“Non è impossibile per i politici ridurre gli spaventosi livelli di disoccupazione nell’Occidente”: questo il sottotitolo di un articolo, “The quest for jobs”, apparso sull’Economist il 10 settembre scorso. Secondo l’autorevole rivista, non tutti i Paesi hanno affrontato con la stessa serietà degli Stati Uniti e della Germania gli effetti della recessione sul tenore di vita dei propri concittadini.
“Miopia” politica a parte, si ribadisce la cronicità – endogena – del fenomeno della disoccupazione, legata all’evoluzione stessa del concetto di lavoro: il progresso tecnologico e la globalizzazione (non a caso i Paesi emergenti sono stati poco interessati dalla congiuntura negativa dei mercati occidentali) hanno modificato il mercato interno del lavoro, spingendolo verso nuovi modelli di flessibilità, che i governi non sempre sono riusciti a coniugare con la richiesta di sicurezza da parte dei lavoratori.
I mini-jobs e i provvedimenti Hartz.
Proprio i contratti flessibili, secondo gli economisti del Centre for Economic Policy Research, hanno garantito la tenuta dei livelli occupazionali in Germania. I dati disponibili registrano tassi di disoccupazione persino più bassi di quelli pre-crisi: mentre tutto il periodo 2003-2007 è stato caratterizzato da oscillazioni tra il 9 e 11%, dal 2009 la percentuale è ferma al 7%. Tutto merito, sembrerebbe, del pacchetto leggi Hartz, varato nel 2003, con cui furono introdotti i mini-jobs, impieghi part-time da massimo 400 euro mensili. Secondo il Cepr, buona parte del mancato declino dell’occupazione può essere spiegato con l’adozione di questa contabilizzazione delle ore-lavoro. L’utilizzo di “window of time”, cioè l’inquadramento dei contratti entro quantitativi flessibili di ore, ha permesso di svincolarsi dagli straordinari e quindi, in ultima analisi, disincentivato al licenziamento. Vanno però considerate le peculiarità del panorama tedesco: durante la precedente espansione (tra il 2005 e il 2008 il Pil ha mantenuto un aumento annuo del 2%), c’è stata grande resistenza, da parte delle imprese, ad assumere nuovi dipendenti.
Un’Europa senza locomotiva.
In ogni caso, gli one-euro-jobs non hanno impedito il rallentamento dell’economia: tra il 2009 e il 2011 il Pil ha avuto un ribasso tale, da far dire a Ashok Mody, capo della divisione Europa del Fondo Monetario Internazionale che “ la Germania non può essere più considerata una locomotiva economica per l’Europa”. Come emerge dagli ultimi documenti pubblicati, infatti, il Fmi ritiene che, se non verranno attuate riforme strutturali che permettano ai tedeschi di superare la dipendenza dall’export, il Paese rischierebbe un tasso di crescita a medio termine molto basso, tra l’1 e l’1,25%.
Intanto, proseguono in Germania le polemiche sul welfare, tanto lodato dall’Economist. All’inizio del 2005 il sistema dei sussidi di disoccupazione viene riorganizzato sotto un’unica disposizione, l’Hartz IV. In base a questa, ai disoccupati di lungo periodo, lo Stato assicura l’assistenza sanitaria e una “abitazione dignitosa” (un appartamento di 40-50 mq per i single, fino ai 90 mq per le famiglie), nonché un assegno mensile, corrisposto fino ad un massimo di 18 mesi (24 se si è over-58), che ogni anno viene incrementato del 1,8%, in modo da rimanere in linea con l’innalzamento dei prezzi e dei salari. Quest’anno l’esecutivo ha immesso un surplus dello 0,99% (cioè un rincaro complessivo del 2,74%). Dal primo gennaio 2012, quindi, la tariffa base del sussidio sarà di 374 euro. A conti fatti quel +0,99% costerà ai contribuenti 570 milioni di euro.
Obama punta sui lavori pubblici.
