Dep. LOMBARDI: Ora ci domandiamo su quali personaggi invece voi facciate affidamento (…) Qualcuno lo abbiamo visto nel corso dell’esame della legge di stabilità e siamo riusciti anche a cacciarli: i lobbisti. Parlo di Tivelli, che siamo riusciti a tirar fuori dal mercato del Parlamento, ma tanti altri ce ne sono e tanti altri ne tireremo fuori nei prossimi mesi. Quindi, voi fate affidamento su questi personaggi, che sono portatori di interessi di grossi gruppi di potere e non certo dei cittadini. (Resoconto stenografico dell’Assemblea della Camera dei deputati di mercoledì 19 febbraio 2014)
Sen. BOTTICI: Ho lamentato, in più di un’occasione, l’indispensabile pubblicazione sui siti istituzionali di alcune tipologie di dati. Recentemente ho richiesto, a chi di competenza, in merito alle imminenti nuove nomine per la sostituzione del Vice Segretario generale del Senato, che queste rispettino i criteri di pubblicità e trasparenza. Solo così le cose nel nostro Paese ritorneranno a funzionare.
Ho anche presentato un emendamento che prevedeva di inserire l’articolo 1-bis, che mirava al controllo delle spese nei Consigli regionali, affinché la Corte dei conti potesse controllare il rendiconto generale dell’Assemblea o dei Consigli regionali, verificarne le spese e le entrate e se queste sono state effettivamente sostenute o percepite, direttamente a monte e non a seguito di un giudizio penale. (Resoconto stenografico dell’Assemblea del Senato della Repubblica di giovedì 20 febbraio 2014)
Sen. BUEMI: L’emendamento vuole richiamare l’attenzione sul principio dell’autodichia, sul fatto che la nostra Camera (e ovviamente quella corrispondente) gode di un trattamento, una sorta di riserva gestionale e di verifica, di cui non gode il resto della pubblica amministrazione. La vicenda degli affitti d’oro pone interrogativi forti rispetto alla situazione della spesa pubblica.
Dobbiamo avere il coraggio di affrontare questa questione, perché ci libera da un giudizio che non meritiamo per la nostra attività più complessiva, ma su questo punto l’opinione pubblica ha ragione. L’autodichia deve servire a garantire la procedura democratica all’interno di queste Aule; non deve garantire riserve particolari in termini di trattamento del personale, delle forniture o di quant’altro riguardi la normale gestione di questi organi. (Resoconto stenografico dell’Assemblea del Senato della Repubblica di giovedì 20 febbraio 2014)
Nelle sedute delle Camere dell’ultima settimana, di tutto sembrava si parlasse, fuor che di misure generali ed astratte. In molti profili, la trattazione non si è spinta molto lontano dall’ambiente in cui parlavano gli oratori, avendo incrociato questioni come la gestione del personale e dei palazzi delle Camere.
Ci si potrebbe chiedere se non sia un sintomo del degrado della politica se essa contempla il suo ombelico, con una oratoria a chilometri zero: i cedolini degli stipendi sul web e le forniture edili di un micro-insieme territoriale (la politicopoli di Roma, non più grande del Vaticano) possono mai sostituire, in un’Aula legislativa, l’attenzione per le tematiche del Paese nella sua interezza? Certo che no, verrebbe da dire: eppure, se a questo siamo arrivati, è anche perché la richiesta che viene dal Paese è proprio quella di capire motivi e ragioni di ogni eccezione alla “grande regola” dello Stato di diritto. Si chiede di vedere, nella massima dirigenza nazionale, quel segnale di razionalizzazione e di moralizzazione che si richiede insistentemente alla stragrande maggioranza dei cittadini.
Ecco allora che inquieta l’esistenza stessa del dubbio, in ordine all’applicazione degli obblighi di trasparenza degli emolumenti per i futuri dirigenti delle amministrazioni parlamentari. Ecco che emerge come inaudita la sottrazione dei rendiconti delle spese dei consigli regionali ai controlli della Corte dei conti (in base ad una legge del 1973 che invano si è chiesto di abrogare). Ecco che sorprende come – per la seconda volta in un mese – ci sia stato bisogno di norme sul recesso dagli “affitti d’oro” della Camera, come se non bastassero già le norme generali introdotte dal governo Monti per tutte le pubbliche amministrazioni. Si tratta delle norme invocate, a quanto pare invano, dal deputato questore Dambruoso in un colloquio con Scarpellini, di cui il primo ha reso edotti i telespettatori di Porta a Porta, visto che non c’è una sede parlamentare in cui parlarne.
