Alle prese con carenza di cibo e acqua il Kenya sembra a un passo dallo scoppio di tumulti popolari. Il governo tenta di placare le proteste e punta sugli investimenti esteri, ma gli operatori turistici italiani e le multinazionali agroalimentari statunitensi non sono ben visti.  Turismo e investimenti italiani

L’ultima protesta, quella del 18 luglio scorso, ha visto oltre 120 operatori balneari di Watamu manifestare contro la demolizione delle loro strutture da parte di investitori stranieri, italiani per la precisione. Gli operatori di Jacaranda Beach, guidati dai leader Salim Tunje e Seba Bahati, hanno marciato lungo le spiagge ritenendo che gli imprenditori italiani abbiano ordinato la demolizione di 27 stabilimenti locali. Nonostante questi lidi temporanei fossero stati Jacarandacostruiti, come da indicazioni dei nuovi proprietari, alla distanza specificata di 30 metri dal mare. Un danno ingente procurato proprio all’inizio della stagione estiva, per il quale Salim Tunje chiede l’intervento del Ministro del Turismo Najib Balala, del Ministro della Pesca Amason Kingi e del Ministro dell’Ambiente John Michuki. Come dichiarato al Nigerian Daily, «questa è un’area marina protetta e non dovrebbe essere sviluppata in modo permanente, ma gli investitori italiani ora vogliono recintare e bloccare completamente il nostro lavoro. Noi non accettiamo queste condizioni, le autorità interessate devono intervenire prima che la questione sfugga a tutti di mano». In sostanza i kenyoti accusano l’amministrazione di favorire gli operatori stranieri peggiorando le loro condizioni già precarie causate dalla delicata situazione economica che sta attraversando il Paese.

Gli effetti della crisi innalzano la tensione ma pure gli interscambi tra Kenya e Italia. Secondo i dati diffusi dal dipartimento economico e commerciale dell’ambasciata italiana a Nairobi, tra il 2007 ed il 2010 le esportazioni italiane verso il Kenya sono cresciute del 200 per cento. Lo scorso 27 luglio l’authority governativa Kenya Invest ha ufficilamente annunciato di aver nominato quale proprio delegato responsabile in Italia l’avvocato di Reggio Calabria Antonio Circosta. A Nairobi Finmeccanica ha inaugurato sedi aziendali e firmato un contratto per l’installazione e la fornitura di sistemi radar per controllare il traffico aereo del Paese. Il piano kenyota di sviluppo delle infrastrutture fa gola agli investitori internazionali, anche per la quantità di industrie di trasformazione delle materie prime disponibili. Sempre più gruppi occidentali puntano sullo sviluppo urbanistico e stradale, sull’affermazione a macchia d’olio delle telecomunicazioni mobili e sullo sfruttamento delle risorse minerarie. Giro di affari che si allarga anche a settori differenti: energia e fonti rinnovabili, commercializzazione di carni bovine, trasporti, consulenze e progettazioni. ItalAfrica Centrale e Camera di Commercio – Unioncamere nel dicembre 2010 hanno annunciato un programma di internazionalizzazione delle attività di 13 imprese italiane nei Paesi della fascia sub sahariana (Kenya, Congo e Repubblica Centrafricana), con tanto di studi legali al seguito. In un’intervista al Sole24Ore, Eugenio Bettella, managing partner della sede di Padova dello studio tedesco Roedl, ha spiegato: «Le scarse informazioni fino a oggi disponibili sull’Africa, hanno nascosto ai più le opportunità che questo immenso mercato offre». Opportunità colte al volo nel settore del turismo: i safari nella Rift Valley sono uno degli investimenti più redditizi per le imprese, italiane e non solo. Tra le tappe di Lakes Elementaita, Naivasha, Nakuru, Baringo, Bogoria e Turkana le carovane occidentali assicurano comfort e svago, soprattutto nelle zone costiere e nei parchi natuali (dal Masai Mara al Mount Kenya, dall’Amboseli al Samburu). A Malindi Flavio Briatore da tempo cerca di esportare il suo stile di vita attraverso il “Lion in the Sun”, un locale per feste vip trasformando un parco marino in resort di lusso. Biglietto d’ingresso 1500 scellini, non propriamente all-inclusive.

