A Taranto è stato rinviato a giudizio un ragazzo di 20 anni che nel 2009, quando aveva 18 anni, è stato accusato da un venditore ambulante di avergli rubato un ovetto di cioccolata.
Lasciamo stare le due versioni del fatto: il ragazzo dice di averlo solo preso per pagarlo, mentre l’ambulante sostiene che se l’era messo in tasca (ipotesi poco probabile, sottolinea la difesa, dal momento che indossava i jeans e un ovetto nella tasca sarebbe diventato una… frittata, sebbene di cioccolato). Sia come sia, dal gesto ne è nato anche un litigio. Morale: rinvio a giudizio per furto e ingiurie.
Opinionisti, commentatori e semplici scrivani si sono spesi in commenti ironici, giustamente, ma hanno invece clamorosamente sbagliato il bersaglio delle critiche. “Ecco cosa è la giustizia”, è stato detto. Perde tempo con le sciocchezze e magari perseguita un povero presidente del Consiglio che invita a cena qualche amica invece di pensare alle cose serie.
Come spesso accade in materia di giustizia, i commentatori sono ignoranti (ignorano i termini della questione). La colpa, in questo caso e in molti altri simili, non è quasi mai (attenzione: quasi) dei magistrati.
In questo caso la colpa è del legislatore e, in particolare, dei due governi presieduti da Massimo D’Alema.
E che c’entra D’Alema? Direte voi. C’entra, c’entra.
Mettiamo le cose in chiaro: il nostro sistema giuridico è caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale. A differenza di quanto sostengono anche molti magistrati, questo non vuol dire che è sempre obbligatorio arrivare ad un processo anche quando non c’è niente di concreto. Vuol dire che lo spazio per evitare un processo nonostante il fatto di cui si tratta sia talvolta semplicemente grottesco, è molto ridotto.
E non c’entra niente il paragone tra il sistema anglosassone e quello italiano, come pure qualcuno ha fatto, affermando che loro pensano alla sostanza e noi ci perdiamo dietro alle sciocchezze.
Qui non si tratta di formalismo e sostanzialismo. Anzi, il processo al giovane tarantino è frutto proprio del nostro diritto sostanziale.
Nonostante già l’antico diritto romano prevedesse che il giudice non dovesse essere chiamato a occuparsi di sciocchezze (de minimis non curat praetor, dicevano i latini: delle quisquilie non si cura il giudice), nel nostro codice penale anche il reato di minima gravità deve essere perseguito. Questo è stato scritto nel 1936, nel codice penale, è così è rimasto scritto nonostante le centinaia di riforme che soprattutto nelle stagioni dei pregiudicati al governo si minacciano o si realizzano.
Soltanto nel 1988, quando venne sistemato il diritto penale per i minorenni, in nome dell’esigenza di garantire loro un trattamento che tenesse conto della necessità ancora più forte che per gli adulti di rieducarli e rimetterli… sulla buona strada, nel nostro sistema giuridico ha fatto capolino il concetto di “irrilevanza penale del fatto”. I giuristi hanno riempito migliaia di pagine con questo concetto. Il fatto irrilevante, è stato detto, è quello che pur violando una norma penale, è considerato di minima gravità. E’ praticamente inoffensivo, non produce conseguenze effettive e, per giunta, non viene percepito dalla collettività come condannabile. Ad esempio: il professore che dimentica di fare l’appello in classe e poi, soltanto dopo, quando ormai è finita l’ora, si informa su chi fosse presente e chi assente e annota tutto sul registro di classe, tecnicamente commette un reato: falso in atto pubblico. Perché il registro di classe è atto pubblico e la norma prevede che venga riempito al momento dell’ingresso in classe, e non fuori, dopo, per sentito dire. Ma questo fatto, questo reato, è irrilevante. Dunque, possiamo, potremmo – potrebbero, i giudici – non tenerne conto. Potrebbero archiviare tutto e chi si è visto si è visto.