Più in generale, è stupefacente come una sede per rispondere – o anche per discutere – di tutto questo non ci sia: persino a Westminster si è adoperato lo strumento dell’interrogazione per richiedere – alla H.C. Commission che si occupa degli affari interni della Camera dei comuni – lumi su alcuni profili gestionali oggetto di pubblico interesse. Da noi niente di tutto questo: siamo affezionati ad una concezione d’antan del parlamentarismo che non esiste neppure nella patria del Parlamento moderno, per cui è anche naturale che il diritto di parola, il parlamentare, se lo prenda con la forza, intervenendo su ogni provvedimento latamente conferente alle questioni interne ai Palazzi che, volta a volta, richiamano sempre di più l’attenzione dell’opinione pubblica.
Fare altrimenti significherebbe essere succubi di una vera e propria congiura del silenzio: quando il governo Letta cercò di disciplinare le lobbies con norme di rango primario, gli si oppose l’autonomia normativa delle Camere sul punto, e non se ne fece niente. Il caso dell’espulsione dai palazzi di un lobbista, decisa a gennaio dalla presidente Boldrini, è l’eccezione che conferma la regola, perché, per farlo esplodere, si dovette ricorrere a metodi subdoli: la registrazione, carpita a sua insaputa, delle sue vanterie sulla riformulazione dell’emendamento, concernente il tetto del cumulo pensione-stipendi (il che delimita alquanto l’ambito di operatività del suo gruppo di interesse, una nicchia assai ridotta di dipendenti di organi costituzionali, il cui regime previdenziale singolare si sottrae al generale divieto di cumulo). L’Ufficio di Presidenza della Camera, in sede di ritiro del passi, ha mantenuto nei suoi atti riservati tutto il gustoso caso della revoca del permesso di accesso a Montecitorio di un soggetto legittimato aliunde al medesimo accesso, in quanto pensionato di quella stessa Amministrazione.
Ma non si tratta dell’unica aberrazione. Quando l’Ispettorato del lavoro del Lazio chiese alle Camere i contratti dei portaborse, due vicepresidenti del Senato uscirono dal Consiglio di Presidenza annunciando alla stampa che avevano richiesto ed ottenuto il voto, risultando soccombenti a stretta maggioranza. Eppure, nulla di tutto ciò emerse dal resoconto pubblicato di quell’organo, con cui il vertice del Senato oppose l’inviolabilità della sede, apparentemente senza obiezioni, alla richiesta dell’Ispettorato. Per la cronaca, la Camera acconsentì invece all’accesso, ma l’effetto non fu meno aberrante: accontentandosi di un controllo meramente cartaceo (cioè senza controllare passi, accessi ed utenze effettivamente utilizzate), di contratti l’Ispettorato ne trovò così pochi, da penalizzare proprio quei gonzi che si erano premurati di depositarli (sottoposti a controlli e sanzioni, cosa che invece non avvenne per i molti deputati che avevano semplicemente ignorato la circolare Bertinotti).
Le due Assemblee non hanno mai potuto discutere di nulla di tutto ciò: la tanto vantata “autonomia” degli organi costituzionali (che ogni legge si premura di “rispettare”, dettando meri princìpi, rispetto alle prescrizioni che colpiscono tutte le altre pubbliche amministrazioni) si traduce nella possibilità delle loro Presidenze di scegliere, come petali della margherita, se e quali leggi dell’ordinamento “esterno” applicare al proprio interno. Ciò non per le funzioni costituzionalmente conferite a tali organi, ma alle attività in cui esse si atteggiano in modo analogo a qualsiasi altra pubblica amministrazione.
