Il quartiere Castello a Venezia è un quartiere popolare. Invece delle canoniche grandi firme e del passeggio convulso dei turisti si trovano la bottega del pane, il fruttivendolo che pulisce i carciofi romani, i bambini che giocano negli spazi a scacchiera fra le case arretrate, nella parte più interna del quartiere stesso. Vi si trova anche una sezione “Castello”, per l’appunto, del partito comunista; già di suo opera d’arte sociale d’antan.
Situato alle spalle dei Giardini, la zona più esposta del rione occupa quella retta inesatta che permette di vedere l’approdo delle navi da crociera. Quasi come se queste ultime stessero penetrando all’interno della strada stessa. E sulla via Garibaldi il gruppo Nostra Signora ―Philippe Berson, Cesare Inzerillo, Jesse Gagliardi, Simone Mannino, Roberto Riili, Riccardo Scibetta ― ha dato vita, per la prima volta in quel paesaggio popolare, a un insediamento artistico anomalo. Tre di loro, infatti, hanno cominciato a lavorare in un’ex macelleria (dall’insegna leggasi salumaria), vasto trilocale al tempo riservato alla preparazione d’insaccati e da oltre vent’anni affogato da calcinacci e umidità, già quindici giorni prima dell’apertura, per tirarne fuori la vera anima diroccata e farne una cartolina di Palermo dentro Venezia.
Durante la vernice una giovane mamma spiegò che grazie al lento lavoro di scolarizzazione della Biennale oggi gli anziani residenti nel quartiere sono più curiosi che ostili. Insomma, l’arte contemporanea ha permesso una sorta di “miracolo” antropologico, ancorché buona parte degli abitanti non si sono limitati a seguire con interesse i lavori di riconfigurazione e allestimento, ma hanno anche trovato risonanza e leggibilità tra testo critico e semantica delle opere.
Da Palermo alla Serenissima.
L’esito di questo surplus partecipativo, e se vogliamo didattico, è stato dovuto sia alla trasversalità dell’operazione che all’accessibilità delle fasi del processo di messa in opera. I veneziani dei dintorni, e non solo, sono intervenuti massicciamente; sino a notte inoltrata, come a una festa collettiva. Un consenso così verace e passionale si è verificato per effetto dell’autenticità che l’operazione ha espresso. Cionondimeno, il “dove che spiega il cosa” ha permesso di enucleare a più livelli la forza dell’impianto espositivo: dalle opere, ai soli muri, alla vecchia pavimentazione che esala ancora un forte odore di muffa e sangue. Una carnezzeria, come la chiamano a Palermo, è comprensibile in ogni cultura. Persino i vegani, gli islamici e gli israeliti, i giapponesi e i danesi, ne intendono la grammatica e la prassi implicita, transculturalemente, senza tema d’errori interpretativi. Questo gruppo, pertanto, ha eviscerato la contro cosmetica della carne traendone concetti estetici aggiornati e compiuti: vuoi con il girasole in vetrina che crescendo viene reciso (ogni volta che serve) da una cesoia (Jesse Gagliardi), vuoi con gli angeli della morte o i bucrani mutanti di Philippe Berson. Per non parlare dei fondi resinosi nelle Derive di Simone Mannino, un pendant puntuale con il luogo, e delle sue tavole erotiche in perfetto stile modernista; della sovrapposizione di scatti (analogici) in Scibetta, il quale denuncia, piuttosto esplicitamente, la morte di centinaia di orsi per abbigliare il capo delle guardie della regina Elisabetta d’Inghilterra. Da qui le immagini sovrapposte in un diorama di senso e significato, dai cromatismi esasperati dal ligth box. Infine Inzerillo, che con la sua micro mummia Carnera-Carnenera, pugile in attesa, coperto dal mantello in miniatura che gli nasconde le povere ossa, volta le spalle allo spettatore con esterefatta malinconia, verso l’ultima finestra. L’alto piedistallo e la mummia svolgono così il tratto spaziale dell’ultimo ambiente e chiosano il tour, gettando lo sguardo oltre la grata.
Scacco alla regina.
Una delle novità della mostra aperta fino al 9 ottobre è la non camuffata vendita di oggetti d’arte, propio come avviene in molte gallerie giovani vicine alla Ramblas di Barcellona. Insieme ai gioielli di Berson le magliette–gadgets di Riili. Queste ultime recuperano celeberrimi personaggi dei cartoons giapponesi: Pollon, Zenigata, Actarus, l’Uomo tigre, ecc. sormontati dalla citazione dell’ora, del giorno, del mese e dell’anno dello Tsunami. Affinché non sia possibile dimenticare che: “Nature reminds us how small we are”. Le stesse icone del giovane artista palermitano s’irradiano quasi dal simbolo nipponico frantumato, incollate come affiche su supporti in alluminio. Queste ultime costituiscono, all’ingresso, il contrappunto meno incarnato dell’intero environment. Opere a costo contenuto, esibite all’interno del banco dei salumi. Piccoli oggetti di matrice artistica piuttosto che semplice artigianato (per quanto il confine sia sfrangiato) di consumo estetico elitario. La scelta di autopromuoversi, collaborando con la rivista Cyberzone (in vendita) e ai docufilms prodotti da CLAC (anche questi commercializzati), ha favorito una doppia partita vinta: scacco alla regina di tutte le ipocrisie che camuffano la vendita e, soprattutto, libertà finanziaria e operativa fuori dall’esasperato fashionism del Sistema imperialistico dell’arte contemporanea. Ci stiamo forse riorientando in periferia?