Negli Stati Uniti, il Presidente Barack Obama si rifà invece alla politica del pieno impiego. In un suo recente discorso, ha annunciato che a breve chiederà al Congresso il via libera per l’impiego di 300 miliardi di dollari, da investire in un piano che crei nuova occupazione, tramite il finanziamento di opere pubbliche e tramite rimborsi fiscali per chi assume nuovi dipendenti. Come osserva il New York Times, se i repubblicani voteranno contro anche questo piano, Obama avrà un ottimo argomento in campagna elettorale per accusare la destra di aver fatto ostruzionismo inutile durante il suo mandato. Inoltre è prevista una proroga del termine dell’assegno di disoccupazione, portato a 99 settimane, che dovrebbe “compensare” i preannunciati tagli ai programmi d’assistenza sanitaria, Medicare e Medicate.
Europa e Usa. Non è solo una questione di Pil.
In Europa, dunque, mentre il Pil ha subito un crollo più netto rispetto a quello americano, l’occupazione sembrerebbe aver retto: secondo Eurostat, il tasso medio di disoccupazione della zona euro è stabile sul 10% della popolazione attiva da circa un anno a questa parte, mentre ha raggiunto ormai il 30% negli Usa. I due mercati del lavoro sono però molto diversi: il primo ha finora sempre privilegiato la conservazione del capitale umano rispetto alla flessibilità allocativa del mercato stesso, garantita nel secondo anche da una tradizione storica di maggiore responsabilizzazione individuale nell’affrontare la copertura di rischi a rilevanza sociale. Né tutti i settori soffrono allo stesso modo: c’è chi non ha subito particolarmente la crisi, come i dipendenti pubblici, e chi invece ne è stato travolto. Il settore industriale, specie quello automobilistico ed edilizio, ha visto frenare bruscamente la propria crescita dopo il crollo delle esportazioni e la stretta creditizia da parte delle banche. Solo tra il 2009 e il 2010, sono stati persi 130.000 posti di lavoro (Eurostat). L’occupazione negli altri settori invece regge proprio grazie alla segmentazione del mercato del lavoro, che vede da una parte i dipendenti a tempo indeterminato e dall’altra una percentuale in costante aumento di lavoratori precari, assunti con contratti atipici, spesso dei veri e propri subordinati camuffati da collaboratori senza alcuna tutela.
Disoccupazione giovanile al 17,4%
Salari più flessibili, occupazione meno protetta e inflazione molto bassa, dunque, hanno indubbiamente contribuito a evitare il crollo completo delle economie occidentali; ma, contemporaneamente, hanno generato un ribasso delle aspettative per il tenore di vita tale, che adesso l’Ocse lancia l’allarme rispetto al rilancio economico. Nei primi tre mesi del 2011, il tasso di disoccupazione giovanile (15/24 anni) ha raggiunto, nell’area Ocse, il 17,4%: il rischio di emarginazione dal mercato del lavoro si fa sempre più concreto. Secondo il rapporto, un accesso paritario all’istruzione, una disciplina univoca che regoli i contratti di lavoro e tuteli in particolar modo i giovani e i settori più esposti alla competizione globale, potrebbero essere un primo passo funzionale per ottenere un ritorno di fiducia della popolazione nel sistema economico, fondamentale per la ripresa. Secondo una recente inchiesta dell’Istat, l’indice del clima di fiducia dei consumatori italiani è sceso a settembre, dal 100,3 registrato in agosto, a 98,5: “peggiorano – riporta il comunicato stampa dell’Istituto – le valutazioni, presenti e prospettiche, sulla situazione economica del Paese e della famiglia, nonché i giudizi sul bilancio familiare e sull’opportunità attuale del risparmio”. Nella “manovra di ferragosto”, il governo aveva provato a mettere un freno all’uso improprio dello stage o “tirocinio formativo”, decretando che il suo svolgimento può essere effettuato massimo a un anno dal conseguimento del titolo di studio e per un massimo di 6 mesi. Una disposizione imprecisa e sconfinante nella giurisdizione delle Regioni, che non ha accontentato nessuno, né le scuole di specializzazione né chi ha già vinto uno stage e resta in attesa di un’ulteriore circolare del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Dal 1995 al 2007 in Italia l’assunzione a tempo determinato ha registrato una forte impennata, mentre la produttività vista nei suoi singoli elementi è crollata al 3,7% (nel resto d’Europa il tasso, anche se sceso rispetto agli anni 1974-1994, è rimasto sul 7%). Insomma, a parità di lavoratori produciamo di meno, e questi lavoratori sono pure meno protetti. Sulla scala di protezione dei lavoratori stilata dall’Ocse, che va da 1 a 6, l’Italia si attesta sul 3,5, al di sotto della media europea.
