L’ultima tempesta che si è abbattuta sui navigatori del web è quella scatenata dalla cosiddetta norma “ammazza blog”. Un emendamento a un comma del disegno di legge sulle intercettazioni che, sebbene il confronto politico delle ultime ore lo abbia limitato alle testate giornalistiche on line dunque lasciando fuori blog e siti vari, viene considerato uno dei più clamorosi e inaccettabili tentativi di “mettere il bavaglio al libero pensiero del web”.
A cavalcare, e spingere con forza, la rivoluzione del popolo del web sono le pagine italiane di Wikipedia, l’enciclopedia on line, che in segno di protesta, mentre si discuteva dell’emendamento, sono state tutte oscurate dai gestori del portale i quali spiegano che la norma “ammazza blog” uccide esempi di sapere e informazione democratica proprio come Wikipedia. Cliccando su una qualunque pagina di Wikipedia si apre un annuncio che spiega la nefandezza – secondo gli amministratori dell’enciclopedia – dell’emendamento e profetizza la fine del mondo (del web).
In particolare, Wikipedia dixit, perché consente di chiedere una rettifica direttamente agli amministratori del sito “invece di passare per un giudice terzo”. Il giudice terzo sarebbe il Garante delle comunicazioni che, attualmente, è il soggetto al quale bisogna rivolgersi per chiedere la pubblicazione di una rettifica sui siti che non sono registrati come testate giornalistiche.
Il legislatore, preso dal panico per la rivoluzione in rete, ha prontamente fatto dietro-front, tenendo fuori dalla riforma tutto ciò che non è testata giornalistica. Tipica reazione di un legislatore costantemente sotto ricatto, intrinsecamente debole in quanto non sostenuto dalla forza delle proprie convinzioni ma soltanto dal bilanciamento delle proprie convenienze.
Anzitutto: cosa dice questo emendamento (che ormai sembra destinato ad essere applicato solo alle testate giornalistiche on line)? In sintesi introduce alcune modifiche alla legge sulla stampa del 1948 che già prevedeva per tutte le testate giornalistiche su carta l’obbligo di rettifica A RICHIESTA DELL’INTERESSATO, e dunque senza alcun “giudice terzo”, come invoca Wikipedia.
Attualmente infatti – e per ora le cose restano così – chi volesse rettificare qualcosa pubblicato da un sito che non è giornalistico deve rivolgersi al Garante delle comunicazioni, chiedere di disporre e, se la richiesta è motivata, il Garante inoltra ai gestori del sito la rettifica per la pubblicazione.
Le modifiche tendevano a equiparare alle testate giornalistiche i siti on line e i blog, anche non registrati come testate giornalistiche, e volevano obbligare anche questi a pubblicare le rettifiche a richiesta di chi si senta danneggiato dalle notizie riportate o semplicemente le voglia integrare (rettifica non vuol dire necessariamente smentita).
Anzitutto va precisato che consentire a qualcuno di rivolgersi direttamente al sito d’informazione – e non al Garante – per la pubblicazione di una rettifica non pregiudica in alcun modo la libertà d’informazione. La pubblicazione della rettifica, infatti, non elimina ciò che era stato precedentemente pubblicato e che ha causato quella rettifica.
Ancora una volta il “libero pensiero del web” – che per tanti motivi e in tante occasioni si dimostra prezioso – quando si tratta di riflettere su questioni tecniche si rivela una palude melmosa di luoghi comuni e ignoranza.
Per carità: non è colpa di nessuno. E’ solo che in questo nostro Paese le regole sono da tanti anni ignorate, violate, dimenticate, inapplicate, che la maggior parte di noi crede davvero che non esistano. E, per giunta, crede che l’assenza di regole sia garanzia di libertà! Che ne è stato di seicento anni di giuristi, filosofi, umanisti, politologi, sociologi?
Accade così, sempre più spesso, che – a cominciare dalla classe politica e dagli opinionisti che l’attività della classe politica dovrebbero divulgare e commentare – si discuta di leggi e regolamenti credendo davvero che si tratti di colossali, e talvolta ingiuste, riforme mentre in realtà non sono altro che nuove edizioni di vecchie regole. Solo che queste vecchie regole non sono mai state rispettate e dunque invece di farle rispettare il legislatore ciarlatano e impreparato (dilettante allo sbaraglio senza Corrado ma anche senza Flavio Insinna e senza il maestro Pregadio) si vende l’acqua calda come fresca di sorgente. Il paradosso è che alla fine nessuno sa, o molti dimenticano, che l’acqua è calda e così si discute di grandi riforme ignorando che si tratta di risciacquature di piatti (ma anche qui niente di nuovo: Eduardo De Filippo scriveva nel 1947 “Le bugie con le gambe lunghe”, ispirandosi alle costruzioni pirandelliane di bugie grottesche che diventano, però, fondamento della realtà).
