L’effetto di straniamento che, a prima lettura, produce la sentenza 5-9 maggio 2014, n. 120, nasce dal fatto che – esattamente con lo stesso dispositivo di inammissibilità della sentenza n. 154 del 1985, perché la questione di costituzionalità era sollevata su una fonte che non è né legge né atto avente forza di legge (cioè il regolamento parlamentare) – la Corte costituzionale ha totalmente capovolto il processo argomentativo di quel precedente di trent’anni fa.
Il modo in cui nel 1985 la Corte, con il suo famoso obiter dictum sull’indipendenza guarentigiata, debordò rispetto alla mera pronuncia in rito, era stato giustamente criticato; non sapremmo quindi discostarci da questa critica per l’eguale e contrario percorso con cui la Corte oggi – ancora una volta senza alcuna consequenzialità rispetto al dispositivo, che resta di inammissibilità in rito – addiviene ad una prospettazione di sistema assai vicina alla nostra (G. Buonomo, L’ultima tappa della giurisprudenza sugli interna corporis: la sentenza Calderoli – Gazzetta giuridica Giuffrè-ItaliaOggi, 1998, n. 44) e che pure sin qui rimaneva confortata da un’isolatissima adesione di dottrina.
Irene Testa ed Alessandro Gerardi (Parlamento zona franca, Rubbettino, 2013) non sono infatti gli unici autori che – proprio come fa ora la sentenza – hanno respinto le “motivazioni storiche” e le “risalenti tradizioni interpretative” su cui le Camere fondavano l’autodichia, affermando che “negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista”.
Ma sono senz’altro gli unici ad aver ricostruito la possibilità di sindacare il micro-ordinamento parlamentare, fondandosi sullasentenza n. 379 del 1996, che oggi si rivela la pietra angolare della sentenza n. 120: solo per loro «la Corte è chiarissima nell’ergersi ad asilo per la doglianza di chiunque lamenti una lesione derivante da azioni intraprese nell’ordinamento parlamentare senza che questo esaurisca in se la capacitàdi qualificare il fatto. Vi si legge il un ragionevole affidamento di esito favorevole in caso di conflitto contro il “peculiare regime di insindacabilitàdegli atti o dei comportamenti interni”: è la prima esplicita actio finium regundorum nei confronti degli abusi della guarentigia, che non potrebbe mai dare copertura ad attività in violazione dei diritti della persona, “le quali conservano integro il loro regime e postulano il sindacato del giudice civile, o anche penale quando la loro tutela sia rafforzata dalla legge con norme incriminatrici”.
Vi si proclama, infatti, la prevalenza anche nelle Camere – e sotto la vigenza dei Regolamenti emanati ai sensi della riserva contenuta nell’articolo 64 Cost. – della “grande regola dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti” (sentenza 2 novembre 1996, n. 379).».
Oggi si dimostra vero che «lo strumento individuato dalla giurisprudenza costituzionale per garantire la tutela delle situazioni giuridiche lese sotto la vigenza del diritto parlamentare, se meritevoli, prescinde totalmente dalla possibilità di un sindacato interno all’organo parlamentare (ad opera di una sua articolazione), e passa per il sistema divisato dalla Corte costituzionale in caso di conflitto contro il “peculiare regime di insindacabilità degli atti o dei comportamenti interni”» (Testa-Gerardi, ibidem).
Il passo successivo – secondo cui “la conseguenza non può che essere che per tali diritti (patrimoniali o personali, dei parlamentari, dei dipendenti o degli estranei) rivive la competenza generale della giurisdizione ordinaria: se ostacolata dalle Camere, in via di conflitto tra poteri dello Stato il giudice è in grado di farselo riconoscere dalla Corte costituzionale”, come scrissero più di un anno fa i citati autori – riceve una ancor più lusinghiera conferma nel fatto che la sentenza n. 120 oggi indica un solo criterio di riferimento, per esercitare la sua giurisdizione conflittistica sul punto: soltanto norme regolamentari in “nesso funzionale” con l’attività parlamentare possono impedire l’accesso al giudice esterno, da parte di chi si ritenga danneggiato.
A ben vedere, si tratta proprio del criterio “funzionalistico” enunciato da un disegno di legge della XVI legislatura, d’iniziativa del senatore Maritati, così illustrato dai citati autori:
“L’Atto Senato n. 1560 ha individuato nelle Istituzioni parlamentari atti di organi politici che, da un lato, non sono riconducibili alle funzioni (legislativa, di indirizzo o ispettiva) e che però, dall’altro lato, non sono qualificabili come di alta amministrazione. Si tratta delle decisioni inerenti alle prerogative costituzionali delle Camere, le quali, pur rispondendo ad uno schema predeterminato, vanno sottratti da qualsiasi sindacato giurisdizionale (ordinario o amministrativo), esterno all’organo politico che le assume. A tale ambito si possono per sommi capi ricondurre, a Costituzione vigente: le questioni relative alla verifica dei poteri e dei titoli di ammissione dei parlamentari; le questioni relative alle immunità di cui agli articoli 68 (commi primo, secondo e terzo) Cost.; le questioni sulle sanzioni irrogate ai componenti delle Camere ai sensi dei regolamenti parlamentari, ad evitare che gli interessati si dolgano (come già avvenuto in precedenti stranieri) di misure adottate nei loro confronti; le questioni attinenti alla corresponsione delle competenze economiche dei parlamentari, per quanto disciplinato dall’articolo 69 Cost.; i poteri di polizia delle Camere spettanti al Presidente (per il Senato, ai sensi dell’articolo 69 del Regolamento); la tutela della libertà dell’Istituzione parlamentare nella fissazione del programma, del calendario e dell’ordine del giorno dei suoi lavori: la giurisprudenza costituzionale ha infatti statuito che va evitata l’interferenza con l’espletamento del mandato parlamentare derivante dalla mancata considerazione del calendario dei lavori parlamentari come legittimo impedimento alla presenza in udienza giudiziaria di un parlamentare.” (Testa-Gerardi, ibidem)
La sentenza n. 120, oggi, riconosce la giustezza della tesi su cui si fondava la proposta di legge radicale n. 5472 della scorsa legislatura, a prima firma Bernardini, che riprendeva l’enunciato dei senatori Maritati e Leddi. Ad essi – come a quello del senatore Buemi che, in questa legislatura, li ha ripresi – è sottesa l’adesione alla possibilità di individuare “atti della funzione”, sottratti alla cognizione giurisdizionale (ordinaria o amministrativo) e che, mutatis mutandis, vale anche per altri organi costituzionali.