In realtà, finora, le analisi non sono riuscite a evidenziare un vero e proprio “wage gap” a discapito nei lavoratori temporanei. Non si è riusciti a determinare con certezza, per lo più per un effetto di correlazione spuria tra caratteristiche individuali e livelli retributivi, situazioni in cui, a parità di caratteristiche individuali con i colleghi a tempo indeterminato, il reddito annuo da lavoro dei temporanei sia minore di quello di quest’ultimi. In ogni caso, l’analisi empirica avalla l’impressione che i temporanei non ricevano una retribuzione oraria superiore, calcolata in base al rischio di mancato rinnovo del contratto. I temporanei conseguono un reddito medio decisamente inferiore a chi è assunto a tempo indeterminato a causa del minor livello delle retribuzioni unitarie e della maggior frequenza di periodi di disoccupazione.
In media, gli impieghi a tempo determinato privano di veri sbocchi professionali e anche il rapporto Ocse mette in luce come un lavoratore su quattro sia sovraqualificato per l’impiego svolto, fatte salve le dovute eccezioni. In Svezia, Finlandia, Irlanda e Regno Unito 1/4 dei lavoratori part time svolge mansioni altamente qualificate, ben retribuite. Il Regno Unito, tra l’altro, mostra una delle percentuali più basse di dipendenti a tempo determinato, il 4,5%; ma la realtà anglosassone si presenta molto complessa visto che parallelamente registra un alto tasso di emarginazione giovanile dall’istruzione (e quindi dal mondo del lavoro).
Portogallo, Spagna e Grecia: tre gravi precedenti.
La ripresa non sarà facile. Questa recessione, frutto degli squilibri creati da anni di politiche monetarie permissive e da mancanza di regolamentazione sui mercati finanziari, ha implicato massicci interventi pubblici per salvare le banche, mantenere la liquidità sui mercati, compensare la caduta della domanda privata, senza tener conto del maggior onere pensionistico, sanitario e assistenziale per i Paesi a più alto tasso d’invecchiamento. Il peso di questo disavanzo pubblico si rifletterà negativamente sul Pil di lungo periodo. Il ricorso all’impiego temporaneo per ridurre il costo del lavoro rischia, alla lunga, di ritardare gli investimenti in innovazione e competenze, se si continua a classificarlo (e pagarlo) come “non qualificato”. Gran parte del mondo accademico, come l’articolo di The Economist, richiama alle proprie responsabilità i governi. Non basta una politica assistenziale del welfare per garantire la spinta interna dei consumi. Il capitale umano dei paesi occidentali deve crescere in esperienza e istruzione, cosa possibile solo attraverso serie riforme del sistema scolastico – come nell’urgente caso italiano – e del mercato del lavoro. Indubbiamente, la domanda di lavoro richiede competenza senza assicurare per contro stabilità, per questioni strutturali, quali la concorrenza dei Paesi emergenti sul doppio piano della professionalità e della “manovalanza”, la ristrutturazione dei processi produttivi causati dall’innovazione tecnologica e anche dalle crisi stesse. Le situazioni di stagnazione economica hanno sempre provocato una ammodernamento organizzativo ( ricordiamo le fasi di disoccupazione seguite ai due shock petroliferi degli anni 70, 80). L’obiettivo della flexicurity, come il mondo accademico ha definito un mercato del lavoro flessibile ma compatibile con le richieste di sicurezza dei lavoratori, non è appunto “impossibile”; ma occorre perseguirlo con fermezza. Perchè?
Nel 2006, secondo l’indagine Eu-Silc, il 14,8% dei dipendenti italiani aveva un contratto a tempo determinato. In Portogallo, Spagna e Grecia il 28,4%. Nel 2008, il rapporto dell’Ocse sull’istruzione rivelava che sempre in Italia, Portogallo e Spagna il livello di istruzione era più basso della media europea (anche rispetto al numero di nuovi laureati). Tutte nazioni dove la crisi ha colpito duramente. Un caso?