Il vertice dei 27 paesi europei, iniziato giovedì sera, ha certamente tradito le aspettative di chi auspicava una nuova Maastricht.
Vista la complessità del momento, non solo per i 17 della zona Euro, erano in molti a pensare che una riforma dei trattati fosse necessaria, poiché l’attuale assetto normativo comunitario mostra lacune e malfunzionamenti che non si possono negare. Ancora una volta, tuttavia, è prevalso il campanilismo nazionale, per cui si accetta un cambiamento solamente a condizione di un vantaggio tangibile ed immediato, in grado magari di portare una manciata di voti in più alle prossime elezioni.
Il risultato di tali comportamenti è un’ulteriore polarizzazione dell’Europa, anche se stavolta sembra che il fronte dei dissidenti ad ogni costo si sia ridotto ad un solo Paese, il Regno Unito, intenzionato a mantenere saldamente il proprio status di paese membro “sui generis”, isolato dal continente più di quanto non lo sia geograficamente.
A causa del veto del premier Cameron, infatti, l’accordo formulato dai rappresentanti della zona Euro, al quale dopo qualche titubanza stanno aderendo anche gli altri 6 Stati, non potrà essere ratificato a modifica dei trattati precedenti, rimanendo dunque un semplice accordo intergovernativo, motivo per cui rischia di perdere buona parte della sua credibilità ed efficacia.
Il Motivo per cui la Gran Bretagna si è opposta a qualunque intervento diretto sui trattati è stato riassunto in modo lapidario, forse riduttivo, dal premier francese Sarkozy: “Molto semplicemente per accettare una riforma a 27, David Cameron ha chiesto ciò che abbiamo considerato inaccettabile, un protocollo per esonerare la Gran Bretagna dai regolamenti sui servizi finanziari (…) Inaccettabile anche perché parte dei problemi dell’Europa vengono da questo settore”.
Londra è tradizionalmente restia a qualunque trasferimento di sovranità nazionale verso l’Europa, specie per quanto riguarda le regole finanziarie, terreno sul quale si sente molto più vicina a Washington che a Bruxelles. La tensione è sicuramente alimentata dall’atteggiamento britannico, che in queste occasioni tende a sfruttare il proprio potere di veto per ottenere esenzioni e regini speciali, dei quali peraltro già gode sulla politica agricola e sui vincoli di bilancio. La mossa di Cameron rischia però di dividere il Paese: Miliband, esponente dei laburisti ed ex-ministro degli Esteri, ha affermato che “il Regno Unito è saltato a bordo di una barca a remi a fianco delle superpetroliere delle altre nazioni. (…) Questa è debolezza, non forza”.
Anche tra i paesi dell’Eurozona non sono tuttavia mancate le divergenze, peraltro emerse già distintamente nelle ultime settimane, per cui i contenuti dell’accordo lasciano qualche perplessità, soprattutto per l’assenza dalla discussione di alcuni punti nodali. Il documento finale (leggibile allegato) redatto dai capi di Stato o di Governo della zona Euro identifica due linee operative volte a rafforzare la stabilità finanziaria.
La novità principale riguarda il controllo del deficit nazionali, sui quali si acuisce il controllo da parte degli organi comunitari (Commissione e Consiglio). Si afferma che “i bilanci generali delle amministrazioni pubbliche devono essere in pareggio o in avanzo”, con una tolleranza dello 0,5% di deficit strutturale rispetto al PIL. La norma dovrà essere adottata dai rispettivi ordinamenti a livello “costituzionale o equivalente”, procedura peraltro già avviata dal nostro parlamento (vedi articolo settimana scorsa). Si tratta di un approfondimento del già esistente patto di Stabilità, che a seguito della modifica del 2005 imponeva il pareggio di bilancio “nel medio termine”, mentre l’attuale proposta si applica su base annuale. La seconda differenza risiede nell’applicazione delle sanzioni in caso di “procedura per deficit eccessivo”, che si attiva quando viene superato il limite consueto del 3%, poiché “scatteranno conseguenze automatiche”, ovvero senza la farraginosa operazione di assenso da parte degli altri Stati Membri.
