Eppure non è tutto oro quello che brilla e del perché quella che apparentemente potrebbe sembrare una bella notizia per noi comuni mortali (quelli che, per esempio, per fare un lavoro di segreteria prendono poco più di ventimila euro l’anno e non 115 mila come in Parlamento), in realtà non è sincera fino in fondo.
Giornali, Tg e siti saranno pieni di commenti su quanto guadagnano i dipendenti dei palazzi e quanto sia giusto porre un tetto. Ma così l’attenzione dei cittadini sarà ampiamente distolta da quello che si poteva fare subito e bene, togliendo i palazzi da tanti giochini di interesse, a partire dagli appalti con l’esterno.
Ce lo spiega il senatore Enrico Buemi, che ha ripreso una battaglia contro la giungla retributiva degli organi costituzionali, che nella sua regione ebbe un precursore molti anni fa nell’onorevole Costa.
D.: Senatore, sarà quindi contento della decisione dei due uffici di presidenza delle Camere, che hanno finalmente introdotto anche nei palazzi del Parlamento il tetto retributivo…
R.: È una conclusione inadeguata ad un problema serio, che richiedeva una presa di consapevolezza assai maggiore, da parte di tutte le parti in causa: sia il vertice politico-amministrativo di Camera e Senato, sia il personale dipendente. Per parte mia, il PSI non è rappresentato in nessuno di questi organi di vertice, per cui ho speso quest’ultimo anno invocando invano – in diversi interventi in Aula – una nuova gestione amministrativa delle Camere: ciò doveva avvenire con l’abbandono dell’autodichia, ma vedo che si è ritenuto di farne a meno. Si è preferito ricamare un vestito sul corpaccione ipertrofico di alcuni organi costituzionali (e solo di alcuni): ma quando si fanno questi giochi di prestigio, difficilmente ne viene fuori un capolavoro di sartoria…
D.: E’ fondato il pericolo di ricorsi?
R.: Non mi pare il problema principale: pochi sanno che l’autodichia è già contestata davanti alla Corte di cassazione, da un dipendente demansionato del Senato, per cui non sarà sui soldi che si giocherà questa complessa partita. Piuttosto, la Presidenza ha perso un’occasione importante per dimostrare quello che più è mancato, in questi anni: la capacità di gestione. Invece che continuare a credere in una tesi scombiccherata – secondo cui sulla tematica stipendiale dei dipendenti si gioca il principio costituzionale di separazione dei poteri – il Senato e la Camera potevano non costituirsi in giudizio contro la Cassazione, quando questa ha intrapreso la strada che ha portato la Corte costituzionale a pronunciarsi con la salomonica sentenza n. 120 del 2014.
D.: Quindi vino nuovo in otri vecchi?
R.: In effetti, la capacità di proposta difetta anche alle opposizioni, che sono apparse curiosamente imbambolate fino all’astensione (che vale voto contrario) del movimento cinque stelle sui tagli stipendiali ai dipendenti. Nessuno pare aver colto che dietro il feticcio dell’autodichia, si alimenta una prassi assai discutibile di sottrazione alla legge dei rapporti delle Camere con i terzi (il che significa appalti e forniture). Gli emendamenti del Gruppo socialista del Senato al disegno di legge costituzionale erano gli unici che affrontavano il problema alla radice, prevedendo l’unificazione delle amministrazioni costituzionali ed una loro armonizzazione con la disciplina appaltistica generale e quella del restante pubblico impiego: una scelta forse costosa, ma resa necessaria dalla tutela del diritto dei dipendenti di rivolgersi al giudice esterno, una volta che si decide di modificare i rapporti contrattuali in essere.
D.: Eppure, in questa connivenza, anche i dipendenti avevano il loro interesse…
Questo è quello che molti credono, dentro e fuori il Palazzo, ma non io: chi ha vinto un concorso difficile e qualificato non può credere che i diritti si barattino con i privilegi, anche perché i primi ricevono tutela dal Giudice, i secondi dipendono dal benvolere del Principe, e di questi tempi ce n’è assai poco. Il modo rudimentale con cui i “sottotetti” sono qui imposti si presta sicuramente all’obiezione della violazione della riserva di legge di cui all’articolo 23 della Costituzione: ma la Presidenze fanno orecchie da mercante, mentre c’è chi adombra addirittura ricorsi ai giudici domestici, gettando un’ombra ulteriore sull’operato di questi pseudo-tribunali.
Ecco perché sfido ad un gesto di coraggio quelli – tra i sindacati dei dipendenti – che hanno mostrato maggiore lungimiranza, dichiarando la volontà di rivolgersi al giudice ordinario del lavoro per difendere i loro stipendi: chiedano anche alla politica di assumersi in pieno la responsabilità di definire le linee future di gestione delle loro amministrazioni. Ciò può avvenire solo ammettendo la possibilità che una legge disciplini il loro status, piuttosto che rimetterlo all’autocrinia delle Camere.
Una legge potrebbe farlo, anche riconoscendo le loro specificità lavorative: io ed il collega Di Gioia proponemmo un diverso testo del decreto n. 66 che, sul punto, avrebbe conseguito un “atterraggio morbido” ed una scalettatura con salvezza dei diritti quesiti fino al rinnovo contrattuale.
Se i dipendenti delle Camere accettano questa sfida, il nuovo modello organizzativo potrebbe estendersi a tutti gli altri organi costituzionali che, al loro interno, nascondono discipline settoriali che sfuggono all’armonizzazione con il restante pubblico impiego: già per le norme pensionistiche l’ipotesi di un fondo unico affiora, nei dibattiti sui bilanci interni delle due Camere, e posso con soddisfazione ricordare che si tratta di una proposta che in Senato ha avanzato il mio Gruppo.