Ecco perché l’inchiesta dell’Espresso della scorsa settimana – sui massimi emolumenti dei dipendenti pubblici – non ha potuto essere esaustiva, ed ha lasciato righi in bianco quando si è arrivati ai dirigenti della Presidenza della Repubblica e del Senato: queste due amministrazioni ritengono di non essere sottoposte al decreto n. 33 del 2013 (così come la stessa Camera dei deputati, che ha conferito i dati sul proprio sito solo con la precisazione che si trattava di una graziosa concessione, non dovuta). Ecco perché alle richieste (in sede di discussione del bilancio interno) di conoscere le modalità di applicazione dei decreti Tremonti sul taglio delle spese di rappresentanza, non si è mai data alcuna risposta. Ecco perché mille e mille piccoli privilegi, che affiorano periodicamente sulla stampa scandalistica, non sono spiegati altro che con il trito ritornello secondo cui gli organi costituzionali sono a world apart, in cui la produzione normativa cammina – se va bene – parallelamente a quella degli altri cittadini, ma può anche divergere ed in certuni casi addirittura contrapporsi.
Si potrebbe ritenere che, a tutela dell’uniformità dell’ordinamento, agiscano gli organi giurisdizionali interni, di cui l’autodichia si è dotata, dopo la sentenza n. 154/1985 della Corte costituzionale. Errore! Non solo questi organi non riconoscono la supremazia della Cassazione; non solo i “giudici domestici” delle Camere dichiarano di operare essi stessi il sindacato di costituzionalità che, fuori dei palazzi, dal 1957 è accentrato nella Corte costituzionale. Da essi proprio vengono alcuni dei più discussi casi di discrasia tra ordinamento interno e legge esterna.
Uno di questi casi è emerso in Sicilia questa settimana: in virtù dell’equiparazione normativa del personale del locale parlamentino con quelli del Senato, anche a Palermo fu compiuta la ricostruzione retroattiva di stipendi e pensioni con l’aggiunta di un anno di servizio militare. Si trattava di un beneficio accordato da una legge del 1986, che però una successiva legge del 1991 aveva interpretato autenticamente come NON retroattiva. Eppure, nel mezzo, si era incuneata la decisione dell’organo di giurisdizione domestica del Senato, che aveva accordato la retroattività: giudicato maturato per i ricorrenti dipendenti del Senato e, quindi, non revocato dopo la legge Del 1992, ma anzi esteso ai “cugini” di palazzo dei Normanni. La differenza, però, è stata che qui un giudice esterno c’era e, quando compulsato, esso non ha mancato di far prevalere la legge sulle bislacche interpretazioni date dai “giudici domestici” di Roma (vedi la vicenda ricostruita).
Né si tratta dell’unico caso in cui un’Amministrazione costituzionale, a parole vogliosa di uniformarsi alle best practices valide per tutti, si è vista smentire dai giudici interni: un’amministrazione prontamente disposta a ricredersi, tant’è vero che tutte inappellate sono le sentenze di primo grado, in cui ex parlamentari hanno ottenuto benefici pensionistici, riespandendo ad personam (cioè solo per gli occhiuti ricorrenti) diritti previdenziali in linea di principio revocati dalle misure di rigore introdotte dal presidente Marini.
Certo, si tratta di considerazioni che nessuno porterà allo scrutinio del Giudice delle leggi, se non altro perché non c’è una legge da impugnare: come fecero notare nella scorsa legislatura i disegni di legge Bernardini, Maritati e Leddi (ripresi in questa legislatura dal senatore Buemi, il cui testo è leggibile in allegato scaricandolo dall’elenco allegati in alto a destra accanto al titolo o cliccando qui), l’argomento formale della sentenza n. 154 del 1985 sancisce un’invalicabilità che è quanto meno sospetta. La piramide rovesciata dell’ordinamento interno delle Camere si fonda infatti su un assioma: tutto questo complesso sistema di deroghe converge su un punto soltanto, che è quello della sottrazione dei dipendenti dalla giurisdizione esterna. Sulla pedata al maggiordomo infedele – con cui nella Real Casa si regolavano i conti, senza possibilità di appello al giudice esterno – si è infatti costruito il dogma dell’autodichia, dal quale si è fatta discendere la sottrazione degli organi costituzionali dal dominio della legge “esterna” (tecnicamente “autocrinia”).
Questo dogma mostra la corda per argomenti giuridici spesi, ancora una volta, in una questione di legittimità costituzionale di imminente discussione: quella sollevata dalle sezioni unite civili della Cassazione con ordinanza n. 10400 del 2013. Ma esso contrasta, soprattutto, con evidenze di semplice buon senso: che cosa pensare di una dottrina così proteiforme da cambiare veste ogni qual volta se ne dimostrino le debolezze?
