Questa settimana è arrivata la “svolta” che molti auspicavano, ma gli effetti appaiono ancora tutti da verificare. L’unica certezza percepita in questi giorni frenetici, a partire dalle annunciate dimissioni del Presidente del Consiglio Berlusconi di martedì e dagli sviluppi nei mercati dei giorni seguenti, sembra essere il vincolo inscindibile che ormai si è creato tra politica ed economia.
Il picco di instabilità raggiunto in questi due giorni, determinato tanto dall’incertezza sulla successione a palazzo Chigi quanto dall’approvazione dell’agognato maxi-emendamento alla Legge di Stabilità, ha portato i tassi d’interesse sui titoli del debito a livelli spaventosamente elevati, sopra la soglia limite del 7%, con lo spread aumentato 60 punti nella sola giornata di mercoledì (da 490 a 550 punti base). Nella stessa giornata, la borsa di Milano ha perso ben oltre il 3 per cento, tirata giù dai titoli bancari: il peggior ribasso se lo è aggiudicato Mediaset a -12%, sintomo che la fiducia nel Cavaliere è stata intaccata anche sotto l’aspetto delle capacità imprenditoriali. Mentre sui mercati mondiali montava la paura sulla sostenibilità del debito italiano, a Roma i tecnici inviati dalla Commissione Europea sottoponevano i conti pubblici e le proposte di riforma ad un controllo senza precedenti nella storia d’Italia. A quel punto qualcosa sembra essere scattato nel lento meccanismo politico, portando il Ministro Tremonti a presentare in tarda serata il maxi-emendamento alla Legge di Stabilità, di cui si prevede l’approvazione entro sabato pomeriggio. L’entità del pericolo ha portato contestualmente il Presidente Napolitano a prendere le redini della situazione: da un lato l’annuncio sulla certezza delle dimissioni del premier, corredato dall’impegno a procedere in tempi strettissimi alle consultazioni per verificare la fattibilità in parlamento di un governo alternativo, dall’altro la nomina di senatore a vita conferita a Mario Monti. Questi i fatti di una giornata intensa, che di certo inciderà pesantemente sul futuro di questo paese. Nella confusione che si è andata generando con il passare delle ore, infatti, non sembra ancora essersi delineato uno scenario definito, una soluzione al rebus che possa mettere tutti d’accordo, politici, Europa e mercati. Ma soprattutto continua ad aleggiare lo spettro del fallimento dell’Italia, rischio che potrebbe essere scongiurato o comunque gestito in modi alternativi. Partendo dall’ipotesi relativamente migliore in termini di contenimento dei tassi, si può immaginare che le consultazioni successive all’approvazione della Legge di stabilità portino ad una convergenza all’interno parlamento a favore di un governo di “salvezza nazionale” o “tecnico”, che riesca a risolvere la crisi senza smettere di pagare i creditori. Non c’è dubbio che la nomina di Monti a senatore a vita, che “ha illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”, come recita la nota ufficiale del Quirinale, rappresenti un segnale chiaro delle intenzioni del presidente Napolitano. Il Professore gode di un’ottima reputazione in Europa, avendo anche ricoperto un ruolo di primo piano in Commissione Europea durante gli anni di entrata nell’Euro, ma soprattutto è in perfetta linea con l’impostazione delle misure anticrisi prescritte dagli organi internazionali. Il fatto che Monti non sia stato eletto costituisce un punto a suo favore in una situazione come questa, in cui potrebbe essere necessario adottare misure fortemente osteggiate da alcune forze politiche e dagli stessi cittadini, come tagli agli stipendi pubblici, ulteriori manovre restrittive o aumenti delle tasse. Non dovendo rispondere politicamente a nessuno del proprio operato se non alle istituzioni europee ed internazionali, i mercati potrebbero ritenere molto credibile un governo che proceda in tale direzione: in altre parole, il solo nominare Monti presidente del Consiglio potrebbe raffreddare lo spread e riportare un minimo di fiducia sul nostro debito, come già sta accadendo. L’epilogo della vicenda, comunque, rimane tutt’altro che scontato, anche nel caso più che plausibile di un governo Monti: i mercati terranno probabilmente l’Italia sulla corda per un periodo indefinito, almeno fino a quando non si vedranno misure sostanziali, in grado cioè di garantire almeno qualche prospettiva di crescita del PIL. Molto dipenderà dalla disponibilità dei due grandi partiti italiani a sostenere senza esitazioni provvedimenti difficili, che dovranno essere approvati anche nel caso in cui si riesca a far calare i tassi a livelli sostenibili, perché l’obiettivo finale deve essere quello di abbattere il livello del debito nel suo complesso. Rimanendo nello scenario di non