Torniamo a bomba e proviamo a capire meglio: l’emendamento al comma 29 che ha suscitato la tempesta (in un bicchiere d’acqua) e alla fine è stato ritirato, si aggancia all’articolo 8 della legge sulla stampa (la numero 47 del 1948) e – tolte alcune precisazioni che equiparano qualunque mezzo di informazione, anche telematico, al giornale – si limita ad aggiungere due parole al quarto comma. Le parole sono: “senza commento”. A queste due parole, in sostanza, si riduce la riforma.
Eccoci al primo punto: la norma “ammazza blog”, la norma che priverebbe l’Italia della libertà d’informazione e di pensiero, è in sostanza la stessa norma in vigore dal 1948. Ora, non c’è dubbio che in Italia, negli ultimi – diciamo – 15 anni, la libertà d’informazione si sia progressivamente ridotta. Ma più che la conseguenza di un’imposizione o di un bavaglio ciò è stata la conseguenza di un suicidio. I giornalisti, anche loro per convenienza e non per convinzione, hanno rinunciato ad esercitare il loro diritto di informare liberamente. E certo non per colpa dell’obbligo di rettifica. Dal 1948 ad oggi, cioè da quando vige l’obbligo di rettifica, la stampa italiana ha dato numerose e importanti prove di libertà e di determinazione.
Vediamo allora nel dettaglio l’articolo 8 di questa legge che ancora oggi, mai modificata, regola tutto ciò che ha a che fare con la stampa (e questo è il problema, perché in questa legge, naturalmente, non si parla di web e nemmeno di radio e televisione… poi vedremo perché questo dettaglio è importante)
Legge n. 47/1948 – legge sulla stampa – articolo 8 – (Risposte e rettifiche)
1) Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.
2) Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche di cui al comma precedente sono pubblicate, non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono.
3) Per i periodici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce.
4) Le rettifiche o dichiarazioni devono fare riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate.
5) Qualora, trascorso il termine di cui al secondo e terzo comma, la rettifica o dichiarazione non sia stata pubblicata o lo sia stata in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo e quarto comma, l’autore della richiesta di rettifica, se non intende procedere a norma del decimo comma dell’articolo 21, può chiedere al pretore, ai sensi dell’articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione.
6) La mancata o incompleta ottemperanza all’obbligo di cui al presente articolo è punita con la sanzione amministrativa da lire 15.000.000 a lire 25.000.000.
7) La sentenza di condanna deve essere pubblicata per estratto nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia. Essa, ove ne sia il caso, ordina che la pubblicazione omessa sia effettuata.
Cari amici di Wikipedia, cari navigatori autori di blog e siti on line, a Napoli c’è un antico detto per indicare qualcuno che si trova in una situazione che supera le sue capacità di gestione: ‘a pazziella ‘n mano ‘e ccriature. Letteralmente vuol dire: il giocattolo in mano ai bambini. Ma se questa fosse la traduzione giusta non significherebbe niente: che c’è di strano? La verità è che in napoletano antico il termine “pazziella” è sinonimo giocoso e metaforico per indicare l’organo genitale femminile. Che, in effetti, affidato ai bambini… Una variante più “casta” del detto è: ‘a carta ‘e musica ‘n mano ‘o cecato (lo spartito musicale affidato al cieco per la lettura).
E allora: bisogna pensare al testo dell’articolo 8 come lo leggiamo pochi righi più sopra con un’aggiunta al punto 4, alla fine, dopo la parola “contestate”: “… con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate, senza commento”.
E’ qui il punto: se associamo questo “senza commento” con le parole che sono all’inizio del punto 1 (“…da essi ritenuti lesivi della loro dignità…”), il risultato è che chiunque si senta “leso nella sua dignità” (attenzione: per ledere la dignità non è detto che i fatti raccontati siano falsi, anche i fatti veri sono lesivi della dignità, e la legge chiarisce che in questo caso però non c’è diffamazione perché è vero che la reputazione è stata offesa ma il diritto di cronaca, che vale rispetto ai fatti veri, costituisce una “esimente”, ossia una causa di non punibilità) può pretendere di pubblicare una rettifica e per giunta il giornalista, l’autore del blog, del sito, o chiunque sia, non può commentare con una frase del tipo ma guarda questo che faccia tosta… ribadiamo che è tutto vero perché abbiamo le prove.