Era l’articolo 68 Cost. ed il sistema immunitario parlamentare a fondarla, si diceva, “come estensione dell’inviolabilità dei Palazzi”. Peccato che le immunità “di tipo geografico” siano state da lunga pezza delimitate secondo una filosofia “funzionalista”; nulla di funzionalista c’è, invece, in una dottrina che mette sullo stesso piano l’inammissibilità di un emendamento e l’inimpugnabilità al TAR dell’esclusione ad una gara d’appalto per il ristorante dei deputati.
Subito i doviziosi giuristi di Palazzo ripiegarono sull’articolo 66 Cost. e sul giudizio sui titoli di ammissione dei parlamentari: esso sarebbe la spia di un potere giurisdizionale “originario”, la cui emersione di diritto positivo sarebbe solo la punta di un iceberg. Ma l’indebolimento della giurisdizione sui titoli ha finito inevitabilmente per rendere precario anche il fondamento di “tutto il resto”: del resto, se nel 2002 si è abbandonato il principio della trasformazione delle cause di ineleggibilità sopravvenuta in cause di incompatibilità, coll’argomento che difettava una copertura di diritto positivo, come si poteva pretendere che la stessa carenza non producesse lo stesso effetto per le altre materie, oggetto di “giurisdizione domestica”?
L’ultima trovata, quella dell’articolo 64 Cost., ripiega proprio sul diritto positivo, cercando di scimmiottare Montesquieu: l’istituto continua ad essere definito autodichia, ma in realtà il relatore Ferrari nel 1985 cercò di riportarlo nel diritto sostanziale, come autocrinia. In altri termini, le Camere sarebbero legittimate a regolamentare la loro autorganizzazione amministrativa da soli, senza soffrire di alcun limite o interferenza: l’argomento, valido per le funzioni legislative delle Camere (e quelle ispettive e di indirizzo politico), sotto il pelo dell’acqua accomunerebbe a tali funzioni il giudizio di lavoro per il dipendente, ricorso gius-appaltistico sulle forniture e, perché no, anche giudizio di revisione contabile “interno” sui conti dei gruppi parlamentari. Quando si è arrivati a farvi rientrare anche il benservito dato dal vicepresidente Fisichella ad un suo gabinettista, con cui s’era interrotto il rapporto fiduciario dopo la partecipazione al Gay Pride del 2004, si è capito come anche questa tesi mostrasse la corda.
Ci sono arrivati, nella scorsa legislatura condotta alla Camera, i radicali che chiedevano accesso ai documenti giustificativi delle spese dell’Amministrazione; ma ci sono arrivati anche tutti coloro che richiedono perché alcuni principi di buona amministrazione, corretto andamento della spesa pubblica e qualità di gestione – pur proclamati dalla legge – debbano essere mediati da ulteriori passaggi quando vanno “recepiti” dagli organi costituzionali.
Forse il diritto del lavoro, in tutta questa guerra sotterranea, è in assoluto il più adattabile al modello esterno: proprio perché la norma dispositiva non preclude la contrattazione integrativa, si può tranquillamente ammettere che su alcuni singoli profili retributivi – e, perché no, organizzativi delle risorse umane e del rapporto d’ufficio – le determinazioni dei Consigli di Presidenza di Camera e Senato subentrino con regolamentazioni di settore (né più né meno di quel che accade in molte unità produttive di lavoro pubblico e privato, mediante intese tra datori e sindacati). Ciò che non è però assolutamente ammissibile è che queste determinazioni neghino ingresso alla giustizia resa da un organo terzo, imparziale ed esterno all’amministrazione che è parte dell’accordo.
La piramide rovesciata punta quindi tutta sulle spalle di Atlante, cioè i dipendenti degli organi costituzionali: coloro che, sulla volontà di affermare i loro diritti di cittadini e di lavoratori, per decenni hanno fatto prevalere un malinteso senso dell’appartenenza. Le traversie sindacali di questi mesi non hanno fatto recedere molti di loro dalla presunzione, secondo cui rinunciare ad un diritto – in cambio della livrea gallonata – è conveniente e, al fondo, un giusto portato del servizio richiesto dalle massime Istituzioni del Paese. Eppure anche il sentimento di appartenenza cede dinanzi alla beffa, il che avviene quando l’autodichia da madre diventa matrigna.