Jamhuri ya Kenya

kenya_01Dalla costa alla campagna. Culla della cultura swahili, nata dall’incrocio tra la tradizione araba del XII secolo e quella dei gruppi indigeni locali (i Khoisan prima, i Cusciti poi), la giovane repubblica africana è sempre stata dedita all’agricoltura. I kikuyu, etnia del gruppo bantu più potente per numero e attività economica svolta, hanno coltivato nel corso del tempo mais, sorgo e miglio, divenuti i cereali essenziali per la sussistenza ed il fabbisogno interno. Insieme al turismo, l’agricoltura domina l’economia nazionale. Nonostante il colonialismo (di portoghesi, sultani omaniti di Zanzibar e inglesi), l’indipendenza è stata raggiunta soltanto il 12 dicembre del 1963, con l’elezione di Jomo Kenyatta a presidente. La politica di Kenyatta, aperta all’Occidente e frutto di una calcolata moderazione, favorì la modernizzazione e l’avviamento di una politica industriale. Neanche la lunghissima presidenza del suo successore Daniel Arap Moi (dal 22 agosto 1978 al 30 dicembre 2002), precursore di un monopartitismo dispotico e autoritario, riuscì ad affrancare il comparto industriale del paese dal settore agro-alimentare. Una situazione che si è aggravata negli ultimi quattro anni, dopo che la rielezione del nuovo presidente Mwai Kibaki (eletto per la prima volta nel 2002) ha portato nel 2008 ad un’esplosione di violenza etnica tra la fazione di Kibaki e quella del rivale Raila Odinga. Una guerra civile scongiurata dall’intervento delle Nazioni Unite, nella persona del mediatore Kofi Annan. La vigilanza occidentale necessaria e interessata ha condotto i due contendenti a governare insieme in una grande coalizione, con Odinga nell’inedita carica di primo ministro e una nuova carta costituzionale ratificata il 4 agosto 2010 che dovrebbe garantire stabilità politica e commissioni di vigilanza sull’attività parlamentare.

Le avvisaglie. Una questione di poshi scellini

I primi segni tangibili risalgono allo scorso di aprile quando il prezzo del mais ha subito un aumento in apparenza irrisorio: da 55 a 60 scellini. In apparenza, perché questo aumento pari a 0.05 dollari ha rappresentato per la maggior parte degli abitanti della capitale Nairobi e dell’intero Paese un aggravio insostenibile. Il tenore medio pro capite, soprattutto negli slum della grande città keniota, è pari al dollaro al giorno. Nairobi è abitata da una popolazione che si aggira tra i 4 e i 4,5 milioni. I costi dei trasporti schizzati alle stelle derivanti dalla crisi economica e dall’aumento del prezzo del petrolio stanno danneggiando l’economia globale. Tuttavia nel 2011 nessun altro continente come l’Africa ha subito in modo così drastico e netto il surplus dei costi dei beni di consumo. In Kenya, come in Uganda, nel Mozambico e in Somalia, il prezzo del mais ha subito un aumento che oscilla tra il 25 e il 75 per cento. Questo ciclo perverso, unito alla crescita dell’inflazione e a una siccità incombente, ha danneggiato tanto il commercio quanto il consumo. Lo scorso aprile, circa cento persone hanno bloccato il traffico nei pressi del parlamento nel centro di Nairobi inscenando una forte protesta. Proprio il giorno precedente la manifestazione, il governo di Kibaki e Odinga aveva tagliato le tasse su kerosene e gasolio, tagli giudicati comunque troppo bassi dai manifestanti. Tra la folla era presente Yash Pal Ghai, noto costituzionalista africano, il quale ha sottolineato ai cronisti di Associated Press che il vero problema del Kenya è una corruzione politica dilagante. «L’agenzia delle entrate ha recentemente dichiarato che un terzo delle tasse sul reddito sono oggetto di un vero e proprio furto da parte di politici, burocrati ed imprenditori», ha affermato il giurista. «Molte persone in Kenya possono permettersi un solo pasto al giorno, mentre pochi vivono in un lusso osceno e ricco di comfort. È incredibile che a oggi non ci sia ancora stata una ribellione popolare». Una situazione sottolineata in un’istantanea paradossale: proprio il giorno in cui in parlamento si doveva discutere sull’aumento dei costi dei beni primari, numerosi onorevoli si sono recati a lavoro a bordo di auto lussuose. Scena che ha scatenato la rabbia di molti militanti. Una condizione simile a quella vissuta in Uganda, Paese confinante a Ovest con il Kenya. Nello stesso mese di aprile si sono tenute affollate e accese manifestazioni contro l’aumento dei prezzi di cibo, carburante e trasporti pubblici. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni e sparando sulla folla, tumulti che hanno provocato il ferimento del leader dell’opposizione al kenya_02governo, Kizza Besigye. Tornando a Nairobi, nella baraccopoli di Kibera, la più grande dell’intera capitale, molte persone mangiano ciò che i keniani più ricchi ritengono spazzatura: polmoni di mucca, sardine essiccate, teste di pesce scartate da negozi e ristoranti alla moda. Un momento drammatico aggravato anche dall’aumento del costo dell’acqua: negli ultimi due mesi il prezzo di una tanica di acqua potabile è passato da 0,03 a 0,05 dollari.

