La compagine ministeriale che si propone di varare una riforma al mese ha, in questi giorni, rimediato a una non trascurabile omissione nella compilazione della sua “lista”. Sollecitati dal promemoria di Roberto Saviano, il presidente del consiglio e il competente ministro della giustizia si sono ricordati che il contrasto alla criminalità organizzata costituisce, come si dice oggi, “una priorità nell’agenda di governo”.
Nonostante l’iniziale dimenticanza, ci sembra un buon segno in quanto, finora e a nostra memoria, la lotta alle mafie non ha mai figurato ai primi posti nei propositi dei nostri politici.
Sul fenomeno associativo criminale abbiamo in Italia una ricca dottrina e una straripante giurisprudenza, cui ha fatto riscontro, fino ad oggi, una sostanziale nonchalance di gran parte del ceto politico.
Va a capire perché.
Eppure è di pochi giorni fa (27 febbraio 2014) una sentenza della sezioni unite della corte di cassazione che chiarisce, ad abundantiam, che, in base al vigente quadro normativo, chi è imputato (e condannato) per associazione mafiosa (il famoso art. 416 bis del codice penale) non può essere poi chiamato a rispondere anche per il “lavaggio” e/o il reimpiego dei capitali che dalla attività associativa contra legem siano direttamente scaturiti. È il problema del così detto auto-riciclaggio, in relazione al quale, da tempo, si sollecitano soluzioni legislative.
C’è da augurarsi che presto questo fenomeno sia affrontato e (possibilmente) risolto; ma ciò dovrebbe essere fatto in un’ottica di sistema e non emergenziale (Moccia), partendo da una approfondita riflessione sulla reale natura del delitto di associazione mafiosa, delitto che, ormai, viene pacificamente indicato come plurioffensivo (Turone; Fiandaca-Musco), dal momento che esso costituisce insidia, tanto per l’ordine pubblico, quanto per la libertà di iniziativa economica e per la libertà di mercato, quanto infine per l’esercizio dei diritti politici dei cittadini. Infatti tra i possibili obiettivi perseguibili dagli associati di mafia figura ormai – dopo l’intervento legislativo del 1992 (D.L. n. 306 del 1992 convertito nella L. n. 356) – anche quello di impedire, o comunque ostacolare/condizionare, l’esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri, in occasione di consultazioni elettorali. La minaccia a tali fondamentali valori della vita associata (valori oggetto di diretta protezione costituzionale) caratterizza il delitto in questione come lesivo, in ultima analisi, dello stesso ordine democratico nel nostro Paese. Si intende: in tutto il territorio nazionale, essendo del tutto infondata (sino al ridicolo) la pretesa di un non rimpianto ministro dell’interno di confinare i costumi, i metodi e (soprattutto) gli interessi mafiosi nelle sole regioni meridionali. Ed è appunto sul metodo e sugli interessi di queste particolari societates scelerum che si è (opportunamente) concentrata l’attenzione della magistratura inquirente e giudicante, dal momento che la ratio in base alla quale i delitti associativi sono stati introdotti nell’ordinamento è quella di anticipare la soglia di punibilità (e quindi di tutela del bene giuridico), sino a sanzionare il pericolo stesso (derivante dalla semplice costituzione dell’associazione) che i reati oggetto del programma vengano commessi, ovvero, nel caso dell’associazione mafiosa, che, con metodologia – appunto – mafiosa, vengano svolte anche attività, in sé, lecite.
Il fatto è che, per quanto sforzi definitori si facciano, il concetto di “partecipazione” all’associazione continua a mostrare confini incerti e mobili. La giurisprudenza si è molto concentrata sugli aspetti sintomatici della adesione/partecipazione e, tra gli “indicatori fattuali”, ha elencato – ovviamente senza pretesa di esaustività – oltre, come è naturale, alla rituale (ma sempre meno praticata) “investitura”, con la quale si acquista la qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti–scopo e, comunque, i cc.dd. facta concludentia, atti a dimostrare la sussistenza (e la permanenza) del vincolo associativo. È noto poi che, in tema di misure di prevenzione contro i mafiosi, la dottrina (Guglielmucci) e la giurisprudenza maggioritaria hanno voluto distinguere la “appartenenza” dalla “partecipazione”, concetti che, viceversa, altri Autori (De Liguori, Bertoni) ritengono coincidenti. Questioni sottilissime, ma, tuttavia, tutte iscrivibili nell’ambito della condotta.