È quanto avviene nella fattispecie oggetto del giudizio in Cassazione, da cui è gemmata l’ordinanza n. 10400/2013, di nuova rimessione della questione di costituzionalità dell’autodichia. Anche in questo caso, come nel riconoscimento dell’anno di servizio militare, i giudici domestici avevano dato ragione al dipendente ricorrente: ma, a differenza della pronuncia incuneatasi tra la legge del 1987 e la sua interpretazione autentica del 1991, in questo caso l’Amministrazione non aveva dato corso al giudicato interno, contenente l’inequivocabile riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori. Proprio all’opposto del dovizioso riguardo dimostrato dall’amministrazione del Senato, quando decise di adempiere alla “sentenza domestica” ricostruendo la carriera di decine di dipendenti con l’anno di servizio militare, in questo caso essa ha resistito nel giudizio di ottemperanza; proprio all’opposto della riguardosa acquiescenza dimostrata nel 1991 nei confronti di una decisione del primo grado, lasciata passare in giudicato senza neppure appellarla, nel caso di vent’anni dopo l’Amministrazione ha disatteso l’obbligo di ricollocamento del ricorrente vittorioso nel settore di professionalità tecnica anteriore al demansionamento. Anzi, essa – adita in ottemperanza – ha ottenuto ragione da collegi di autodichia, diversi da quelli che avevano espresso il giudicato favorevole al dipendente.
La frontiera quindi è tutta interna alla condotta delle Amministrazioni costituzionali: sulle disparità tra dipendente e dipendente, tra ricorrente e ricorrente, si gioca il futuro di quest’anomalia, tanto forte da giustificare i riflessi pavloviani che hanno indotto i Presidenti delle Camere ad intervenire ad opponendum a palazzo della Consulta: pur essendo occupate da personaggi esterni alla politica romana fino ad un anno fa, le due Presidenze si sono disciplinatamente costituite in giudizio contro la Corte di cassazione.
In altri termini, chi cerca l’ombrello dell’autodichia per argomentare improbabili sottrazioni alla legge delle proprie attività – quando queste di politico hanno solo la qualità personale dell’agente ma non la funzione svolta – ha la necessità assoluta di invocare il precedente dei dipendenti e del loro status sottratto alla legge esterna. Quel che è più curioso è che anche la Presidenza del consiglio dei ministri s’è costituita a difesa dell’ “eccezionalità” delle Camere, contro la Cassazione; la stessa Presidenza del consiglio che, la prima settimana del governo Renzi, ha scelto invece di contrapporsi al Consiglio regionale del Piemonte, nel ricorso che questa regione ha sollevato contro la Corte dei conti (che pretendeva di controllare le spese dei gruppi consiliari). Non si tratta di casi diversi, come potrebbero apparire ad una occhiata distratta: l’accezione “geografica” della guarentigia delle assemblee legislative è respinta dalla Cassazione con uguale coerenza, sia quando solleva la questione di costituzionalità contro l’autodichia, sia quando respinge l’obiezione della Camera secondo cui i rimborsi elettorali, ripartiti dalla locale Presidenza, sarebbero stati insindacabili ed inimpugnabili dinanzi al giudice esterno, sol perché erogati da un organo soggettivamente esterno alla pubblica amministrazione.
Si può così, per sommi capi, apprezzare quale groviglio di interessi si avviluppi intorno al nodo dell’autodichia dei dipendenti delle Camere: interessi tanto più potenti, quanto volatili sono le argomentazioni volta a volta addotte a suo sostegno. Solo una Corte costituzionale come quella che ha abbattuto il Porcellum e la legge Fini/Giovanardi può avere il coraggio di sostituirsi all’inerzia delle Camere nel fare piazza pulita di questa zona franca dell’ordinamento (come definita nel testo “Parlamento, zona franca” edito da Rubbettino a firma Testa e Gerardi).
Il 25 marzo 2014 è la data dell’udienza pubblica della Corte costituzionale: dal suo esito si comprenderanno molte cose, sulle risorse che l’ordinamento costituzionale ha al suo interno per autoriformarsi.
Senato, Ddl 1175 del 21 novembre 2013, Sottoposizione alle previsioni processuali e legali ordinarie delle amministrazioni degli organi costituzionali