Graditissimo dal pubblico il ritorno di Marcello Panni all’Accademia di Santa Cecilia di Roma, in un concerto alla Sala Sinopoli dove ha diretto, con il mezzosoprano Cristina Zavalloni e con l’Orchestra da Camera di Santa Cecilia, la Suite dall’Histoire di Soldat di Stravinskij, i Folk Songs di Luciano Berio e due suoi lavori, La terra del rimorso (del 2013) e una novità assoluta, e intitolata Le vesti della notte.
È stata una lettura di grande verve e caratterizzata da un gusto molto fisico del suono, ma anche l’occasione per riscoprire un musicista che ha attraversato da protagonista gli anni “ruggenti” dell’avanguardia musicale in Italia. Nato a Roma nel 1940, allievo di Goffredo Petrassi, Boris Porena, Max Deutsch, si è affermato molto presto come direttore d’orchestra, soprattutto nel repertorio contemporaneo (ha studiato con Franco Ferrara e Manuel Rosenthal; ha diretto prime di Luciano Berio, Sylvano Bussotti, Aldo Clementi, Francesco Pennisi, Diether Schnebel, John Cage, Morton Feldman, Philip Glass), è stato professore di composizione al Mills College di Oakland, e sempre attivo come organizzatore, direttore artistico e musicale (dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano, dell’Opera di Bonn, dell’Opera e dell’Orchestra filarmonica di Nizza, dell’Accademia Filarmonica Romana, del Teatro San Carlo di Napoli, dell’Orchestra Sinfonica Tito Schipa di Lecce). Negli anni Novanta molti suoi lavori sono stati dedicati al teatro musicale: la sua prima opera Hanjo, tratta da un Nô moderno di Yukio Mishima, è stata rappresentata nel 1994 al Maggio Musicale Fiorentino, con la regia di Robert Wilson; nel 1996 all’Opera di Bonn ha invece debuttato Il giudizio di Paride, opera tratta dai Dialoghi di Luciano di Samosata; nel 1998 è nata The Banquet, opera ispirata a un avvenimento storico (il banchetto organizzato da Picasso per festeggiare il ritorno a Parigi di Guillaume Apollinaire, ferito in guerra), trasformato in un “simposio” platonico (al quale partecipano, oltre a Picasso e Apollinaire, anche Erik Satie, Filippo Tommaso Marinetti, Gertrude Stein, Marie Laurencin); nel 2005 è stata la volta di Garibaldi en Sicile, presentata al San Carlo di Napoli, e tratta da Les Garibaldiens di Alexandre Dumas padre.
Tutti questi lavori sono accomunati da un approccio molto concreto, artigianale con gli strumenti della composizione, da un profondo senso del teatro, e da una segreta nostalgia le avanguardie musicali di un tempo. Marcello Panni ricorda così la vita musicale in Italia nel secolo scorso:
Dopo Vienna, Roma
«Penso di essere un epigono del Novecento, e come tutti gli epigoni canto la morte di una civiltà. Non siamo certo nel 1914 a Vienna. Siamo nel 2014 a Roma, ma insomma, l’atmosfera è la stessa. Ho vissuto tutte queste esperienze dell’avanguardia, ne sono stato partecipe direttamente. Ma è un mondo praticamente scomparso, di cui è rimasta solo la nostalgia. Non ci sono più figure come Aldo Clementi o Franco Donatoni. Petrassi negli ultimi anni della sua vita era molto amareggiato perché nessuno eseguiva più la sua musica. E se la musica di Luciano Berio continua ancora a circolare, altri musicisti straordinari sono stati completamente, e ingiustamente dimenticati. Per esempio Mario Peragallo, che è stato un gradissimo compositore. Negli anni Sessanta il Festival di Palermo o la Biennale di Venezia erano punti di incontro di tutta la musica mondiale, da Cage a Nono, da Stockhausen a Boulez, a Kagel. Avevi l’impressione di essere al centro di un grande movimento, che a poco a poco si è diviso, e poi dissolto. Io sono di una generazione di mezzo, ma era eccitante vivere in un mondo così. Tutto questo però è scomparso, anche perché è scomparso il pubblico che ascolta la nuova musica…»