Il secondo punto del documento concerne i meccanismi finanziari, volti a fronteggiare non solo la crisi dei debiti sovrani di questo momento, ma anche eventuali attacchi speculativi futuri, attraverso l’introduzione di uno strumento permanente, lo European Stability Mechanism (ESM). Questo nuovo fondo salva-stati, la cui introduzione è stata anticipata a luglio 2012, dovrebbe andare a sostituire gradualmente l’attuale EFSF, ritenuto insufficiente e di difficile applicazione, portando in dote circa 500 miliardi di euro disponibili per prestiti. I Paesi si impegnano inoltre a verificare la possibilità, entro 10 giorni, di attivare prestiti bilaterali tra le banche centrali ed il Fondo Monetario Internazionale, così da mettere a disposizione in breve tempo ulteriori 200 miliardi per le misure anticrisi. Un’altra decisione importante è stata quella di escludere la partecipazione di privati alle eventuali operazioni di “salvataggio” (prestiti) verso gli Stati in difficoltà, dati i risultati non proprio confortanti ottenuti in Grecia.
Le misure proposte soddisfano senza dubbio le aspettative della Germania, ormai convinta (con colpevole ritardo) che sia inevitabile costruire un sistema di aiuto reciproco in caso di emergenza. A fronte della costituzione dell’ESM, che verrà gestito dalla BCE ma non potrà finanziarsi sul mercato come “istituzione creditizia”, la Merkel ha ottenuto l’obiettivo prefissato, ovvero l’adozione di un rigoroso controllo sui conti pubblici a garanzia degli interessi tedeschi, che non hanno la minima intenzione di veder crescere i propri tassi d’interesse a causa di Paesi “poco virtuosi”. A tal fine si è evitato accuratamente di parlare di Eurobond e condivisione del rischio di credito, nemmeno come ipotesi di lungo periodo.
Manca all’appello anche un ripensamento del ruolo della BCE, la cui politica resta al centro dibattito. Giovedì Draghi ha annunciato un ulteriore taglio del tasso di rifinanziamento principale, giunto all’1%, il cui effetto positivo è stato immediatamente compensato dalle parole dello stesso governatore in merito agli acquisti di titoli del debito, che “non sono né infiniti né eterni”. Lo spread tra i BTP ed i bund tedeschi è così tornato ad attestarsi sui 450 punti, mentre le borse sembrano essersi rassicurate dopo il Consiglio Europeo.
Ancora una volta sarà necessario aspettare il giudizio dei mercati, che a partire da lunedì dovranno valutare la credibilità delle proposte adottate. Le aspettative dei governanti sembrano positive, forse perché in questa occasione si è riscontrata, per la prima volta dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani in Irlanda e Grecia, una effettiva comunione di intenti, anche se derivante da una miriade di compromessi. La divergenza del Regno Unito, in questo contesto, potrebbe rappresentare il vero fattore destabilizzante, non tanto per l’auto-esclusione dall’accordo, quanto per l’occasione persa di modificare i trattati e rendere più efficaci le misure intraprese. L’euforia del momento ricorda l’approvazione del Patto di Stabilità nel 1997, quando sembrava che le regole fossero talmente rigide da rendere impensabile ciò che si sta verificando da due anni a questa parte: quelle regole si sono dimostrate insufficienti, se non controproducenti. Appare chiaro che le “nuove” regole, che ad oggi non si discostano da quella linea, con la grande eccezione dei meccanismi di aiuto finanziario, debbano essere approfondite e dibattute, cercando però di abbandonare i personalismi nazionali, l’ultima cosa di cui c’è bisogno.
Consiglio europeo 9 dicembre 2011