Compie vent’anni la Biennale Musiques en scènes di Lione, uno degli appuntamenti da non perdere, in Francia, per gli amanti della musica contemporanea. Rassegna sempre stimolante, mai elitaria, che tende al massimo coinvolgimento del pubblico, soprattutto dei giovani.
E che spinge a riflettere sulle nuove strade che prendono non solo la musica, ma le arti in generale nel mondo contemporaneo, che si interroga sulle più recenti forme di creatività, sul superamento del mito modernista del “nuovo a tutti i costi”, di fronte all’attività di molti compositori che riproducono, rielaborano, “riciclano” altre musiche, e creano semmai nuovi contesti musicali, nuove “forme”, attingendo invece i materiali nei vastissimi bacini che offrono le moderne tecnologie e la rete. Perno vitale di queste esplorazioni è il Grame (www.grame.fr), centro di ricerca e di creazione musicale fondato a Lione, nel 1982, da James Giroudon e Pierre Alain Jaffrennou, e che resta uno dei centri di eccellenza in Europa per la ricerca applicata nel campo dell’informatica musicale. Ospite d’onore quest’anno era Michael Jarrell, compositore svizzero (nato a Ginevra nel 1958), con studi a Tanglewood, in Germania (con Klaus Huber), all’Ircam di Parigi, e poi per tre anni (dal 1988 al 1990) a Roma, prima come “pensionnaire” a Villa Medici, poi come membro dell’Istituto svizzero di Roma. Tra le numerose composizioni eseguite spiccavano soprattutto l’«opera parlata» Cassandre del 1994, capolavoro di introspezione psicologica in musica, affidato all’Ensemble Intercontemporain e alla voce recitante di Fanny Ardant. È stato poi eseguito un pezzo per orchestra del 2008 … Le ciel, tout à l’heure encore si limpide, soudain se trouble horriblement… esempio del suo linguaggio capace di sviluppare e articolare all’estremo elementi minimi di partenza, e dello straordinario virtuosismo nella scrittura orchestrale. Le sontuose armonie spettrali si intrecciavano con atmosfere sospese e rarefatte, con filamenti di suono echeggiati dalle percussioni (per esempio dal vibrafono suonato con l’archetto). Esempio di un linguaggio quasi manieristico, di un approccio molto artigianale con gli outils della musica contemporanea, ma capace di creare una dimensione intimistica, evocativa, piena di echi arcaici, di memorie personali, di rimandi al mondo antico (anche il titolo era tratto dal De rerum natura di Lucrezio). A esaltare le qualità di questo lavoro orchestrale ci ha pensato poi Peter Rundel sul podio dell’Orchestra del Conservatorio di Lione, un orchestra di giovani, ma dalle qualità straordinarie.

La figlia (prodigio) del Sol Levante
Nello stesso concerto è stato eseguito anche un bellissimo lavoro di Misato Mochizuchi, compositrice nata a Tokyo nel 1969, bambina prodigio (già a 13 anni si esibiva in concerto, come pianista, insieme a Mstislav Rostropovitch), poi cresciuta musicalmente a Parigi, con Paul Méfano, Emmanuel Nunes, Brian Ferneyhough, all’Ircam, sempre attratta dalle scienze e dai misteri della natura. In Camera lucida (1999) il riferimento era all’universo della fotografia descritto da Roland Barthes nel libro La Chambre claire (La camera chiara, pubblicato in Italia da Einaudi), alla fotografia come «medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo». La Mochizuchi sembrava trasformare il gioco degli obiettivi e delle focali in altrettanti fenomeni acustici, muovendo la materia sonora da una trama orchestrale molto rarefatta, ma piena di turbolenze sorde e di tensione, verso grandi accordi, ampie fasce armoniche, sempre screziate da una fitta trama di percussioni. Giocava con una materia che si faceva ritmicamente incalzante ma sempre meno densa, con superfici timbriche trascoloranti, fino a una trama finale di glissandi discendenti degli archi, che generava un effetto di progressivo spegnimento. Completavano il programma una bella esecuzione della Mer di Debussy e Nocturno di Isabel Mundry, lavoro destinato a un piccolo gruppo orchestrale e costruito con una struttura a ondate, sull’alternanza tra una pasta orchestrale densa e movimentata e momenti di sospensione, ma non sempre risolto sul piano della forma.