Anche il concerto al Parco della musica faceva un po’ l’effetto nostalgia, con le musiche di Stravinskij e di Berio abbinate a quelle di Panni, che ne sembravano la continuazione, pur mostrando freschezza, originalità e un solido istinto musicale. Soprattutto i tre pezzi della Terra del rimorso(Taranta indiavolata, Canto d’amore, Pizzica di Cosimino, tratti dalla serie dei «Popsongs» del 2013, punteggiati da temi famosi, come vere e proprie icone musicali), erano basati sullo stesso organico dell’Histoire du soldat, ed esplicitamente dedicati allo spirito di Stravinskij e all’anima di Luciano Berio. Lo spunto iniziale della composizione era il celebre libro di Ernesto De Martino, La terra del rimorso (1961), che indagava il legame tra uomo e natura nella società del Salento, dove il ballo della Taranta aveva un valore magico e curativo che ne moltiplicava i significati e la valenza emotiva. Con un gusto ironico, e una grande abilità nella deformazione ritmica e armonica, Panni mescolava i ritmi di questa danza, i fremiti delle tarantelle, il suono del violino e della tammorra (grande tamburo a sonagli) con uno spirito rusticano, molto vivido e sanguigno. Il nuovo pezzo commissionato dall’Accademia di Santa Cecilia, e intitolato Le vesti della notte, era invece concepito come una cantata, su versi di Omar Khayyàm. Scienziato, poeta e filosofo persiano, esperto di matematica e teologia, astronomo alla corte dei Selgiuchidi, presso i quali si adoperò per una riforma del calendario, forse condiscepolo di Ḥasan ibn al-Ṣabbāḥ (1034-1124), il famoso “Vecchio della Montagna” (capo della famigerata setta al-Hašīšiyyūn, al quale si è ispirata l’opera di Bernhard Lang, Der Alte vom Berge, del 2007), Khayyàm è oggi ricordato soprattutto come poeta, per le sue concise e rimate quartine, tradotte nel 1959 da Edward Fitzgerald (la sua vasta antologia fu alla base della fama di Khayyàm in Europa) e poi in altre lingue. Panni racconta la genesi di questo lavoro: «Il testo è stato una scelta casuale. Ero stato invitato a partecipare all’omaggio a Omar Khayyàm da un festival in Marocco. Commissione che poi non si fece. Ma mi sono dedicato a fondo alla lettura di questa poeta, che mi è piaciuto moltissimo. Ho letto traduzioni inglesi, francesi, italiane, e ho trovato queste poesie adatte per una cantata sulla tema della morte e della vanitas [temi ricorrenti anche in altri lavori di Panni, come l’opera Il Giudizio di Paride], perché come compositore ho un lato burlesco e uno più tragico. Tra un migliaio di Quartine scritte da Khayyàm, ne ho scelte sette e ho deciso di metterle in musica, nella forma di una grande cantata sul vino e sulla morte, che intitolerò Requiem per Omar Khayyàm. Immagino sette parti con organici diversi (le prime tre sono quelle eseguite in questo concerto), nella parte intermedia dei pezzi per coro a cappella, e alla fine una grande sezione con coro, mezzosoprano e grande orchestra. Insomma una specie di work in progress, concepito come una struttura “per aggregazione”, che va dalla piccola alla grande forma».
Fra il vino e la morte
Nel trittico Le vesti della notte, Panni ha utilizzato delle quartine ispirate a un tema ricorrente in Khayyàm, il rapporto fra il vino e la morte. Basta leggere le prime due per comprendere il senso profondo di questo legame: 1) Il vino e la tomba «Quand’io morrò nel vino mi lavate / e vino puro per viatico mi date / nel giorno estremo se mi cercherete / nel suolo d’una bettola scavate»; 2) Tanto vino berrò «Tanto vino berrò che dalla tomba / quando sotterra andrò verrà un odore / che se alla tomba mia giunga un beone / all’odore del vino ebbro precipiti». Il compositore ha utilizzato diverse traduzioni (in italiano, inglese e francese) che corrispondono anche a un diverso trattamento vocale e stilistico all’interno di ciascun pezzo: «Ho usato diverse traduzioni perché mi interessava il suono della lingua, la sua musicalità. La traduzione in italiano corrisponde alle sezioni stilisticamente più contemporanee in ciascun pezzo. È uno stile che ricorda quello di Petrassi e Dallapiccola, o di certi lavori vocali di Clementi e di Berio. Perciò questo Requiem per Khayyàm è anche un Requiem sulla musica del Novecento». L’orchestrazione, raffinata e mobilissima, aveva spesso la funzione di amplificare le inflessioni del canto, ma altrove emergeva con sonorità dense, effetti percussivi ottenuti anche colpendo gli strumenti ad arco con le mani. La linea vocale, piena di melismi e glissandi dal gusto vagamente orientale, e a volte quasi parlata come uno Sprechgesang, si combinava con un complesso gioco ritmico, ricavato direttamente dalla struttura metrica dei versi, e caratterizzato da continui sfasamenti e cambi di tempo.