Ed ecco qual è il problema: se il fatto è vero, e chi scrive – non importa che sia Wikipedia, il blog di Frate Indovino o il Washington Post – ne ha le prove, non potendo replicare, ed essendo obbligato a pubblicare la rettifica, ha la sola facoltà di rifiutare la pubblicazione, aspettare che l’interessato faccia una richiesta al giudice di costringere il sito a pubblicare la rettifica e in quella sede dimostrare che siccome è tutto vero lui non può essere obbligato a pubblicare una rettifica falsa per rettificare qualcosa che invece è vero. Oppure, in alternativa, aspettare che l’interessato presenti una querela per diffamazione e andare a dimostrare, al processo, chi ha torto e chi ha ragione.
Non ci nascondiamo che questa ipotesi, pur facendo trionfare alla fine la verità – come in tutte le favole – costa tempo, denaro e dunque la difficoltà nell’esercizio di un diritto (quello di chi scrive di dimostrare che ha ragione) si traduce, in concreto, nell’esercizio di un abuso da parte di chi ha torto.
Insomma, sono queste due parole, da sole, ad avere un peso intimidatorio. Non a caso, in Italia, è da decenni invalsa l’abitudine di querelare i giornalisti, gli scrittori, chiunque dica cose scomode, non già perché abbiano scritto o detto cosa false, ma a scopo intimidatorio. E’ un tentativo di estorsione a mezzo giudice (sia chiaro: dove il giudice è strumento inconsapevole – quasi sempre): un tentativo di estorcere la patente di brava persona, ossia una sentenza che cancelli i peccati che invece si sono commessi. Ma sentenze del genere, se esistono, per chi ci crede, può emanarle solo un signore che, negli ultimi tempi, ha prestato casa sua per fare pubblicità al caffè Lavazza.
A questo punto è chiara una cosa: un po’ come i tre porcellini che cantavano “chi ha paura del Lupo Cattivo”, chi ha paura della rettifica? Soltanto chi pubblica, o ha pubblicato, notizie false o, se vere, non dimostrabili, cioè senza prove.
Che c’entra Wikipedia? Le regole della grande, e pregevole – quasi sempre – enciclopedia on line prevedono che tutte le citazioni, le critiche, le opinioni, debbano essere fondate su documenti, debbano riportare dichiarazioni espresse da personaggi autorevoli e non smentite in precedenza o, al limite, indicare che la dichiarazione “x” è stata però smentita. Insomma, guarda caso ci sono delle regole. Wikipedia si è data delle regole per garantire la libertà! Ma guarda un po’… allora le regole servono a questo? Chissà che ne pensano Voltaire, Montesquieu, Hobbs, Locke, Hume (non vi spaventate, sono ragazzi che frequentano la nostra comitiva il sabato sera…).
E’ qui che subentra un ulteriore elemento che a sua volta ha causato l’indignazione del popolo del web: l’equiparazione tra siti, blog e cazzeggi telematici ai giornali, alle testate giornalistiche registrate (sia on line che su carta).
E infatti l’emendamento, poi in questa parte avviato verso la modifica, prevedeva che anche i blog amatoriali avessero solo 48 ore di tempo per pubblicare la rettifica. Ignorando (ma i nostri legislatori recenti sono molto ignoranti, un po’ come le Fate di Ozpetek, e anche se, per questa affermazione, mi chiedessero la rettifica perché ho leso la loro dignità io non la pubblico…) che i blog amatoriali non hanno una redazione a tempo pieno e dunque non hanno materialmente, spesso, la possibilità di intervenire sugli scritti in un arco di tempo così ristretto.
Era su questo, e solo su questo, che Wikipedia – e gli altri amatori – avrebbero potuto protestare. Ma in ogni caso la questione, almeno per ora, non si pone più. Wikipedia è libera di pubblicare sciocchezze (ammesso che ciò accada, e noi non lo crediamo) e chi volesse rettificare dovrà sempre passare per il Garante.
Il rapporto diretto tra chi richiede la rettifica e chi la deve pubblicare resta in piedi solo per le testate giornalistiche registrate, on line o su carta non fa differenza.