Il problema più grave, però, a nostro parere (anche perché dà luogo a equivoci interpretativi), continua ad essere quello della corretta individuazione dell’elemento psicologico del reato in questione, a proposito del quale, come è noto, si parla di affectio societatis. L’espressione è mutuata, ovviamente, dal diritto civile e indica l’animus che connota i contratti aventi comunanza di scopo (società, consorzio, associazione). In tali ipotesi negoziali, gli interessi dei contraenti sono omogenei e sono canalizzati verso un medesimo obiettivo; il che comporta, inevitabilmente, la realizzazione di una struttura organizzativa che tali scopi (comuni) possa perseguire, armonizzando i singoli contribuiti provenienti dai vari soggetti.
Con il contratto di società, ad esempio (art. 2247 codice civile), “due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica, allo scopo di dividerne gli utili”. Il compito del giudice civile è però enormemente facilitato dal fatto che esistono schemi pre-dati nei quali si instrada la (legittima) manifestazione di volontà delle parti; il che rende riconoscibile all’esterno tale volontà e, dunque, nel caso che ci interessa, trasparente l’affectio.
In tema di reati associativi, viceversa, il problema è (a noi sembra essere): in base a quali parametri si riconosce l’affectio societatis? Vale a dire: è determinante (e dirimente) che i mafiosi si riconoscano reciprocamente come tali, ovvero è sufficiente (e quindi anche necessario) che lo status di associato sia deducibile dalle stesse modalità della condotta (secondo l’insegnamento della suprema Corte con riferimento agli altri delitti: cfr., a mero titolo di esempio, sentenze nn. 39293 del 2008 in tema di omicidio volontario, 35369 del 2007 in tema di omicidio preterintenzionale, 11866 del 2010 in tema di reati a sfondo sessuale, 12897 del 1999 in tema di bancarotta, 6531 del 1991 in tema di ricettazione ecc.), avendo l’opinione degli altri associati solo valore meramente confirmatorio?
Il problema si pone, con frequenza, con riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, i quali, naturalmente, non solo riferiscono fatti, ma – inevitabilmente – esprimono opinioni. Ebbene l’affermazione “Tizio è/non è mafioso” costituisce un fatto o un’opinione?
La risposta implica una netta presa di posizione con riferimento al “riconoscimento” che si vuol dare, ovvero negare, alla societas sceleris come ordinamento. Se si risponde positivamente, se si ritiene che la mafia sia riconoscibile come organizzazione, non solo sul piano fattuale-sociologico, ma anche su quello di una giuridicità sui generis, allora è inevitabile fare riferimento alle regole interne della consorteria criminale e, dunque, anche ai gradi, alle “mostrine”, ai reciproci ed espliciti riconoscimenti di ruoli e gerarchie. La tentazione è stata forte nella giurisprudenza di merito degli anni ’80, ma non sembra poi essere stata né ulteriormente coltivata, né esplicitamente abbandonata. Sia ben chiaro: il problema non è quale rilievo dare alla organizzazione gerarchica dei sodalizi criminali (dato oggettivo), ma quale rilievo dare alla rappresentazione che di tale gerarchia hanno gli associati (dato soggettivo).
In realtà, la qualificazione giuridica di una condotta compete sempre al giudice. Invero al pubblico potere – e non certo al potere criminale – spetta, da un lato, porre i parametri normativi in base ai quali classificare determinate condotte e, dall’altro, interpretare tali condotte alla luce dei predetti parametri, secondo la nota impostazione giustinianea per la quale solo lo Stato è tam conditor quam interpres legum (Dig. Iust. Aug. C.1, L. 14,12,1). Ovviamente, essendo Charles de Secondat, barone di Montesquieu lontano più di mille anni, i poteri legislativo e giurisdizionale (e ça va sans dire, esecutivo) si concentravano, all’epoca, nell’imperatore. Ma il principio non può non esser valido ancora oggi. E dunque, quale che sia l’idea che i “pentiti” (o altri associati) abbiano sullo status di una terza persona, ciò che rileva in merito non è l’opinione dei predetti, ma il convincimento del giudice, il quale, in base agli elementi raccolti (tra i quali, ovviamente, anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia), e ai parametri valutativi forniti dal legislatore, giunge alle sue conclusioni, rapportando la fattispecie concreta, consistente nella condotta effettivamente accertata a carico dell’imputato, alla fattispecie astratta di cui all’articolo 416 bis codice penale.
