In questi giorni social network e politica sono  stati molto impegnati  a discutere della pubblicità  Barilla che da anni sforna lo stereotipo più disperato e velleitario della famiglia italiana.

Lo spot tipo, a parte qualche variazione, prevede la mamma che secondo l’eterno ruolo, serve a tavola una  famiglia, come ha condannato la presidente Boldrini alcuni giorni fa. Il capo industria Guido Barilla, invece, divorziato e rimaritato con famiglia più che allargata, e tutto da vedere quanto felice, ha poi aggiunto  che, lui,  la pasta non la venderebbe ai gay.

La sola vera risposta, in  un simile panorama  in cui l’immaginario nazionale è affossato dentro anni di politica, marketing pubblicitario e industria culturale saldati uno all’altro, è la  novità assoluta   “Anni Felici” di Daniele Luchetti, presentato al Festival di Toronto, e in sala in Italia a partire dal 3 ottobre. La più bella storia gay femminile  del cinema italiano.

Si tratta  della famiglia del regista (la cui voce  narrante adulta  commenta  alcuni passaggi fondamentali)  raccontata dal punto di vista di Dario, bambino che riprende con una cinepresa come il mondo delle  relazioni e degli affetti familiari cambia sotto i suoi occhi. 

E cosa cambia? La madre. Serena (Micaela Ramazzotti) si trasforma, pur mantenendo tentennamenti e contraddizioni, da donna di casa dipendente dal marito, in donna libera che esce da un ruolo e scopre il suo desiderio. S’ innamora di Elke,  femminista militante,  e  per lei lascia il marito (Kim Rossi Stuart)  artista performer  con problemi di affermazione  che vorrebbe la moglie  ipocritamente  presente e  assente a seconda dei propri comodi e dei propri tempi. Compresi quelli della propria realizzazione artistica. 

Per estensione dunque è la storia – dolorosa – della scoperta della libertà nel contesto meno probabile, cioè la famiglia. Il racconto senza giudizio e senza sofferenza suggerisce una geografia di emozioni  elaborate per una vita intera nell’animo del regista e  – probabilmente – nella saletta del suo analista, talmente è attraversato da leggerezza piena di significato,  possibile solo dopo un lungo viaggio negli abissi.

Perfino la scena liberatoria del piccolo Dario, stanco di assistere alla nevrosi dei genitori e delle loro sofferenze spiattellate senza ritegno davanti a lui e al fratello riesce ad essere lieve e non  stucchevole: “siete degli stronzi!” grida il bambino, su un pontile che gli fa da palcoscenico improvvisato, per poi  tuffarsi  in mare rimanendo impigliato a una rete. Un tentativo di suicidio punito con  (meravigliosi) ceffoni suonati contemporaneamente da entrambi i genitori : “te volevi suicidà? Eh? T’ammazzo prima io, t’ammazzo”. Ma, dice la voce del regista, che non possiamo che sentire  fraterna per il regalo che ci fa della sua intimità senza ombra di  autocommiserazione né di autocelebrazione:  “quel giorno, si sono accorti di me”. 

Nel corso di tutto il film il piccolo Dario osserva, filma, trascina a tracolla  la sua cinepresa come un handicappato  porta appresso la sua protesi. Cerca di captare  l’attenzione del padre e della madre  impegnati nella zuffa e nelle rappacificazioni quotidiane: “mica te la puoi cava’ sempre con gli abbracci” replica agli slanci di affetto della madre dopo l’ennesima  separazione tra i due. 

E quella protesi  è lo strumento per dire la  verità : grazie alle immagini che gira in vacanza con la madre e il fratello, e che poi proietta in un filmino casalingo, il padre scopre della relazione omosessuale della moglie ed è costretto a farci i conti.
“Quell’estate mia madre e io perdemmo l’innocenza” dice la voce del regista “oppure, la trovammo”.

Infatti, cosa c’è di  meno innocente  – secondo le convenzioni –  che scoprire il proprio desiderio e cosa c’è di veramente innocente, quando è senza compromessi, che la libertà del proprio desiderio?

Luchetti, classe 1960, ha ambientato l’azione del film nei mitici anni ’70. In realtà la narrazione è quella  del  “tempo ritrovato” dal regista, grazie a due  strumenti fondamentali ma mai ingombranti.

Il primo è  l’universo  anarchico di suo padre  artista d’avanguardia  in cerca dell’ “opera”  che faccia parlare di sé “perché disturba”, salvo poi essere realmente messo in discussione  e sconvolto  dalla  vera artista della famiglia, cioè la  madre  (secondo un classico delle biografie degli artisti).
Il secondo, sono le  immagini captate dal bambino. Sono immagini di corpi soprattutto. E il  corpo come spazio mitico è un altro grande protagonista del film. Dettagli di corpi, che si incontrano, si toccano, corpi che si desiderano.

Raccontare di una  madre lesbica avrebbe orientato il racconto sullo  scandalo di quegli anni, e sullo scandalo  tout court. O su cosa si penserebbe oggi. O su un giudizio. O su un trauma. Invece è solo una storia d’amore e di libertà che si intreccia  nelle sofferenze   dei membri della famiglia. E’  la storia di come un bambino e poi un adulto siano riusciti a vivere e elaborare le scelte dei propri genitori.  Attraverso il cinema ancora si può.

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