Lione_ok-GREFFERATUna Circe svedese
Notevoli due dei lavori eseguiti dall’Ensemble Actem, pure formato da musicisti giovanissimi: Ondulaciones del cileno Roque Rivas (classe 1975), pezzo di grande seduzione armonica, che prendeva le mosse da un materiale semplice, con un movimento ondulatorio perturbato da continui innesti ritmici e una parte elettronica che contribuiva ad articolare il materiale e a farlo proliferare nello spazio; e Entropies di Karl Naegelen (nato nel 1979, e formatosi anche come sassofonista e chitarrista) che cercava effetti stridenti negli strumenti tradizionali, distorsioni da chitarra elettrica sugli archi, con zone movimentate e crepitanti e momenti di sospensione che contribuivano a imprimergli una fisionomia drammatica. Concerti di grande appeal sul pubblico sono stati anche quelli dell’Ensemble Orchestral Contemporain diretto da Daniel Kawka, che ha presentato Karakuri – poupée Mécanique, per voce e strumenti di Ondrej Adamek, compositore praghese (nato nel 1979) in grande ascesa, Fog and Bubbles del giapponese Kenji Sakai, Droben schmettert ein greller Stein di Jarrell, e un nuovo pezzo dello svedese Jesper Nordin, Circe, per percussione e ensemble: l’impianto era narrativo e il gusto un po’ rapsodico, ma era molto interessante l’approccio sperimentale, il sofisticato processo elettronico che permetteva di captare attraverso sensori i gesti del percussionista Jean Geoffroy, per poi trasformarli in suoni (processo che spiegava anche il titolo, ispirato al mondo magico di Circe). Di Jesper Nordin si è ascoltato anche un lavoro per violoncello ed elettronica (solista Benjamin Carat), dove tutto il lavoro informatico partiva da una melodia popolare, un richiamo usato dai pastori per richiamare il gregge. Lione_GREFFERATLa fusione di tecnologia e elementi gestuali, popolari, primitivi o naturalistici, ritornava anche nel concerto “psichedelico” del violoncellista Arne Deforce (con l’elettronica e gli effetti video di Phill Niblock), che ha eseguito Time & Motion Study II di Brian Ferneyhough, pezzo storico del 1976, dove la complessità di scrittura diventava virtuosismo vertiginoso, puro gesto, dove il violoncellista veniva “annientato” dal materiale che lui stesso produceva; Foris, nuovo pezzo di Raphaël Cendo, pezzo iconoclasta che evocava luoghi selvaggi e sconosciuti attraverso una proliferazione di modi d’attacco, un dettagliato catalogo di effetti sonori («turbolenze, rumori sordi, deflagrazioni, scricchiolii, passaggi di strane entità»); e tre pezzi del minimalista newyorkese Phill Niblock (www.phillniblock.com) per violoncello, pianoforte e elettronica (Harm, Poure, Feedcorn Ear), dove un semplice colpo di archetto generava processi di accumulo e saturazioni estreme, spazializzate, effetti di pura pressione sonora, «privi di ritmo, di melodia e di armonia», assordanti (tanto che al pubblico erano distribuiti tappi per le orecchie). Le “magie” prodotte dall’interazione tra uno strumento solista e l’elettronica dominavano anche nel concerto di Christophe Desjardins, autentico mito della viola contemporanea [si consiglia l’ascolto di un cd pubblicato recentemente da Aeon Alto / Multiples con musiche di Hindemith, Berio, Boulez, Jonathan Harvey, Wolfgang Rihm]. Desjardins ha eseguito un nuovo pezzo del compositore franco-argentino Sebastian Rivas, Sous l’écorce (ispirato alla poesia Entrada a la Madera di Pablo Neruda), pezzo pieno di effetti rumoristici e di spazializzazioni, che sfruttava ancora un sensore di movimento per trasformare in suono anche la componente del gesto strumentale; e la bellissima Partita I (2006) di Philippe Manoury, anche questa basata sull’analisi del gesto strumentale volta a intensificare le relazioni tra suono acustico e elettronica: una specie di ampia suite, in sette parti, concepita su sette espressioni musicali diverse, con una costruzione armonica densa e avvolgente, ma piena di interferenze e di colpi di scena.