In altre parole: non è mafioso (o camorrista o ndranghetaro) colui che gli altri mafiosi (ecc.) definiscono tale, ma colui che il giudice, applicando la legge, riconosce riconducibile al paradigma normativo contenuto nel codice.
E non si dica che il disconoscimento da parte degli altri camorristi fa venir meno, appunto, l’affectio societatis, in quanto – evidentemente – essa non è da intendersi come il sentimento di maggiore o minor sintonia con i (dis)-valori della struttura malavitosa (non è una semplice “questione di feeling“) e neanche come il formale riconoscimento di una qualifica, ma come l’esistenza di un vincolo associativo stabile e non circoscritto ad uno o più delitti, bensì consapevolmente esteso a un generico programma delittuoso (sentenza n. 744 del 1992), in forza del quale tutti gli aderenti sono portati a cooperare, nella consapevolezza che le attività proprie ed altrui ricevano vicendevole ausilio e, tutte insieme, contribuiscano all’attuazione del programma criminale (sentenza n. 8046 del 1995).
È evidente allora che l’attività delittuosa conforme al piano associativo costituisce un elemento indiziante di grande rilevanza ai fini della dimostrazione della appartenenza ad essa quando, attraverso le modalità esecutive e altri elementi di prova, possa risalirsi all’esistenza del vincolo associativo e quando la pluralità delle condotte dimostri la continuità, la frequenza e l’intensità dei rapporti con gli altri sodali (sentenza n. 11446 del 1994).
Ciò che – in sintesi – ha rilevanza non è né l’esistenza di un accordo consacrato in atti di costituzione, in uno “statuto”, in una cerimonia di iniziazione/affiliazione o in altre manifestazioni di rituale adesione, e neanche la formale attribuzione della qualifica di associato da parte degli altri sodali, ma – posta l’esistenza, di fatto, della struttura delinquenziale prevista dalla legge – l’innestarsi del contributo apportato dal singolo nella prospettiva del perseguimento dello scopo comune, scopo nel quale egli stesso si riconosce. Invero, una condotta criminale coerente con il piano associativo costituisce il principale elemento indiziante ai fini della dimostrazione della appartenenza alla struttura malavitosa, quando il giudice, valutandone le modalità esecutive (oltre ad altri eventuali elementi di prova), possa ragionevolmente desumerne l’esistenza del vincolo associativo e quando la pluralità e la rilevanza delle condotte dimostri ex se la continuità, la frequenza e l’intensità dei rapporti con gli altri associati. E tuttavia, non può escludersi che anche la partecipazione a un episodio soltanto della attività delittuosa programmata possa costituire – se altamente significativo della “intraneità” del soggetto – elemento indiziante dell’appartenenza all’associazione.
Diversamente ragionando, si giungerebbe alla paradossale conclusione che si è mafiosi (o camorristi o ndranghetari ecc.), non perché ci si comporta secondo lo schema normativamente previsto -in via astratta e generale – dall’articolo 416 bis del codice penale, ma sulla base delle regole interne del sodalizio criminale, quasi che potesse concepirsi l’esistenza di un rinvio (a scelta, statico o dinamico) dall’ordinamento statale all’ordinamento malavitoso.
Dunque l’interprete è posto davanti a un bivio: o individua l’affectio societatis semplicemente sulla base degli elementi a sua disposizione (non trascurando come si è detto, il contributo che – in termini fattuali e non di opinione – possano dare i collaboratori di giustizia), “estraendo” l’elemento psicologico dalle stesse modalità della condotta (come, d’altra parte, si è detto si fa per tutti i reati), ovvero si affida alle valutazioni “interne” alla stessa societas sceleris, recependone i codici a-statali.
Ma deve essere chiaro che (il pur implicito) riconoscimento della “giuridicità” delle associazioni di stampo mafioso riposa su di un (inconfessato e forse inconsapevole) presupposto culturale, quello che consente, in situazioni limite, di intavolare trattative tra lo Stato e altre “autorevoli” entità.
Negare in radice tale possibilità (e il propositum in mente retentum che la accredita) deve costituire un imperativo non derogabile, tanto per l’interprete, quanto per il legislatore, quanto, infine, per il pubblico amministratore; altrimenti non c’è “agenda di governo” o frenesia riformistica che tenga.