Lo scempio del bergamotto è una vera e propria truffa ai danni dei coltivatori calabresi che si è compiuta impunemente per anni e che sta portando lentamente al declino della coltura di questo agrume che è unico al mondo perché riesce ad attecchire soltanto nel particolare microclima che caratterizza la costa di Reggio Calabria, da Villa San Giovanni a Bovalino.
Se c’è una cosa che i calabresi hanno e che il resto del mondo non ha, è il bergamotto. La contraffazione dell’olio essenziale di bergamotto, un cartello per i prezzi che di fatto strozza i coltivatori oltre alle cause naturali (parassiti e variazioni dei cicli climatici) stanno progressivamente portando alla scomparsa di questo prezioso agrume calabrese.
Per molto tempo, fino alla metà del secolo scorso, la coltura di questo particolare agrume ha permesso a tante famiglie di coltivatori (coloni, mezzadri e proprietari terrieri) di prosperare. Il mercato generato dalla commercializzazione del preziosissimo olio essenziale di bergamotto era molto redditizio. Francia, in prima battuta, ma anche, Russia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone e ora anche Cina e India erano (e sono) i principali acquirenti del bergamotto calabrese. Ne hanno sempre richiesto grandi quantità perché le sue particolari proprietà chimiche ed organolettiche lo rendono, da un lato, il principale fissatore nella fabbricazione dei profumi e, dall’altro, un importante materia prima per il settore farmaceutico in particolare nella cura di colesterolo, herpes e di tante altre malattie.
La grande diluizione
“Il problema principale – spiega Elio Pizzi, presidente del consorzio del bergamotto – sono le adulterazioni dell’essenza. È sistematico, infatti, che l’olio puro, una volta introdotto sul mercato venga allungato con delle sostanze, come la trementina, che permettono la creazione in laboratorio di un surrogato dell’essenza di bergamotto, un prodotto di sintesi che permette di decuplicare le quantità di essenza messa in commercio con la conseguenza di offrire più che lauti guadagni a chi la commercializza e agli esportatori”.
In pratica si compra 100, e “diluendo” si rivende anche fino a 1000. Questo sistema ha determinato una progressiva riduzione della produzione (costa meno diluire che coltivare) ed una conseguente limatura della remuneratività per gli agricoltori al punto che oggi coltivare bergamotto è un’attività al limite dell’anti economicità. Si guadagnano circa 35 euro lordi a quintale quando solo per irrigare e pagare la manodopera se ne spendono più di 20 per ogni quintale.
Il mercato
I 200mila quintali di bergamotto, prodotti ogni anno, rappresentano per i circa 4000 addetti al settore un guadagno di poco più di 6,5 milioni di euro complessivi con redditi che, per i campi di dimensioni medie difficilmente superano le 2mila euro l’anno. Il volume d’affari dei trasformatori che da questi 200mila quintali di bergamotti ricavano 100mila chili di essenza all’anno, è circa 8milioni di euro (1 chilo di essenza costa infatti intorno alle 80 euro) che viene diviso però tra una decina circa di ditte sparse tutte sul territorio. Tra queste la più importante è la ditta Capua che convoglia più del 70% della produzione.
Non è possibile, infine, stimare il guadagno derivato dalla commercializzazione dell’essenza perché con il sistema della “diluizione” i proventi della vendita possono essere più che decuplicati.
La tutela
“Per proteggere le nostre colture – continua Elio Pizzi – abbiamo istituito nel 2007 un consorzio di tutela che ha il compito di controllare e reprimere le frodi in commercio anche in considerazione del fatto che il bergamotto è protetto da un marchio dop dal 2001 e che stiamo studiando la possibilità di poterlo fare dichiarare patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Non è facile tenere sotto controllo tutto il mercato ma abbiamo stimato che anche solo riuscendo a ridurre del 10% i prodotti “diluiti” in circolazione, si potrebbe anche quintuplicare la produzione reggina arrivando ad immettere nel mercato fino a 500mila chili di essenza ogni anno”.
Il cedro di Santa Maria
Su questa stessa linea di difesa della produzione tipica, è schierato anche il consorzio del cedro di Santa Maria del Cedro, circa 200 chilometri a nord di Reggio Calabria per salvare questa coltura che, a metà degli anni Novanta stava scomparendo. “Da qualche anno – spiega Angelo Adduci, presidente del consorzio del cedro – abbiamo avviato una politica di ripresa della produzione del cedro di Santa Maria la cui qualità, denominata liscio diamante non è coltivata in nessuna altra parte al mondo”. Il rilancio del cedro calabrese è avvenuto perché sul territorio sono state avviate, negli ultimi anni, un’ottantina di attività artigianali (pasticcerie, oleifici, opifici, attività artigianali per la canditura, laboratori per la creazione di bibite ecc.) che hanno permesso un rilancio del settore turistico. “Abbiamo creato un percorso – continua Adduci – simile a quello delle vie del vino in toscana che abbina la produzione locale e l’artigianato al turismo. Il nostro obiettivo è quello di creare una sorta di cittadella industriale che rilanci tutta la riviera del cedro ma per farlo servirebbero circa 4 milioni di euro. Grazie a questo percorso turistico artigianale siamo riusciti a fare lievitare i prezzi al produttore dalle 80 euro alle 120 euro a quintale nel giro di pochi anni.”.
