Se lo scopo della pubblicità è quello di vendere facendo leva sui nostri desideri, è significativa la perversione che il marketing riesce a raggiungere come specchio della fine del desiderio e la sostituzione di questo con un diritto fondamentale che dovrebbe essere garantito.
“Unemployee of the year” è un/ una disoccupato/a che Benetton premia. L’immagine (quasi una riduzione in scala del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo) raffigura un gruppo di giovani, con lo sguardo verso l’alto, e uno di loro, a turno, avanti, che li guida, o se si vuole, che emerge. Ciascuno è accompagnato da una scritta, con nome cognome, nazionalità, età e il lavoro che sogna di fare e che appunto, non fa. Per cui c’è Valentina, italiana, 30 anni “non avvocato” , Fam, senegalese, “non-uomo politico”, Michaela, 29 anni, ceca, “non-fotografa”. Accanto, un claim che denuncia la disoccupazione come se fosse un dato da rivelare e non da risolvere.
La vendita avviene quindi con la vendita del disagio, o meglio della povertà. Così Benetton che si è sempre servita del malessere sociale quest’anno ha lanciato una campagna sulla generazione Neet (dall’inglese ‘Not in Education, Employment or Training’), cioè giovani tra i 18 e i 30 anni, che non studiano e non trovano lavoro, neanche come stage. In Italia sono almeno due milioni. Nella maggior parte dei casi sono le vittime principali di una decomposizione sociale che affonda le radici in un lontano passato, in cui si diceva che bastava darsi da fare per farcela, e era tutta una sfida e una retorica tra vincenti e perdenti. Benetton con la sua campagna ripara la cattiva coscienza, e se la vende anche. Bandisce un concorso (un contest) per premiare l’iniziativa migliore proveniente da un Neet, cioè da un emarginato, disperato, appunto, il cui rifiuto sociale è all’origine dell’incapacità, in buona parte anche psicologica, di muoversi e anche di provare.
Il desiderio evocato coincide quindi con un diritto fondamentale che gli industriali chiedono a gran voce di tutelare sempre meno, cioè il lavoro. Per cui il messaggio è che desidero un lavoro come desidero delle scarpe di pitone o un vestito appunto, che corrisponde anche alla mia dignità di essere umano.
Benetton, col suo concorso all’interno di www.Unhate.benetton.com (“non odiare”, e c’è anche un invito alla bontà) premierà, con un non-posto di lavoro la migliore “nullità” che riuscirà a emergere con un progetto, per un totale di cinquemila euro. A metà tra la carità e l’insulto. La perversione tuttavia non è solo questa. Ci si rivolge a un target di persone che non guadagna, e che non si vestirebbe mai con nemmeno uno solo dei capi Benetton anche perché non ne avrebbe le possibilità. Tale voragine di logica, è come al solito spiegata con la parola passe-partout “ironia”. Questo Quarto Stato in miniatura non è infatti di straccioni, ma di vetero yuppies ben vestiti, che sono invece la raffigurazione migliore di quanto poi è accaduto: non si è premiato il merito, se n’è solo parlato, e i giovani che entravano erano solo gli stessi appartenenti alle classi privilegiate. Allo stesso modo la clip parte della campagna, mostra ragazzi che vanno in un ufficio di collocamento, dove tristemente viene messo un timbro sul foglio di impiego “lavoro temporaneo”. Ragazzi rifiutati, con una voce sottofondo che sottolinea che le loro qualità anche sono rifiutate. E allora manifestano, ma gentilmente, senza disturbare, e del resto la conclusione è che l “umployee of the year” diventa il piccolo eroe del filmato. Grazie alla partnership con Mtv e alcuni media digitali, United Colors of Benetton trasmetterà questi spot di invito all’ “azione” in più di 35 paesi. Le idee premiate saranno 100. Nel discorso politico italiano i Neet sono invece i “bamboccioni”, e questa è anche la spiegazione della ragione della loro condizione. Una parola tombale, capolavoro di ignoranza politica e sociale con cui l’ex ministro Padoa Schioppa affossò una generazione di giovani e anche meno giovani.
Filosofi o psicologici come Stefano Zecchi o Paolo Crepet (quest’ultimo è perfino direttore scientifico della Scuola per genitori di Confartigianato Impresa Famiglia sovvenzionata da Confartigianato) hanno completato il lavoro. Su Il Giornale Zecchi scriveva che era colpa di “mammà” e del ’68. Delle donne e della rivoluzione quindi. E Crepet, sempre colpa di un lassismo e di una tutela eccessive. Che saranno anche componenti ma certo non all’origine del disastro della disoccupazione giovanile.
Ma sulla stessa linea schizofrenica di Benetton, anche peggiore se possibile, viste le implicazioni istituzionali, è stato l’Eni sponsor principale e assai poco discreto del grande forum sulla cooperazione internazionale, organizzato dal ministro Riccardi, che si è svolto a Milano i primi di ottobre. Per chi vive nel Delta del Niger o in altri luoghi devastati dallo sfruttamento del petrolio da parte delle multinazionali, Eni è il contrario di sviluppo, e incarnazione della violazione di diritti umani, come anche ha rilevato Amnesty International.
Già tre anni fa Renault aveva fatto una pubblicità, sempre con riferimento alla disoccupazione, ma meno diretta. Una madre in auto con accanto la figlia adolescente si ferma a un semaforo. Nell’attesa si nota un manifesto di una ragazza nuda distesa davanti a un locale notturno. La ragazza è impaurita, poiché quella ragazza è lei, e quindi teme di essere scoperta. La madre si accorge del manifesto e invece rivolta alla figlia sorride contenta: “non sapevo che avessi trovato lavoro”. La Renault lo ha rivendicato come spot al passo con i tempi. Infatti in Francia come in Italia è sempre più elevato il numero di ragazze che si prostituiscono per pagarsi gli studi.
In questa stessa direzione di prostituzione come alternativa alla disoccupazione e come accesso al lavoro e al potere, va anche la recente pubblicità di costumi Parah che ha utilizzato la consigliera regionale Nicole Minetti. La ragazza come emerge dalla cronaca ha avuto quel posto in cambio delle prestazioni sessuali con Berlusconi, il quale ha girato alla collettività il pagamento dei favori della ragazza. Indagata per induzione alla prostituzione è l’epitome del corpo in vendita al potente e del fallimento delle politiche del lavoro. La pubblicità è stata rivendicata dalla stessa consigliera “un aiuto all’industria”. Che, da una parte, è anche vero.