Grazie a una recente trovata legislativa in Italia i turisti potranno fotografare liberamente ciò che vogliono dentro musei e siti archeologici, ricercatori e studiosi dovranno invece continuare a pagare per poter compiere le proprie ricerche e svolgere il proprio lavoro. Ancora una volta il nostro Paese fa un passo indietro nella ricerca e nella valorizzazione del proprio patrimonio culturale.

L’articolo 9 della nostra Costituzione stabilisce in maniera semplice e chiara un principio fondamentale: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. Eppure recenti eventi mostrano come qualcuno, purtroppo sempre più spesso, se ne dimentichi o non l’abbia ben capito. Quello che è successo la scorsa estate ne è un chiaro esempio. Il primo giugno è entrato in vigore il decreto ArtBonus (d.l. 83/2014) che prevede, o meglio prevedeva, la liberalizzazione delle riproduzioni per fini di studio di ogni tipo di bene culturale, quindi sia quelli conservati nei musei che in archivi e biblioteche. In parole semplici, chiunque avrebbe potuto fotografare, con la propria macchina fotografica o con il proprio smartphone, ciò che voleva. Il decreto è stato subito definito da ricercatori e studiosi come “rivoluzionario”, “la realizzazione di un sogno” in quanto avrebbe permesso un notevole risparmio sia economico che di tempo. Non tutti infatti sanno che da circa venti anni, per l’esattezza a partire dall’entrata in vigore della legge Ronchey (L.4/93 a cui si deve l’introduzione di privati nei servizi dei musei), negli istituti sopradetti era vietato fare fotografie con mezzi propri; per avere la riproduzione di un bene culturale ci si doveva rivolgere all’ufficio competente e pagare secondo un tariffario. Il decreto ArtBonus avrebbe potuto mettere fine ad un vero e proprio “commercio delle riproduzioni”, problema che affligge soprattutto quanti abbiano necessità di consultare archivi e biblioteche. 

Concessioni pubbliche, affari privati
In archivi e biblioteche, infatti, l’uso di una fotocamera propria o è vietato perché si è obbligati a comprare le riproduzioni dalla ditta privata che ha in appalto il servizio (non meno di 2,50 euro a scatto, ma nel caso di mappe di grandi dimensioni si arriva anche a 30 euro) o è consentito dietro pagamento di un canone (circa 3 euro per unità archivistica, termine però che può indicare un fascicolo, un faldone o anche un singolo pezzo nel caso delle pergamene) spesso con l’obbligo di utilizzare una sala riservata alle riproduzioni che ha ovviamente un costo di affitto (di solito 10 euro l’ora che, in alcuni casi, va moltiplicato per il numero di macchine fotografiche che si intende usare). Oltre a queste limitazioni, bisogna e sottostare agli orari di apertura, di consultazione e di riproduzione del materiale. Perché forse non tutti sanno che in archivi e biblioteche c’è un lungo iter da seguire per presentare le richieste di autorizzazione per la consultazione o per la riproduzione del materiale, richieste che  possono essere presentate solo in determinate fasce orarie. Quindi se non si fa in tempo a visionare, ad esempio, tutto un libro e quindi capire quali pagine servano si dovrà tornare il giorno dopo per completare la consultazione e presentare la richiesta di riproduzione. Ora, si sa che quello culturale è un settore lavorativo mal retribuito, spesso non retribuito, e che molti degli studiosi che si recano in questi istituti ci vanno per tesi e dottorati, quindi per lavori non pagati e le cui spese non saranno mai rimborsate. Immaginate quindi l’onere economico che devono sostenere per poter portare a termine i loro studi o le loro ricerche. Per esempio, uno studente di Palermo che per la propria tesi deve visionare libri o documenti conservati a Torino, ha due opzioni: pagare per avere le riproduzioni e tornarsene il prima possibile a casa o  pernottare in qualche hotel sino a fine ricerca.