E allora possiamo tirare una prima conclusione:
1) le norme in discussione, se fossero approvate, porterebbero (finalmente) ad una equiparazione piena tra giornali su carta e giornali on line;
2) così come i giornali su carta (e i giornali televisivi e radiofonici che sono già stati equiparati a quelli su carta con alcune leggi che si sono succedute tra il 1996 e il 2000) sono da sessantatré anni obbligati a pubblicare le rettifiche a richiesta dell’interessato, lo saranno anche i giornali on line (che già lo facevano perché trattandosi di prodotti confezionati da giornalisti, per costoro valgono in ogni caso i principi deontologici della Carta di Treviso che, per l’appunto, obbligano a rettificare a richiesta);
3) la vera novità sta nel fatto che mentre prima non era espressamente autorizzata una replica del giornalista alla rettifica pubblicata, ora invece questa replica diventa espressamente vietata.
Per quanto riguarda invece la concreta pubblicazione della rettifica, non cambia nulla. Tutto resta come negli ultimi sessant’anni: in molti casi viene pubblicata, in altri casi no, sia quando viene pubblicata sia quando viene ignorata chi l’ha chiesta può poi presentare una querela per diffamazione per quanto è stato scritto e un processo accerterà se il contenuto dell’informazione è diffamatorio e se è vero o falso. Attenzione: se è vero, e se c’è un interesse pubblico a conoscere quella verità, anche se fosse diffamatoria, cioè danneggiasse la reputazione di qualcuno, il giornalista non può essere condannato. Questo dice la legge. Questa è la garanzia. La rettifica non c’entra un bel niente.
La verità però è che ai giornalisti per caso, ossia a coloro che fanno di fatto informazione ma non vogliono sottostare ad alcuna delle regole previste per l’informazione credendo così di essere liberi, non va giù più in generale l’equiparazione con i giornali. Ma come? Dicono. Proprio noi che siamo i rivoluzionari, siamo quelli che hanno in mano le sorti della libertà dell’uomo, che non ci facciamo condizionare dalla politica, che non siamo pappa e ciccia con il potere come invece lo sono i giornalisti professionisti… proprio a noi ci venite a dire che dobbiamo avere le stesse regole di quei signori di cui non ci fidiamo, che sono una casta di privilegiati… e così via per finire con le solite osservazioni intelligenti del tipo la verità è che sono tutti ladri, non si capisce più niente, non ci si può fidare di nessuno, non cambierà mai niente perché quelli se la cantano e se la suonano. E magari aggiungendo che si stava meglio quando si stava peggio e che almeno quando c’era lui i treni arrivavano in orario.
Ciò che sfugge, ancora una volta, al popolo dei blog è che se è vero che essere equiparati ai giornalisti comporta il rispetto di qualche regola, in un sistema giuridico complesso come il nostro, ad ogni regola corrisponde una garanzia. In questo caso la garanzia è che l’informazione giornalistica non può mai, mai, in nessun caso, essere oscurata, zittita, sequestrata. O spenta. Come invece può accadere ai blog e come è già accaduto in Italia in questi anni.
Proprio Golem l’ha raccontato, nei dettagli, alcuni mesi fa: il blog di uno storico siciliano è stato oscurato perché ricostruiva, documenti alla mano, vicende storiche che hanno dato fastidio ad alcuni potenti. I quali, invece di chiedere rettifiche e querelare, come avrebbero potuto fare se si fosse trattato di una testata giornalistica, si sono rivolti al giudice dicendo: caro giudice, questo dice di essere un blog ma in realtà fa informazione, come un giornale, ma non è registrato. Cioè non rispetta le leggi sulla stampa. Dunque è stampa clandestina, e quindi deve essere oscurato. Zittito. Cancellato. Detto fatto: sebbene a malincuore, il giudice, sia in primo grado che in appello ha dato ragione ai potenti.
Non sarebbe successo se lo storico avesse registrato il suo blog come una testata giornalistica. Non succederebbe se una norma equiparasse i blog alle testate giornalistiche.
Quando il blog dello storico siciliano è stato chiuso, lo stesso popolo del web ha sollevato alti lai e proteste a valanga. E allora facciamo pace con l’intelligenza: se la strada per non essere zittiti è essere equiparati ai giornalisti, che senso ha protestare quando qualcuno propone di fare questo?
Un’ultima osservazione: è chiaro che chi aveva proposto questa equiparazione, certo non lo aveva fatto perché ha a cuore la libertà d’informazione. Anzi: ma siccome è un ignorante, credeva di fare i propri interessi mentre in realtà avrebbe fatto quelli dell’avversario.
E dunque la seconda conclusione è che credendo di difendere la libertà d’informazione abbiamo fatto un favore a un cretino.