Sebbene lo strumento di tutela individuato – la giurisdizione sui conflitti tra poteri dello Stato – sia stato in concreto esercitato finora solo in relazione alle immunità di cui all’articolo 68, primo e terzo comma della Costituzione, la Corte costituzionale, con le sentenze nn. 87 ed 88 del 2012, ne ha fatto mezzo di ricorso ordinario, nei confronti di modalità di espressione – dell’autonomia costituzionale delle Camere – giudicate lesive da parte di altri poteri dello Stato.
Nella fissazione dei suoi confini e limiti, occorre avere a mente i criteri dettati dalla Corte nel 1996: il diritto parlamentare non potrebbe mai dare copertura ad attività in violazione dei diritti della persona, “le quali conservano integro il loro regime e postulano il sindacato del giudice civile, o anche penale quando la loro tutela sia rafforzata dalla legge con norme incriminatrici”.
Resta l’amarezza di vivere in un ordinamento che non è in grado di rispondere al mugnaio di Potsdam, nemmeno quando arriva alle più alte Corti del regno di Prussia: il ricorrente in Cassazione, contro la mancata ottemperanza ad una condanna dell’amministrazione per demansionamento, si vede opporre le astruserie di un sistema tutto ad elaborazione giurisprudenziale e, quindi, con tutti i limiti – in termini di certezza e di affidabilità della decisione, e di non irragionevole durata del relativo processo – che derivano, da questo essere continuamente mandato da Pilato al Sinedrio e viceversa.
Che cosa pensare di un ordinamento il cui cono d’ombra – nella tutela dei diritti costringe così importanti – costringe a passare per pertugi così contorti? Al di là dell’indubbio valore (“seminale”, come dicono i giuristi anglosassoni) dell’odierna pronuncia, chi garantisce che, seguito il nuovo percorso delineato nella ricostruzione della Corte, l’apertura odierna non venga capovolta da un nuovo obiter dictum tra un anno?
Forse non è inutile ricordare il “costo istituzionale” cui l’interpretazione del 1985 ha dato luogo: la Cassazione, sotto dettatura di quella sentenza, nel 1988 auspicò la costituzione di organi domestici che riverberassero all’interno dei palazzi un po’ del principio di imparzialità e terzietà del giudice esterno; le Camere procedettero alla costituzione di tali organi, sulla cui imperfetta aderenza ai criteri della Convenzione europea dei diritti dell’uomo si addivenne alla sentenza Savino ed altri contro Italia 28 aprile 2009 della Corte di Strasburgo.
L’affidamento incolpevole degli interessati portò ditte, dipendenti e persino parlamentari (in carica e non) a considerare legittimamente incardinati questi giudici domestici, spostando semmai i termini del contenzioso sulla loro più o meno presente garanzia di terzietà rispetto all’Amministrazione parlamentare convenuta.
Persino la Cassazione ne è rimasta fuorviata, applicando a sua volta – alle sentenze delle autodichie sottopostele, a partire da quella quirinalizia – l’indagine sul rispetto dell’articolo 6 della CEDU.
Ora, dopo trent’anni, ci si accorge che era tutto sbagliato: istituire giudici interni non garantiva che la loro pronuncia fosse legittimamente emanata (e meno male che nel nostro ordinamento resta insormontabile il valore del giudicato per le pronunce rese!); nonostante amministrazioni ed istituzioni indicassero, nei loro rapporti con dipendenti e terzi, il valore prevalente dell’autodichia rispetto alla legge esterna, nulla garantiva che il regolamento parlamentare disciplinasse legittimamente una materia, e che non si stesse invece edificando sul vuoto.
La riconduzione a sistema tentata dalla Cassazione con l’ordinanza n. 10400 del 2013 si è rivelata, anzi, inidonea: non la violazione di legge come parametro per accertare se i giudici interni bene disposero; ma, direttamente, l’attacco alla legittimità del fondamento regolamentare con cui le Camere rivendicano la possibilità di disciplinare in autonomia una questione.
Toccherà volta a volta all’autorità che si ritiene lesa lamentare l’invasione di campo da parte del regolamento parlamentare; per chi ha davanti l’inesauribile e puntiforme giurisdizione conflittistica sulle insindacabilità, non si tratta certo di un buon viatico.
Ecco perché, sulla scorta delle indicazioni contenute nei citati disegni di legge, un approccio razionale al problema richiede un intervento del legislatore che almeno dirima i casi di più evidente incompatibilità tra visione “geografica” e concezione “funzionalistica” della guarentigia degli organi costituzionali.
Non farlo significherebbe, ancora una volta, delegare ad altri una funzione di supplenza, che dimostrerebbe l’incapacità di agire del ceto politico anche in casa propria: con quali conseguenze, per la pubblica legittimazione delle Istituzioni, è facile immaginare.
Corte Costituzionale sentenza 120/14 del 5 maggio