Londra, Parigi e la libertà nella vecchia Europa
Immaginate ora la spesa economica che dovrà sostenere, in entrambe i casi, se i documenti/libri che deve consultare sono molti. Chi non ha tali possibilità economiche, ha a disposizione solo una opzione: cambiare l’argomento della propria ricerca. Se invece allo studioso è malauguratamente proposta la pubblicazione della sua ricerca, dovrà tornare in archivio/biblioteca e presentare apposita domanda di concessione per la riproduzione, corredando il tutto di due marche da bollo da 18 euro. E non è scontato che il permesso gli sia concesso. Insomma una vergogna tutta italiana. Infatti basta andare a Parigi o a Londra per rendersi conto che in queste città le procedure sono molto più agevoli e convenienti. Uno studioso che si reca alle Archives nationales di Parigi o ai National Archives di Londra, dopo aver richiesto i suoi documenti, può fotografarli liberamente e tornarsene a casa dove potrà trascriverli con calma, studiarli e laurearsi. Lo studente inglese che vuole pubblicare il suo articolo dovrà semplicemente prendere le foto fatte e spedirle all’editore assieme al suo testo. Quello francese dovrà invece compilare un modulo (anche on line) e riceverà l’autorizzazione. In questo modo non solo lo studente ha potuto svolgere le sue ricerche a costo zero ma il personale dell’archivio si è potuto dedicare ad attività più interessanti e utili.
Il decreto ArtBonus avrebbe potuto mettere fine a questa situazione vergognosa. Sarebbe potuta essere una grande occasione per promuovere la ricerca scientifica nel nostro Paese. E invece si è palesato un finale inaspettato. Infischiandosene della Costituzione, il 9 luglio la Camera dei deputati ha approvato un emendamento restrittivo in base al quale dai beni culturali legalmente riproducibili sono stati esclusi, guarda caso, i beni archivistici e bibliografici. Il decreto è stato poi confermato in Senato ed è diventato legge (l. 106/2014). Questo vuol dire che si potrà liberamente fotografare siti archeologici e capolavori unici al mondo custoditi in musei ed istituti specializzati, come la statua del Pugile a Palazzo Massimo, la neo restaurata Domus Aurea, gli affreschi della casa di Augusto, i Bronzi di Riace, la Venere del Botticelli. In archivi e biblioteche dovremo invece ricordarci di spegnere la nostra macchina fotografica. Una decisione che se da una parte avvantaggia i turisti dall’altra penalizza gli studiosi. Motivo di questa retromarcia? “L’emendamento restrittivo, per ammissione di alcuni suoi firmatari, sarebbe stato sollecitato dalla Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore” spiega Andrea Brugnoli ideatore, insieme a Mirco Modolo, del movimento di idee Fotografie libere per i Beni Culturali “le motivazioni addotte sono innanzitutto di ordine economico, in quanto le società concessionarie di servizi di riproduzione forniscono l’unica entrata di questi istituti oltre al finanziamento annuale erogato dallo Stato. Questo, oltre ad essere in palese contraddizione con il parere espresso dalla Commissione Bilancio della Camera, che aveva escluso effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi, viola quanto prescritto dal Codice dei beni culturali: «Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio […]. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente» (l. 42/2004, art. 108, comma 3). Se invece si sopprimesse tutta la trafila burocratica che oggi bisogna seguire per avere l’autorizzazione alla riproduzione con mezzi propri e la concessione alla pubblicazione delle riproduzioni, il personale qui impegnato potrebbe essere destinato a più proficue attività di tutela e valorizzazione, esattamente come avviene a Londra e a Parigi”. Preoccupanti i dubbi avanzati da  Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore BB. CC. del Mibact e sostenitore della libera riproduzione, il quale, ricordando che in Italia c’è una impresa privata che ha il monopolio delle riproduzioni, teme che tale limitazione sia stata introdotta, su sollecitazione di qualcuno, per favorire questi interessi. Alla base dell’emendamento restrittivo ci sarebbero anche ragioni di tutela, che fanno leva su un’interpretazione del testo normativo ripresa da alcuni degli istituti meno propensi ad applicare il decreto. E cioè, dato che nel decreto è permessa la libera riproduzione di beni culturali purché non vi sia contatto fisico, questa specifica escluderebbe di fatto l’applicazione al patrimonio cartaceo. Inoltre i beni archivistici e bibliografici, per essere riprodotti necessitano di essere sfogliati e quindi sarebbe necessaria la presenza fisica costante di un archivista o di un bibliotecario per girare le pagine del documento.  A questo si aggiungerebbe la “potenziale inutilizzabilità di fotografie realizzate dagli studiosi a causa della loro scarsa leggibilità e il rischio di furti durante le riprese”. Per Mirco Modolo questo è solo un pretesto per escludere i beni archivistici e bibliografici, dal momento che “l’intento del decreto originario non era di creare distinzioni tra le categorie di beni culturali, quanto piuttosto tra le tecniche di riproduzione, da un lato ammettendo le fotografie a distanza dall’altro escludendo scansioni, fotocopie o comunque quei mezzi che avrebbero comportato inevitabilmente un contatto con il bene, e dunque una sua potenziale usura”. Non si voleva quindi impedire il rapporto tra studioso e documento. Anche perché i documenti di cui si esclude la riproduzione per evitare il contatto fisico sarebbero gli stessi che vengono dati normalmente in consultazione agli studiosi e da questi sfogliati e maneggiati. Insomma le ragioni di tutela sembrano alquanto pretestuose. Il sospetto per Modolo e Brugnoli è che con questa restrizione si voglia risolvere il problema della carenza di risorse che affligge archivi e biblioteche imponendo una vergognosa “gabella” agli studiosi. In questa direzione avrà spinto anche la paura che la proliferazione di copie di un originale ne svilisca l’unicità. Entrambe le motivazioni sono però anticostituzionali perché trasformano la libertà di ricerca in un lusso e ne impediscono il fine ultimo, quello di rendere fruibile il materiale conservato. Il movimento Fotografie libere per i Beni Culturali (http://fotoliberebbcc.wordpress.com/), a favore della riproduzione libera e gratuita delle fonti documentarie in archivi e biblioteche per finalità di ricerca, ha subito avuto ampi consensi dal mondo accademico e istituzionale. Tra i numerosi studiosi  e professori che hanno dato il loro sostegno al movimento, Daniele Manacorda, professore di Metodologia della ricerca archeologica all’Università Roma Tre, ha sottolineato come il costo sociale di questa restrizione ricada sugli studiosi e in primis sugli studenti in formazione, i più deboli appunto. E’ ora che  l’amministrazione impari ad essere un servizio a beneficio di tutti, non un ostacolo alla ricerca, così come avviene nei paesi civili.
La speranza ora è che venga ripristinata la formulazione originaria del decreto ArtBonus, con la soppressione dell’emendamento restrittivo. Il decreto potrebbe così diventare un importante e insostituibile strumento di sostegno alla ricerca e alla libera diffusione. Potrebbe finalmente essere il simbolo della vittoria della democrazia e della civiltà.

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