La rivoluzione del mais

Il 7 luglio altre proteste. La polizia di Nairobi ha sparato gas lacrimogeni contro gruppi di dimostranti che manifestavano contro il rincaro dei prezzi degli alimenti e del carburante. La folla, composta soprattutto da studenti universitari e attivisti per i diritti civili, è stata bloccata proprio mentre marciava verso gli uffici di Kibaki e Odinga, ritenuti i maggior responsabili della delicata situazione del Paese. Il Vice portavoce della polizia, Charles Owino, ha dichiarato che le forze dell’ordine hanno dovuto disperdere i manifestanti poiché non avevano i permessi necessari per la manifestazione. Dopo le proteste il presidente Mwai Kibaki ha promesso che il governo prenderà seri provvedimenti per proteggere i cittadini dagli effetti dell’aumento dei costi. Tra le misure previste, la riduzione delle tasse su alcuni prodotti considerati superflui, l’espansione dei programmi di aiuti alimentari nella aree ad elevata siccità, l’accumulo di riserve di carburanti e di grano. Proprio quest’ultimo punto è al centro di rinnovate polemiche. Il governo è infatti in trattativa con corporazioni multinazionali per importare mais geneticamente modificato. Nonostante le opposizioni di contadini e ambientalisti, i quali il primo luglio scorso, radunati dall’African Biodiversity Network e dal comitato Unga Revolution, hanno protestato a Nairobi ritenendo che una spedizione di Ogm fosse già arrivata dal Sud Africa nel porto di Mombasa e avesse contaminato il suolo. Notizia per altro confermata dal presidente della commissione agricoltura del governo, John Mututho. Una scelta che, secondo i manifestanti, favorirebbe gli accordi con le potenze occidentali e i grandi coltivatori, i quali avrebbero la possibilità di importare mais a buon mercato e far fronte alle carenze idriche. «L’importazione di mais geneticamente modificato è una manovra che porta le aziende leader del settore a uccidere noi piccoli coltivatori», ha dichiarato alla BBC il portavoce Gacheke Gachihi. Sull’altro versante, Diamond Lalji, presidente della Kenya Cereal Millers Association, ha affermato all’agenzia Reuters che «il mais geneticamente modificato è più conveniente di circa il 30 per cento rispetto al mais non-OGM. Inoltre consentirtà di usare meno fertilizzanti e pesticidi». Un provvedimento che farebbe il paio con il taglio delle tariffe sulle importazione del mais attuato di recente dal governo pur di arginare il forte aumento dei prezzi. In realtà tutto fa pensare che la maggior parte dei Paesi africani sia costantemente sotto la pressione delle lobby pro-OGM guidate dagli Stati Uniti, che pongono la crescita di colture geneticamente modificate come condizione essenziale per ridurre la fame e le carestie. Il Kenya è situato in una posizione strategica per l’Africa orientale, è un Paese membro della East African Community (EAC) e della COMESA (Common Market for East and Southern Africa). Un punto privilegiato per inserirsi in un mercato ampio e articolato, che fa leva su 340 milioni di potenziali clienti.

Per saperne di più:
http://www.dailymotion.com/video/xjsx6s_kenya-protest_news

http://www.youtube.com/watch?v=ZF0fs7JlYJM

In allegato il rapporto 2011 di Amnesty International Italia sul Kenya

RapportoAmnesty2011_Kenya_1.pdf

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