Copenaghen con la rimodulazione del fondo salva-Stati. Non è escluso, infatti, che la Spagna sia costretta a chiedere aiuti finanziari all’Europa, come già accaduto per Portogallo e Grecia. Il vero problema è la dimensione dell’economia spagnola: il debito pubblico ammonta a 750 miliardi di euro nel 2011, ovvero più del doppio rispetto a quello greco. La capacità di prestito del fondo ESM è di “soli” 800 miliardi, di cui circa 600 saranno disponibili solo da luglio prossimo, mentre restano molti dubbi sulla rigidità delle procedure di erogazione. In sostanza lo strumento di salvataggio, che mostra molti punti deboli, non tranquillizza affatto i mercati, poco intenzionati a rinegoziare un tale quantità di titoli. Fondamentale sarà inoltre la capacità di reazione dell’Europa sul piano della tempistica, in quanto una prolungata fase di stallo politico porterebbe inevitabilmente ad una spirale di tensioni, maggiori con tutta probabilità a quelle verificatesi in merito al caso greco. Se poi, nello scenario peggiore, dovesse essere coinvolta anche l’Italia (il cui debito ha toccato i 2.000 miliardi), l’intero assetto del fondo andrebbe ripensato: le banche europee hanno in pancia troppi titoli italiani e spagnoli, affinché si possa pensare di abbandonare i due paesi al loro destino.

Analizzando la situazione, non rimane che chiedersi se la teoria economica dominante in Europa, fondata sul contenimento dei conti pubblici a tutti i costi, rappresenti la giusta via da percorrere per uscire dall’empasse. Il fatto che alcuni paesi, tra cui il nostro, “spendono troppo” può anche essere condivisibile, specialmente quando i soldi finiscono per essere sperperati e mal gestiti. Una politica di contenimento, tuttavia, andrebbe implementata in momenti di ciclo economico positivo, perché inevitabilmente produce effetti recessivi. Allo stato attuale, date le prospettive di crescita scoraggianti (con l’Italia fanalino di coda tra i paesi OCSE), queste misure rischiaro di generare un avvitamento dell’Europa: il peggioramento del PIL non può che compromettere ulteriormente la fiducia dei mercati, poiché su questo indicatore si fondano le aspettative sulla capacità di rimborso dei titoli.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *