“L’unica cosa che mi hai insegnato, papà, è che io ero meno importante di popoli morti cinquecento anni prima in un altro paese”. Questo diceva nel 1989 Indiana Jones, padre spirituale di tante generazioni di archeologi. “Se vuoi continuare ad occuparti del passato garantisciti il futuro”, “Il lavoro degli archeologi non è una merce”, “Diritti di maternità per le archeologhe italiane”, “Non chiediamo risorse, le risorse siamo noi”. Questo lamentano oggi gli archeologi italiani, tanto da aver organizzato di recente una manifestazione a Roma per rivendicare uno spazio negato da tempo.
Il 16 gennaio 1992 aLa Valletta viene conclusa laConvenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico. L’obiettivo è chiaro fin dal primo articolo dove si dice che mira a “proteggere il patrimonio archeologico in quanto fonte della memoria collettiva europea e strumento di studio storico e scientifico”. È firmata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, compresa l’Italia. Sono passati venti lunghi anni ma la Convenzione nel nostro Paese non è ancora stata ratificata, sebbene nel resto dell’Europa sia alla base delle più evolute forme di tutela del patrimonio archeologico. “Anzi, per essere precisi”, chiarisce Alessandro Pintucci presidente della Confederazione Italiana Archeologi (Cia) “la Convenzione è un portato dell’Italia: è stata scritta sulla base delle leggi di tutela italiane”. Forse chi ha governato il nostro paese negli ultimi venti anni non ne ha capito l’importanza. O forse, peggio ancora, la Convenzione è un ostacolo per gli interessi di gruppi di persone. Ma di chi? Cerchiamo di capirlo. La Convenzione stabilisce che la tutela deve essere integrata con programmi di pianificazione territoriale, che chi attua trasformazioni del territorio (chi costruisce o esegue qualsiasi tipo di lavoro che intacchi il territorio) deve sostenere le spese inerenti la tutela archeologica inserendo già a monte del bilancio dei lavori, pubblici o privati che siano, le risorse economiche della tutela. La Convenzione prevede quindi tutti i lavori che vanno dalla progettazione alla realizzazione dell’intervento. In sintesi i committenti, sia privati che pubblici, devono sostenere interamente le spese dell’intervento.
La convenzione (internazionale) ignorata. Il modello francese In Francia a seguito della ratifica della Convenzione è stato creato l’Inrap (Institut National de Recherches Archéologiques), una società di diritto privato ma di proprietà pubblica che si occupa di archeologia preventiva. I lavori vengono programmati nella fase preliminare di progettazione e i dati pubblicati così che le informazioni acquisite siano diffuse e messe a disposizione della comunità scientifica. Ne risulta una maggiore conoscenza e valorizzazione del patrimonio archeologico, un’ottimizzazione delle procedure e un incremento delle opportunità di lavoro per gli archeologi. L’istituto si finanzia attraverso una tassa (circa il 4%) posta sui metri cubi di terra da scavare. “Se da una parte l’istituto ha assunto circa 10.000 archeologi disoccupati, il tempo ha evidenziato i suoi limiti”, spiega Pintucci della Cia, “non c’è il giusto ricambio generazionale e se non vengono effettuati lavori di infrastrutture l’Inrap non ha entrate e quindi non ha soldi per pagare gli archeologi. Inoltre non può allargare il suo raggio d’azione all’estero perché non può lavorare fuori dal territorio francese”. Ciò nonostante, l’Inrap dimostra la grande attenzione che la Francia ha nei confronti della ricerca archeologica e la volontà dello Stato di farsi garante di un servizio pubblico di interesse generale. Nella maggior parte dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione è nato un sistema di archeologia professionale con linee guida, con tanto di tabelle in cui sono riportate le diverse tipologie di lavoro da svolgere: tempi, costi, unità di professionisti necessari. Strumenti fondamentali perché permettono tanto all’archeologo quanto al committente di preventivare il costo del lavoro. Ovviamente ogni Paese ha adattato la Convenzione alle proprie esigenze. In Inghilterra per esempio esiste il Museum of London Archaeology Service (Molas), società privata che offre vari servizi professionali che vanno dall’archeologia preventiva agli scavi, sino alle pubblicazioni, gestisce musei, organizza convegni e attività didattiche, e che ha addirittura un proprio servizio catering. Tutte attività a pagamento del committente o dell’utente. La società sovvenziona il Museum of London che è gratuito. Un museo privato gratuito. Un miraggio nel nostro Paese.
Italia, un ritardo ventennale Italia, Lussemburgo, San Marino e Azerbaigian sono i pochi Paesi in cui la Convenzione non è ancora stata ratificata. Eppure la nostra legislazione in parte l’ha recepita. Nell’art. 42 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (DLgs 42/2004, Codice Urbani) si dice infatti che il committente pubblico deve ricevere l’autorizzazione a scavare dalla Soprintendenza e deve sostenere le spese. Il problema è che l’articolo non parla dei cantieri di natura privata, come per esempio la costruzione di una struttura abitativa. Anche i piani regolatori di alcune città, come Roma, Firenze, Napoli e Torino, hanno recepito in parte le disposizioni della Valletta: ordinano che la Soprintendenza debba dare il nullaosta per qualsiasi opera di scavo e che il committente della stessa (sia pubblico che privato) debba sostenere tutte le spese. Il DLgs. 63/2005 ha formalizzato la prassi da seguire nelle opere di pubblica utilità e di questi passaggi ne ha previsto i costi, compresa la pubblicazione dei risultati dello scavo a carico del committente. Ma si tratta solo di piccoli adattamenti non sufficienti a dare soluzione al problema perché riguardano o solo le committenze pubbliche (art.42 del Codice Urbani e Dlgs 63/2006) o perché sono validi solo per determinate città (piani regolatori).
Pubblico & privato In Italia serve una legge, valida su tutto il territorio nazionale, che chiarisca in maniera completa le procedure che committenti sia pubblici che privati devono adottare e che una volta per tutte stabilisca che le spese dell’intervento devono essere a carico del committente. Se vogliamo tutelare seriamente il nostro patrimonio archeologico è necessaria una legge che imponga a chiunque voglia effettuare scavi la supervisione di un archeologo che valuti il potenziale archeologico e segua, se ritenuto necessario, i lavori. L’applicazione di una simile legge comporterebbe l’impiego di un vasto numero di archeologi di cui oggi il Ministero non dispone. La Convenzione risolverebbe tutte queste problematiche perché già le prevede. Allora perché non viene ratificata? Eppure il suo parziale recepimento nella nostra legislazione mostra quanto sarebbe minimo lo sforzo per ratificarla. Forse c’è il timore che una legislazione organica come quella della Convenzione possa scuotere o cambiare troppo repentinamente l’attuale normativa, e quindi mettere in crisi l’attuale sistema. Forse c’è il timore che possa essere percepita dai costruttori come l’ennesima tassa. Paura e ignoranza le cause della mancata ratifica? Non è certo. Certo invece è che ratificarla comporterebbe una maggiore concertazione della tutela, oggi prerogativa esclusiva del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac) ad eccezione degli articoli 95 e 96 del Codice degli Appalti (relativo al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti). Esattamente un anno fa Lorenzo Ornaghi, nel suo discorso di insediamento al Governo in qualità di Ministro per i Beni e le Attività Culturali, aveva pubblicamente promesso come obiettivo prioritario del suo mandato la ratifica della Convenzione. Oggi che il Governo Monti si è dimesso, chi manterrà la promessa?
Il riconoscimento professionale dell’archeologo Conseguenza della mancata ratifica è il ritardo nello sviluppo e nella modernizzazione tanto dell’archeologia quanto della tutela del patrimonio. L’archeologo oggi è condannato ad uno stato di precarietà, la sua professionalità continuamente mortificata, la sua passione calpestata. In Italia non esiste l’albo degli archeologi. Sebbene piccoli progressi siano stati fatti, sino a pochi anni fa in Italia un archeologo che andava a stipulare un’assicurazione, obbligatoria per poter svolgere la sua professione, era costretto a stipularla come geologo o architetto o ingegnere in quanto le professioni “più simili alla sua”, questo veniva spiegato dall’assicuratore. Non esisteva la voce archeologo. Eppure l’Italia è la culla dell’archeologia. La Cia stima a 15.000\18.000 il numero degli archeologi (laureati\specializzati\dottorati) nel nostro Paese, di cui attualmente solo 6.000\7.000 operanti in attività archeologiche. Sono numeri impressionanti, soprattutto se si pensa che solo poche centinaia di essi sono oggi ufficialmente riconosciuti e qualificati come archeologi in quanto dipendenti pubblici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, tanto che l’Associazione Nazionale Archeologi (Ana) ha stimato la media di 1 archeologo ogni circa 1.200 chilometri quadrati di territorio nazionale. In conclusione il numero degli archeologi è insufficiente a garantire la copertura delle esigenze della tutela del patrimonio archeologico italiano. La conseguenza è che da decenni il Ministero per i Beni e le Attività Culturali delega le attività archeologiche a soggetti terzi, senza averne tuttavia definito competenze e i titoli.
Le lacune del Codice Urbani Il testo legislativo fondamentale per la tutela del patrimonio archeologico, artistico e culturale italiano (il DLgs 42/2004), meglio conosciuto come Codice Urbani), si concentra sulla definizione del bene culturale e sulla sua tutela, ma non individua parallelamente requisiti e competenze dei soggetti che svolgono questa tutela. Sembrerà assurdo ma nel Codice non compare mai la parola archeologo, dove invece è menzionato il restauratore. Eppure esiste un iter universitario lungo e faticoso per diventare archeologi. Un iter che necessiterebbe chiarezza dal momento che esiste infatti l’archeologo munito solo di laurea triennale, quello con laurea specialistica, quello con laurea e specializzazione post laurea e\o dottorato di ricerca e\o master. Esistono quindi diversi livelli formativi ma non è dato sapere quali competenze spettino ad ognuno dei livelli. Si aggiunga che esistono molti archeologi solo laureati ma con un’esperienza pratica di gran lunga maggiore di quelli muniti di specializzazione, dottorato e master. Viceversa esistono laureati che non hanno mai preso parte a scavi archeologici. Questo perché è sempre mancato un riconoscimento e una regolamentazione della professione. Motivo per cui l’archeologo oggi non ha tutele e diritti. Delle piccole conquiste negli ultimi anni ci sono state. Nel 2006 il Codice degli Appalti (DLgs 163/2006), introducendo l’obbligo di una valutazione preventiva dell’interesse archeologico, redatta e firmata da un “soggetto” in possesso di scuola di specializzazione in archeologia e\o dottorato, ha delineato per la prima volta il profilo professionale dell’archeologo. Il limite di questo decreto è che esclude quanti si sono fermati alla laurea, senza conseguire titoli post lauream. Il DPR 207/2010, che costituisce il regolamento della legge 163\2006, è invece il primo testo di legge in cui è citata quest’entità oscura, quasi malefica per i costruttori: l’”archeologo”. Vediamo alcuni di questi articoli: Art. 245. Progettazione dello scavo archeologico 1. Il progetto preliminare… è costituito da una relazione programmatica delle indagini necessarie e illustrativa del quadro delle conoscenze pregresse 2 …La relazione…è redatta da soggetti con qualifica di ARCHEOLOGO in possesso di specifica esperienza e capacità professionale coerenti con l’intervento. Art. 251. Collaudo dei lavori riguardanti i beni del patrimonio culturale 4. Per il collaudo dei beni relativi alla categoria OS 25 l‘organo di collaudo comprende anche un tecnico con la qualifica di ARCHEOLOGO in possesso di specifica esperienza e capacità professionale coerenti con l’intervento nonché un restauratore entrambi con esperienza almeno quinquennale in possesso di specifiche competenze coerenti con l’intervento.
Il DPR riserva all’archeologo progettazione preliminare, direzione tecnica e collaudo dello scavo archeologico, scongiurando il rischio di vedere scavi diretti da architetti o geologi o ingegneri. Ma non delinea il profilo dell’archeologo, in quanto non specifica quali siano le esperienze e le capacità che deve possedere. Non chiarisce inoltre la differenza di competenze tra laureati, specializzati, dottorati e “masterizzati” in archeologia. Per non parlare dell’archeologo con laurea triennale che il Ministero ha sancito essere una laurea professionalizzante. Di cosa potrà mai occuparsi un triennalista? Che competenze potrà mai aver acquisito in tre anni?
La Direzione Generale per l’antichità del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha di recente emanato due circolari interpretative che chiariscono in dettaglio le procedure relative a queste norme e il ruolo degli archeologi. La Circolare 10/2012 Malnati ad esempio, esplicativa delle procedure di valutazione di impatto archeologico, fa chiarezza su un argomento molto dibattuto: le pubblicazioni di fine scavo. Una volta concluso lo scavo, deve fare seguito la pubblicazione dei dati emersi. È la fase conclusiva e di maggiore importanza del lavoro di un archeologo, è il momento in cui deve rendere noti i dati che ha acquisito, interpretarli e metterli a disposizione della comunità scientifica. Il limite della Circolare Malnati è che si riferisce solo a cantieri con committenti pubblici sebbene suggerisca di utilizzare le stesse norme anche in quelli privati. Ma suggerisce, non impone. E quindi che cosa succede nei cantieri privati? La speranza è che sia rispettato quanto stabilito nell’art. 96 del Codice degli Appalti (DLgs.163/2006), ossia che il funzionario nella pubblicazione deve tener conto di chi ha partecipato allo scavo. Usualmente in Italia è il direttore scientifico del cantiere ad avere il diritto di pubblicare, ossia il funzionario di zona della Soprintendenza. È prassi che l’archeologo che ha seguito i lavori debba consegnare una relazione di fine scavo a funzionario e committente ma non possa occuparsi lui stesso della pubblicazione.
I giorni della protesta Per ricordare il primo anniversario della promessa fatta dal Ministro Ornaghi, circa la ratifica della Valletta, lo scorso dicembre l’Ana ha indetto una manifestazione nazionale al Pantheon. Il colonnato è stato simbolicamente “preso in ostaggio come lo Stato tiene in ostaggio i professionisti dell’archeologia “ e quindi incartato con del nastro bianco e rosso da lavori in corso. Due i punti salienti della manifestazione: la Ratifica della Convenzione di Malta come strumento indispensabile per portare in maniera stabile la professione nella cabina di regia della pianificazione territoriale, e l’Inserimento della figura dell’archeologo nel Codice Urbani. Si chiede il riconoscimento di una categoria che interviene in una materia di interesse pubblico come il patrimonio culturale, per la quale vanno formulate norme contrattuali e formative. «È grave che proprio in Italia la figura dell’archeologo, al contrario di quella del restauratore, non sia riconosciuta e inserita nel Codice dei beni culturali” ha detto Tsao Cevoli, presidente dell’Ana “Il riconoscimento giuridico pubblico è condizione indispensabile per dare tutela, dignità e diritti a migliaia di archeologi senza i quali il nostro patrimonio culturale andrebbe perduto”. E’ necessaria l’istituzione di elenchi nazionali degli archeologi e delle attività cui sono deputati, per evitare abusi, clientelismi e qualsiasi prassi scorretta. È altresì fondamentale, anche in applicazione alla recente riforma del lavoro, regolamentare e controllare i compensi degli archeologi, introdurre gli ammortizzatori sociali minimi e garantire diritti come quello alla maternità. Quei diritti costituzionali che dovrebbero essere garantiti a ogni lavoratore. È necessaria l’eliminazione della “logica del massimo ribasso”: logica secondo cui vince l’appalto la società che offre di fare il lavoro al minor costo. Oggi l’archeologo è un moderno gladiatore: deve lottare ogni giorno alla ricerca di un cantiere, di un contratto (solitamente a progetto altrimenti con partita Iva) per poi piegarsi alla volontà di una datore di lavoro dal quale è il più delle volte sottopagato, sempre più spesso a distanza di mesi o anni. Avete letto bene: anni! Forse c’è qualcosa che non funzione nel sistema italiano. Di sicuro alla cultura non viene data la giusta importanza. È solo una parola con cui ci sempre più spesso ci si riempie la bocca nelle stanze importanti della politica. Il riconoscimento della professione era già stato chiesto nella prima manifestazione di protesta, nel 2008, mediante la quale l’Ana ottenne la presentazione alla Camera di una proposta di legge, la “Legge Madia”, firmata anche dalla Cia ma rimasta sulla carta perchè “messa in secondo piano rispetto ad altre priorità” spiega Pintucci, presidente della CIA “ma soprattutto per mancanza di attenzione al problema”. La legge inserisce la figura professionale dell’archeologo nel Codice Urbani. “Non è più prorogabile il riconoscimento della professionalità degli archeologi” dichiara Salvo Barrano, vice presidente dell’Ana “tanto più che si tratterebbe di una norma senza oneri per lo Stato”tranne il poco inchiostro dello stenografo d’aula. Dello stesso parere Alessandro Pintucci presidente della Cia, secondo il quale il mancato inserimento dell’archeologo nel Codice Urbani è dovuto solo alla mancanza di volontà da parte del Governo italiano.
La riforma delle professioni Il 19 dicembre 2012, dopo trent’anni di attesa, è stato approvato dal Parlamento il DDL 3270 sulla Regolamentazione delle professioni non organizzate in ordine o albo: associazioni, riconosciute dal Ministero dello Sviluppo Economico, potranno certificare i professionisti. Per la Cia è un passo avanti perché finalmente le associazioni professionali archeologiche potranno rilasciare, anche ai non iscritti, un certificato di qualità attestante il livello professionale dell’archeologo. Questo permetterà di tutelare la professionalità dell’archeologo e consentirà al committente di conoscere le competenze dell’archeologo. L’Ana, membro del consiglio Direttivo del Co.L.A.P. promotore della legge, ha ovviamente accolto con favore l’approvazione ma continua a ritenere necessario anche un riconoscimento pubblico dei professionisti. Si augura inoltre che le procedure di certificazione e di qualificazione non si traducano in un balzello a carico dei professionisti e dei lavoratori destinato ad enti privatistici interessati a lucrare sul business delle certificazioni. I certificati, che non saranno obbligatori per svolgere l’attività professionale, dovranno essere conformi alla norma tecnica UNI, in questo caso definita per la professione dell’archeologo, e saranno dati dopo aver eseguito le opportune verifiche, al fine di tutelare i committenti e di garantire la trasparenza del mercato dei servizi professionali. Attualmente Cia, Cnap (Confederazione Nazionale Archeologi Professionisti) E Fap (Federazione Archeologi Professionisti) stanno scrivendo congiuntamente la norma Uni per la professione dell’archeologo: “stiamo elaborando per la prima volta una definizione per l’archeologo in qualità di professionisti che la esercitano” ci spiegano i presidenti delle tre associazioni. E l’Ana? “Non è che non siamo interessati a una definizione della figura dell’archeologo e alla norma tecnica e non vogliamo discuterne anzi siamo aperti alla discussione” dichiara Walter Grossi coordinatore nazionale dell’ANA “semplicemente abbiamo già tenuto due congressi nazionali mirati su questo nel 2007 e nel 2010 che hanno anche definito la figura professionale tramite una sistema a fasce. Per cui avendo già definito in modo avanzato la figura è prioritario non tanto stare a discutere chi sia l’archeologo, anche perché questo comincia ad essere già definito in alcune leggi come l’art.95 della 263/2006 ed il DPR 207/2010, quanto invece riconoscere pubblicamente per legge la figura professionale in un testo normativo ad hoc che metta chiarezza.” Sebbene queste norme e circolari inizino a fare chiarezza e a definire le competenze dei soggetti che operano in questo settore del mercato del lavoro, regolamentano solo alcuni segmenti dell’attività archeologica. Fanno capire quanto sia urgente fare ordine, colmare le lacune per garantire qualità nella valorizzazione e nella tutela del nostro patrimonio. Mostrano quanto sia urgente il riconoscimento giuridico pubblico della figura di archeologo. E’ per ottenere questo riconoscimento che Ana e Cia chiedono l’inserimento della figura dell’archeologo nel Codice dei Beni Culturali, la riforma dei processi formativi e la ratifica della Convenzione della Valletta. Questo passo rappresenterebbe il superamento del fossato che separa ormai da venti anni l’archeologia italiana da quella europea.
In allegato il testo integrale della Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico