Pubblichiamo un resoconto dell’udienza della Consulta del 19 aprile 2016 che ha aperto il “dibattimento” sulla portata, più che sulla legittimità, dell’autodichia. A nostro parere il resoconto induce a una riflessione alla quale sarà interessante vedere che soluzione verrà data. Tralasciando la sconcertante autoreferenzialità argomentativa degli avvocati dello Stato, il problema viene efficacemente e oggettivamente (nonostante la legittima parzialità della posizione) illustrato proprio da Lorenzoni e dalla sua difesa: il contrasto è tra una visione rigorosamente (e utilitaristicamente) nominalista secondo la quale mettere in discussione la portata di un potere equivale a discutere il potere (già definito in quanto tale astrattamente legittimo), e una visione sostanzialista che lascia intatta la legittimità astratta del potere pur discutendone, e regolandone, l’applicazione. Una possibile soluzione che salvi… capra e cavoli potrebbe basarsi proprio sulla indubbia rilevanza costituzionale dei diritti connessi al lavoro (articoli 4 e 35/40) e sulla correlativa e indiscussa specializzazione (specialità?) del diritto e del processo del lavoro.
La Corte costituzionale entra in aula alle ore 16 del 19 aprile 2016 e vengono chiamate congiuntamente le due cause a ruolo nn. 9 (Cassazione contro Senato) e 10 (Cassazione contro Presidenza della Repubblica).
Il giudice relatore Amato ricorda che la questione autodichia non giunge in Corte per la prima volta; quando lo statuto di garanzia delle Camere decampa aldilà dei confini fissati dalla Costituzione, c’è il rimedio del conflitto tra poteri, come indicato dalla sentenza n. 120/2014. La Cassazione contro il Senato riprende la medesima questione in riferimento al caso del geometra con qualifica di coadiutore che per 10 anni esercitò mansioni superiori e chiede per questo il loro riconoscimento. L’interessato si rivolse alla Cassazione dopo aver ricevuto una pronuncia di secondo grado interno contraria. Il secondo caso sono funzionari del Quirinale comandati e poi immessi in ruolo, ma senza riconoscere loro l’indennità di comando precedente. Su questi due temi, nei due conflitti tra poteri, la Cassazione usa i medesimi argomenti contro l’autodichia, lamentandone l’interferenza con potere giurisdizionale e col principio di uguaglianza. Il petitum principale è la tutela dalla violazione del potere di cognizione della causa, proprio del giudice del lavoro; il petitum subordinato è la violazione dell’articolo 111 Cost. (che corrisponde alla domanda del ricorrente alla Cassazione). È intervenuto nella causa il Lorenzoni, che è fuori discussione sia latore di un interesse in quanto parte del giudizio di cassazione. Le Camere contestano l’ammissibilità di un ricorso che a loro dire attacca l’autodichia in sé e non il suo esercizio in concreto. Nel merito secondo loro non ci sarebbe stata interferenza perché l’autodichia seguirebbe norme che renderebbero gli organi interni alla stregua di tribunali; neppure sarebbe possibile applicare l’articolo 111, perché sarebbero giudici speciali nell’esercizio di attività di autorganizzazione. Entro quest’ambito, tutta l’attività amministrativa sarebbe funzionale. Lorenzoni legge invece le due ordinanze come correlate alla vicenda processuale: esse attaccano le disposizioni interne solo perché con esse si giunge alla cognizione del merito della sua doglianza: con esse è messo in discussione il dimensionamento dell’autodichia, che va circoscritto richiamando il nesso funzionale.
L’avvocato generale dello Stato Massella Ducci Teri rinvia per l’inammissibilità del conflitto all’allocuzione del Senato, ma anticipa che qui non si indicano con chiarezza le ragioni del conflitto, non si dice che cosa e come si sia leso il potere della Cassazione. Il DPR del 1996 che incardina l’autodichia della Presidenza della Repubblica non lede diritti fondamentali né altera l’equilibrio tra poteri dello Stato; la magistratura ordinaria non è lesa, non più di quanto lo fosse nel caso che ha riconosciuto le ragioni ed il ruolo del Quirinale nella sentenza n. 1 del 2013 (Presidenza della Repubblica contro Procura di Palermo). È sulla potestà di autorganizzazione che si fonda l’autodichia: essa è conforme a dettami costituzionali e sul Colle non ha altri ambiti oltre a quelli di lavoro (status e organizzazione degli uffici e non solo sotto il profilo patrimoniale). I giudici interni sono designati liberamente dai presidenti delle massime Corti e tale strutturazione è con la Cedu: l’ordinanza della Cassazione non ha mosso alcun rilievo al sistema, che non richiede che si riconosca sempre e comunque l’articolo 111 Cost.: una tale scelta, anzi, sarebbe fonte di esclusività della giurisdizione del giudice ordinario (quando c’è anche la giurisdizione del TAR da considerare, se non altro perché il TAR è stato in un certo momento il giudice degli atti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e perché all’estero è l’organo omologo a conoscere le cause sui dipendenti delle supreme istituzioni). Le Sezioni Unite chiedono che la magistratura ordinaria attragga nelle sue competenze all’autorganizzazione, attraverso il conflitto sull’autodichia della Presidenza della Repubblica.