Tanto per cominciare però la cosa non è scontata: il principio di irrilevanza penale del fatto è contenuto nelle norme che riguardano i minori. E un professore non è un minore (nel caso dei minorenni la legge dice che si procede al “perdono giudiziale” quando una eventuale condanna, per una vicenda occasionale e di scarsissima importanza, avrebbe effetti negativi sull’educazione del minore maggiori rispetto ai vantaggi, morali, di una punizione).
Tuttavia anche per i… maggiorenni, nel 2000, un decreto legislativo (il numero 274), quello che regolamenta le competenze penali del giudice di pace, con l’articolo 34 ha introdotto, limitatamente al processo davanti al giudice di pace penale, l’irrilevanza penale del fatto. L’articolo 34 si chiama “Esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto”. “Il fatto è di particolare tenuità – si legge – quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”. In pratica: pensiamo alle cose serie.
Nel caso del furto dell’ovetto però le cose si complicano. Anzitutto perché un furto del genere non è di quelli che vanno davanti al giudice di pace (e in ogni caso, anche se così fosse, il giovane sarebbe comunque andato a giudizio, salvo ad essere prosciolto poi per la causa di esclusione di procedibilità). Si tratta infatti di un furto aggravato (l’aggravante sta nel fatto che, come si dice in gergo tecnico, la cosa rubata era “esposta alla pubblica fede”, ossia stava lì in bella mostra e ci si fidava del fatto che la gente non la rubasse), per il quale è competente il giudice monocratico del tribunale e non il giudice di pace (al quale invece spetta giudicare il furto commesso “per estremo bisogno”, ad esempio un mendicante che rubi un pezzo di pane). Per giunta, quando si tratta di reati di competenza del giudice monocratico, cioè di un giudice singolo di tribunale e non di un collegio composto da tre magistrati, il rinvio a giudizio è diretto, vuol dire che non passa per l’udienza preliminare. Cioè non passa per un altro giudice che avrebbe potuto bilanciare le cose e arrivare ad una decisione senza aspettare il dibattimento.
Inoltre anche se si volesse estendere a casi come questo il principio di non punibilità per l’irrilevanza penale, va detto che si tratta di un principio che per essere applicato deve contare sul consenso della persona offesa. In sostanza, il commerciante avrebbe dovuto essere d’accordo. A Taranto invece il venditore ambulante ha addirittura rifiutato una transazione di oltre 1500 euro: vuole a tutti i costi che il giovane venga processato.
E guai se un magistrato, di sua iniziativa, potesse ignorare i diritti della persona offesa e archiviare tutto. Si griderebbe allo scandalo.
Dunque, in conclusione, di chi è la colpa? Di D’Alema. E già, perché il primo governo D’Alema, nel 1998, incaricò il professore Carlo Federico Grosso di portare a termine i lavori di una commissione per la riforma del codice penale. Tra gli altri punti della riforma c’era proprio la regolamentazione, chiara, dell’irrilevanza penale del fatto.
Quella commissione, che pure è costata fatica e soprattutto denaro, ha completato il lavoro, ha presentato una relazione stupenda che è rimasta in un cassetto dal luglio 1999 ad oggi. Nonostante anche il governo successivo sia stato affidato sempre alla stessa parte politica e allo stesso Baffino.
Di che ci lamentiamo ora?
Il processo si farà, si dovrà fare. Il ragazzo punterà all’assoluzione – e non alla dichiarazione di irrilevanza penale, che è cosa diversa perché vuol dire che il fatto è stato commesso ma non è grave, mentre egli vuole sentirsi assolvere per non aver commesso il fatto, cosa ben diversa – mentre il commerciante si costituirà parte civile.
Alla fine il giudice, se dovesse riconoscere colpevole il giovane, applicherà le attenuanti speciali della particolare tenuità (previste dal nostro codice) ed emetterà una sentenza di condanna simbolica disponendo che non venga nemmeno riportata nel casellario giudiziario.
Per la serie: abbiamo scherzato. Tutti a casa e statevi bene.
Il punto, allora, è che non bastano buone leggi per fare un popolo intelligente. Ci vuole un popolo intelligente che, se proprio ne ha bisogno, può fare buone leggi.