2012_01_02219F_01Terra e cenere
Alla Biennale di Lione non sono mancati gli appuntamenti con il teatro musicale. Questi però un po’ deludenti. Si trattava di due nuove opere: Terres et Cendres di Jerôme Combier (scritta su commissione dell’Opéra di Lione e messa in scena al Théâtre de la Croix-Rousse) e Espèces d’espaces di Philippe Hurel (commissionata dal Grame messa in scena al Théâtre de la Renaissance). L’opera di Combier si basava su un libretto dello scrittore afgano Atiq Rahimi, che riadattava un suo celebre, omonimo romanzo (Terra e cenere, pubblicato in Italia da Einaudi). La storia di Terres et Cendres è ambientata nel periodo dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, in un villaggio distrutto dai tank dove sopravvivono solo un bambino, Yassin, che crede che il mondo sia di colpo ammutolito (e invece è lui a essere diventato sordo), e suo nonno Dastguír, che si mette in cammino per raggiungere il padre di Yassin, che lavora in una miniera, e per annunciargli lo sterminio di tutta la famiglia. La partitura aveva bei momenti musicali, con venature etniche, una certa varietà di stili vocali, zone madrigalistiche (di sei personaggi di contorno, come un coro greco che interagiva nei dialoghi parlati), lungi vocalizzi e tenere berceuse, mescolate con le sonorità secche e sorde degli strumenti e di un tamburo iraniano. Ma nel complesso risultava troppo lenta, poco drammatica (nonostante gli sforzi di Philippe Forget sul podio), con le sue dinamiche sommesse e ipnotiche, e con un uso eccessivo (e poco coraggioso) del parlato. La regia di Yoshi Oida (scene di Tom Schenk e costumi di Richard Hudson) calava la vicenda in un crudo realismo fatto di muri scrostati, pilastri di cemento, carcasse arrugginite di automobili. Ma proprio mancando una forte componente drammatica, anche questi elementi apparivano come congelati in un tableau, come elementi puramente visivi di una natura morta “con moderne rovine”.

Perec all’opera
Lasciava perplessi anche l’opera di Philippe Hurel (il suo primo cimento operistico) Espèces d’espaces, basata sull’omonimo testo di Georges Perec (Specie di spazi, pubblicato in Italia da Boringhieri). Testo in forma di saggio, nello stile di una conferenza sugli spazi dove viviamo, con il suo linguaggio pseudo-scientifico, i risvolti ludici e ironici, l’ossessione delle liste e dei progetti, il gusto per l’arte combinatoria. Tutto questo si traduceva in una musica piena di contrasti stilistici, che chiamava in causa un soprano (Élise Chauvin) e un attore (Jean Chaize), con un tono comico che alla lunga risultava però sguaiato e ripetitivo, come una serie di gag mal cucite insieme. A dimostrazione che non basta basarsi su un testo letterario originale e di qualità, per ottenere una musica originale e di qualità. Sgangherata e clownesca anche la regia di Alexis Forestier, costruita con grande economia di mezzi, giocata su impalcature metalliche, tavoli, sedie, schermi spostati in continuazione, uno spazio scenico che intendeva fare da specchio al pirotecnico gioco di parole del testo, ma sembrava solo animato da un’inutile frenesia.

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