Con questo sistema i 15mila quintali di cedro prodotti ogni anno in 1.600 ettari complessivi di terreno tutti nella zona di Santa Maria, fruttano ai produttori 18 milioni di euro, tre volte tanto il volume d’affari prodotto dal bergamotto.
Il consorzio del bergamotto
Ma per i bergamotticoltori le cose non sono sempre andate così. Fino agli anni Sessanta, ogni coltivatore aveva infatti un piccolo impianto di trasformazione della materia prima in essenza. In ogni cantina non mancava la tradizionale macchina di legno (inventata da Nicola Barillà nel 1844), costituita da un articolato complesso di ingranaggi che, ruotando, estraevano l’essenza dalla scorza del bergamotto.
“A partire da quegli anni – spiega Leandro Branca, coltivatore di bergamotto e membro di Unionberg, l’associazione reggina nata 4 anni fa che raccoglie l’80% dei produttori di bergamotto del territorio – i produttori hanno pensato di delegare al consorzio del bergamotto la trasformazione dell’essenza di modo da potere così dividere le spese di produzione che nel frattempo erano lievitate con la crescita soprattutto del costo della manodopera. Per molto tempo il consorzio ha operato in regime di monopolio, trasformando in essenza tutto il bergamotto prodotto nel reggino e stabilendo i prezzi per i produttori. Questo sistema garantiva loro un’elevata rimuneratività delle colture. Ma l’attività del consorzio è stata bloccata da una sentenza della corte costituzionale, intervenuta a metà degli anni Sessanta e volta ad annientare il monopolio del consorzio in difesa del principio della libera concorrenza”.
L’ingresso nel mercato dei privati ha trasformato completamente il panorama. Il consorzio non riusciva più ad essere competitivo con le aziende private di trasformazione e di fatto ha iniziato ad accumulare debiti che lo hanno condotto al commissariamento. È rimasto commissariato per 35 anni, fino a 45 mesi fa, quando lo stabilimento è stato affittato per 40mila euro all’anno alla fitta Capua (con il benestare della Regione). Quella stessa ditta che è la principale produttrice di essenza.
La guerra dei prezzi
Con l’ingresso dei privati nel mercato della trasformazione, inoltre, i prezzi da corrispondere ai coltivatori si sono ridotti perché i trasformatori, una volta eliminato il consorzio che fungeva la calmieratore, hanno iniziato a stabilire nuove regole e soprattutto hanno iniziato a determinare il costo del bergamotto da corrispondere al produttore: quei famosi 35-40 euro lordi al quintale. L’ultima bastonata ai coltivatori è arrivata circa 8 mesi fa con la creazione di una lista chiusa di produttori a cui i trasformatori debbono rivolgersi. La lista sembrerebbe privilegiare i coltivatori della zona jonica a scapito dei piccoli terreni coltivati nelle immediate vicinanze di Reggio Calabria.
“Di tutti i coltivatori che c’erano nella zona di Filici – spiega Gregorio Franco, coltivatore di bergamotto con terreni alla periferia sud di Reggio Calabria – oggi ci sono rimasto solo io. Continuo a coltivarlo perché sono testardo e perché questi campi sono tutta la mia vita. Ci investo tutti i soldi della mia pensione. I miei figli mi aiutano con la raccolta, che facciamo durante le ferie natalizie. Ma non credo che nessuno di loro proseguirà dopo di me. Non credo che il bergamotto rappresenti più una possibilità di reddito interessante per i nostri ragazzi che, come al solito, sono costretti a cercare lavoro altrove”.
Il bergamotto non manca. Non mancano i coltivatori e le terre. Ma provate ad acquistare al di fuori di questi canali di mercato un quintale di frutto. Non ne troverete. Così è successo a H.R. che nei mesi scorsi cercava del bergamotto da acquistare e non ne ha trovato neanche un chilo. Eppure il frutto non manca se si considera che negli anni passati, per assorbire i frutti invenduti ai trasformatori lo stato si faceva carico di acquistarne circa 60 quintali l’anno.
Il risultato di queste dinamiche sconsiderate e poco lungimiranti è stato un progressivo abbandono, a partire dagli anni Settanta, delle colture. In quel periodo sono stati tantissimi i proprietari che hanno venduto i loro terreni, soprattutto quelli prossimi agli agglomerati urbani, sui quali, per un certo lassismo amministrativo, sono poi proliferate le costruzioni abusive che, dopo il bergamotto, sono un nuovo elemento caratterizzante di questa zona. L’obiettivo è concentrare la produzione finale in grossi latifondi di modo che la torta venga divisa fra pochi. In questo senso vanno anche gli aiuti regionali che sono preclusi ai terreni al di sotto dei 5 ettari ma, nel caso di coltivazioni biologiche la soglia è di due. Un puzzle che come risultato produce lo scippo del bergamotto dalle mani dei suoi naturali proprietari: “i bergamottari” di Reggio Calabria.
Il filmato è stato realizzato da Francesca Clementoni e Mariangela Latella.