Manifesta inammissibilità. Altrimenti detto, nessun appiglio possibile per permettere al legale di vedersi liquidato l’onorario in base alle norme vigenti all’inizio del procedimento e non calcolandolo sulle disposizioni entrate in vigore in “corso d’opera”.
La Corte costituzionale ha così rigettato l’istanza del tribunale di Cremona che aveva chiesto al giudice delle Leggi di pronunciarsi in merito all’articolo 9 del decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1 («Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività») nella parte in cui «dispongono l’applicazione retroattiva delle nuove tariffe forensi anche ai processi in corso e anche all’attività già svolta ed esaurita prima della sua entrata in vigore».
Il calcolo del dovuto – Alla Consulta sono arrivate otto ordinanze, riunite in un solo giudizio per la sovrapponibilità delle questioni proposte, genericamente legate ad un presunto «mutamento dell’equilibrio contrattuale a suo tempo concordato» per via della cambio in corsa dei parametri per il calcolo dei compensi applicabile dalla data di entrata in vigore del Dl 1/2012 a tutti i procedimenti, da quelli futuri a quelli per cui ancora andava presentata fattura e in corso. Dove sono le ragioni imperative di interesse generale suscettibili di giustificare il mutata mento dei compensi in corso di causa, chiedono i rimettenti?
La risposta della Consulta mina alle basi il presupposto dei rimettenti, cassando la parola retroattività in riferimento alla norma dato che il compenso del professionista non si cristallizza al compimento di ogni singolo atto del suo operare – caso nel quale andrebbe calcolato sulle tariffe vigenti in quel preciso momento – ma alla sua conclusione, concretizzandosi nell’emissione di una parcella. Al contrario, argomentano i giudici, richiamando le Sezioni Unite della Corte di cassazione (sentenza n. 17405/2012) a conferma di un pregresso consolidato orientamento, quel compenso costituisce un corrispettivo unitario, «che ha riguardo all’opera professionale complessivamente prestata; e di ciò non si è mai in passato dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all’esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacché sempre in siffatti casi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita».
I conti della serva – La soluzione prospettata dai giudici è tra l’altro quella più ragionevole dal punto di vista logico e la maggiormente monitorabile da parte del cittadino. La possibilità di fatturare seguendo schemi tabellari differenti, senza avere un regime transitorio indicato da norma di legge, su uno stesso procedimento rischierebbe di immettere in circolo una serie di parcelle “incontrollabili” senza ricostruire l’intreccio tra le norme intervenute e i tempi processuali. Tempi che potrebbero risalire molto indietro nel tempo viste le statistiche sulle durate medie di un procedimento. Lo stesso esempio portato dai tribunali come ipotesi di violazione dell’articolo 3 della Costituzione viene utilizzato per rafforzare i motivi su cui si basa la pronuncia: la possibilità che due avvocati, pur avendo «posto in essere il medesimo adempimento in una stessa data», si vedano corrispondere due importi diversi per via della differente solerzia nel chiedere il pagamento della parcella, è un «inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla disciplina denunciata, bensì a variabili accidentali legate alla sua applicazione».
L’asticella dei costi – Nelle pieghe della pronuncia si inserisce un interessante richiamo al costo dell’accesso alla giustizia. La prospettiva sottoposta alla Consulta sulla presunta violazione dell’articolo 24 della Costituzione per i giudici «non è sostenibile» perché una «generale riduzione delle tariffe forensi» non può incidere in senso limitativo sull’accesso dei cittadini alla giustizia e quindi sul loro diritto di difesa: la tesi sostenibile per la Corte è semmai quella inversa perché «a rigor di logica, la riduzione dei compensi agli avvocati dovrebbe condurre ad un allargamento del ricorso alle vie giudiziali».
Corte Costituzionale, ordinanza 7 novembre 2013 n. 261