fallimento, potrebbe prospettarsi una seconda opzione, utile nel caso in cui questo nuovo governo non riesca ad adottare in tempi brevi misure che aumentino la fiducia nella nostra economia. Si tratta del ricorso all’aiuto finanziario esterno, dal Fondo Monetario o dall’Europa, come già successo per Irlanda, Portogallo e Grecia. I finanziamenti sarebbero condizionati all’approvazione di riforme strutturali decise altrove, mentre un governo “tecnico” (o meglio “fantasma”) si limiterebbe a ratificarle. Sebbene nessuno, nel panorama politico, si azzarderebbe ad augurarsi una soluzione di questo tipo, potrebbe rivelarsi ancora più conveniente per i partiti, che approverebbero misure dolorose scaricando all’esterno le connesse responsabilità. È bene sottolineare che non necessariamente le imposizioni economiche internazionali portano un miglioramento: la Grecia, nonostante i sacrifici enormi in termini di crescita e salari, si avvia verso un fallimento controllato accompagnato da recessione e disoccupazione di massa, con il rischio di una imminente quanto clamorosa uscita dall’Euro. Per quanto le prospettive non siano entusiasmanti, anche nel caso di un recupero della fiducia, visto che difficilmente l’economia si risolleverà in tempi brevi, lo scenario più inquietante resta quello del fallimento. In breve, quando un paese smette di pagare i propri creditori, anche solo per una parte del credito dovuto, si attiva un meccanismo perverso trainato dal panico. Le banche, che utilizzano i titoli in portafoglio come garanzia per ottenere a loro volta prestiti, si trovano senza copertura e sono costrette ad aumentare vertiginosamente i tassi d’interesse richiesti sui mutui e non sono più disposte a concedere prestiti: si profila il cosiddetto “credit crunch”. Ancora prima che ciò accada i correntisti, avvertendo un serio pericolo di fallimento della propria banca, si precipitano agli sportelli per prelevare i propri depositi accelerando tale processo, ma presto molti non troveranno i propri soldi, poiché l’istituto ne detiene solo una parte in contanti. Tale catena di eventi può essere evitata in quanto il default, al contrario di quanto comunemente si pensi, si può presentare sotto molteplici forme, più o meno drastiche a seconda delle modalità prescelte. È assolutamente impensabile che l’Italia azzeri di punto in bianco il valore dei propri titoli, perché così facendo nessuno ci presterebbe più soldi per almeno qualche decennio, senza considerare gli effetti devastanti sul sistema finanziario globale, di cui abbiamo già avuto un assaggio nel 2008. In alternativa si potrebbe procedere ad una riduzione del valore dei titoli “concordata” con i creditori, che accetterebbero ad esempio di ricevere indietro 50 euro a fronte di un titolo acquistato con 100 (cosiddetto default “ordinato”). Questa operazione, che peraltro si sta materializzando sul debito greco, presuppone che le banche più esposte, nello specifico quelle italiane, vengano ricapitalizzate per far fronte alle perdite dei rispettivi portafogli, anche attraverso l’utilizzo di soldi pubblici. Se poi il default non è concordato, ovvero se al taglio improvviso del valore dei titoli non corrisponde alcun sistema di protezione, sarà difficile impedire la fuga di capitali all’estero: le banche entrerebbero immediatamente in una crisi di liquidità a causa dei prelievi massicci. Resta da vagliare l’ultima ipotesi, forse la più incredibile di tutte alla luce delle regole europee. Un ruolo decisivo, infatti, potrebbe giocarlo la BCE, decidendo di acquistare quantità illimitate del nostro debito, fino a quando i tassi non saranno scesi ai livelli di sostenibilità. Si tratterebbe di una misura clamorosa, non tanto per la modalità (la FED americana acquista titoli in modo massiccio), quanto per la sostanziale violazione dei trattati europei, che vietano esplicitamente alla Banca di svolgere un ruolo di “prestatore di ultima istanza”. L’afflusso di ingenti quantità di moneta, stampata dalla BCE, porterebbe ad un aumento certo dell’inflazione, acerrima nemica della Germania, che a sua volte ridurrebbe il valore reale del debito. Probabilmente questa è l’arma segreta, pronta ad essere attivata solo in caso di un pericolo imminente per l’esistenza stessa della moneta unica. Per il momento non è dunque possibile capire dove andrà la corrente: la prossima settimana lo scenario sarà certamente più definito e lunedì i mercati daranno ancora una volta il proprio giudizio in merito alle mosse intraprese. La speranza rimane quella di farcela da soli, puntando più sulla reputazione di personaggi come Monti che sulla effettiva capacità di rimediare in pochi giorni ad un decennio di immobilismo economico.