L’avvocato dello Stato Basilica: dalla sentenza n. 120/2014 si sa che l’autodichia non è un privilegio ma è una prerogativa costituzionalmente legittima, espressione del potere regolamentare di tutti gli organi costituzionali. È la seconda causa per la seconda volta sul medesimo caso, quando sarebbe stato invece preferibile che la Cassazione attendesse occasione più propizia. Qui manca il diritto pubblico soggettivo, è un bis in idem: l’ordinanza della Cassazione è la copia conforme della questione sollevata due anni fa. Se si deve operare un dimensionamento del potere, occorre allora individuare gli atti invasivi, cosa che la cassazione non fa: essa si limita ad attaccare l’autodichia nel suo complesso, nell’infondata convinzione che essa non rispetti i principi del giusto processo. Invece, essa è espressione inevitabile dell’autonomia normativa, che è prerogativa essenziale di autocrinìa delle Camere: attaccarla significherebbe negare, un domani, il potere delle Camere di scegliere le norme, di interpretare le norme che applica e di giudicare su di esse. L’auto-amministrazione delle Camere è presidio della separazione dei poteri: se la negassimo oggi, domani un Presidente del consiglio potrebbe sollevare conflitto di poteri contro l’organo costituzionale che non applica il tetto retributivo di 240mila euro ai suoi dipendenti. Grazie alla sentenza della Corte costituzionale del 1985 (Ferrari relatore) furono costituiti gli organi di giustizia domestica; da allora mai c’è stata causa per eccessiva durata del processo interno; non è vero che non si tratti di un giusto processo. Al Quirinale essi sono addirittura designati fuori dal Palazzo, senza alcuna interferenza dell’amministrazione che ne è poi sottoposta.
L’avvocato dello Stato Di Martino evidenzia l’errore di interpretazione della Corte di cassazione, che dimentica che oggetto di sindacato non può essere la fonte del potere ma gli atti che ne conseguono. Alla Camera la fonte dell’esclusività dei “tribunalini” è il regolamento maggiore (articolo 12): si vuole forse sindacare un testo subcostituzionale? La sentenza n. 120 cita il diritto comparato, ma in Francia il giudice amministrativo non ha competenza su tutto il contenzioso: conosce sì il rapporto di lavoro con le Camere, ma solo le controversie individuali e non i provvedimenti assunti dagli uffici di Presidenza delle due Camere. L’autonomia organizzativa copre anche gli apparati serventi delle camere: lo disse la Cassazione nel 2004 ; la sentenza Savino ha risposto che per la CEDU quello domestico è un giudice, e per quanto ci riguarda questo basta.
Per il collegio difensivo di Lorenzoni, l’avvocato Battini enuncia la tesi funzionalista come il vero portato della sentenza n. 120: l’inammissibilità oggi rivendicata dalle Camere è fuori bersaglio, perché la Cassazione ha risposto alla sentenza n. 120 utilizzando proprio lo strumento da essa indicato. La Corte contesta l’obiezione del Senato a conoscere del demansionamento riconosciuto nella causa Lorenzoni, e nel fare questo la cassazione difende il suo potere giurisdizionale e nello stesso tempo il diritto alla tutela giurisdizionale negata a Lorenzoni. La sentenza n. 120 traccia anche la soluzione al presente giudizio, mediante il richiamo al diritto comparato (l’autodichia non esiste più in nessun altro paese al mondo) ed al nesso funzionale (criterio per discernere che cosa è insindacabile e che cosa no). Non si può seriamente sostenere che una causa di lavoro – decisa dal giudice di tutti gli altri cittadini – costituisca un attentato all’equilibrio tra i poteri fissato in Costituzione; tanto più che la cassazione rivendica soltanto il suo ruolo, quanto meno di giudice di ultima istanza ex articolo 111 Cost.
Per il collegio difensivo di Lorenzoni, l’avvocato Sandulli concorda che la forma migliore, per offrire bilanciamento tra poteri e deferenza giudiziale verso le massime Istituzioni, sia la soluzione di riconoscere alla Cassazione la giurisdizione di terzo grado ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione. Ma ricorda soprattutto che il suo assistito è da oltre 13 anni in giro tra giudici, e, pur avendo ricevuto un riconoscimento inoppugnabile del demansionamento subìto, non riesce a vedere concluso il suo calvario, che lo porta a vagare tra le massime Corti del Paese in attesa di tornare a svolgere un lavoro corrispondente alla sua professionalità. Ci si augura che la soluzione di questo caso peculiare consenta, a tutti i dipendenti degli organi costituzionali, di non subire mai analogo ritardo di giustizia.
Il Presidente dichiara chiusa l’udienza pubblica alle 17,15.