Caro Roberto, mi cimento in un difficile compito perché con te, come direttore (ricordi i direttori intransigenti ma generosi e di gran fiuto e i reporter spregiudicati e intraprendenti ma con tanta stoffa dei “nostri” fumetti dei vecchi tempi?), sento di poter rischiare e mi va di rischiare: abrogare la “morale”, abrogare la morte (spero di non essere frainteso).

Alcuni fatti accaduti abbastanza di recente, dove, a vario titolo, per semplice negligenza, o per cattiveria, per superficialità, per rabbia, sono morti bambini, o sono avvenute cose gravissime nei loro confronti, ad opera di adulti (lasciamo stare casualità e imponderabili circostanze) in particolare l’episodio che è fugacemente accennato nel titolo e che certo hai presente, mi hanno tormentato la mente finché non ho deciso di scrivere questo mio articolo-novella, che desidererei fosse pubblicato così com’è dall’inizio alla fine, perché come le vene, il sangue, il cuore e i capillari, non si può spezzettare, o togliere qualche pezzetto senza snaturare tutto.

I bambini non dovrebbero mai morire, è troppo grave che ciò accada; molto più grave, mi perdonino tutti gli altri, di quando muore un soldato in guerra, perché un bambino muore quando ha appena cominciato a vivere e questo non è ammissibile, non è possibile. Quanti di noi sono nonni o giovani genitori… quanti di noi non osano neppure pensare per pochi secondi ad una eventualità del genere? Eppure accade quotidianamente. Se poi pensiamo a drammatiche, epocali, gigantesche (ai nostri occhi) situazioni… lasciando perdere il passato, altrimenti lo sconforto ci soffoca… quanti bambini muoiono oggi in Sudan, in Egitto, Libia, Tunisia, Etiopia, eccetera, eccetera, eccetera?
Non deve succedere, non può succedere, eppure…
Morale: qui non c’è morale! Queste cose non accadono, tutto qui.
In una dimensione senza tempo e senza spazio, QUESTE COSE NON ESISTONO.

Forse siamo troppo piccoli; anche quei giganteschi eventi di cui dicevo… cose da nani, o meno, molto meno, cose da insetti.
Solo questo ci può salvare: la “morale” della non-morale.
Ora racconterò una storia di poche, pochissime righe (tale è la nostra vicenda terrena), dove c’è una bambina… solo il pensiero di una bambina, un’anima innocente affidata a chi le è intorno, al Mondo, alla Società, agli interessi, alle istituzioni e… forse, o speriamo, a Dio, mi commuove; e c’è un uomo, suo padre, senza aggettivi o giudizi, suo padre e basta. Ambedue sono morti (ma sono morti davvero? Ai nostri occhi certamente sì. Ma se non esistesse affatto la Morte? Sarebbero allora i nostri occhi ad ingannarsi vedendo l’incappucciato angelo con la falce dove non c’è), anche qui senza l’”elemento psicologico”, come si direbbe in un’aula di giustizia, solo l’ ”elemento materiale”. Si sa solo che il padre è stato causa della morte della figlia, ma non si sa come, perché, in quali circostanze; e pochi giorni dopo è morto il padre (ancora una volta non si sa se è per un incidente o perché si è suicidato, o è stato ucciso, o è stato colto da infarto o altro male esiziale, magari per il dolore, per il rimorso; nulla è certo a parte l’evento).
Ma prima, ancora due parole… la “morale” della non-morale, dicevo: quante volte giudichiamo una persona, magari incontrata per caso sul treno, strana, supponente, spocchiosa, e magari, invece, è solo malata, e dovrebbe avere tutta la nostra discreta comprensione; quante volte, in metropolitana magari, quello che ci sta di fronte, ci sembra, che so, uno stupido, o un “fascista”, un ignorante, solo per il giornale o il libro che sta leggendo, e invece siamo “fascisti” noi, anche se quello ha in mano “Il Secolo d’Italia” e noi sottobraccio “il Manifesto” perché vorremmo costringerlo a fare le sue scelte, secondo il nostro Ego; siamo ignoranti noi perché non sappiamo, né ci chiediamo, quali sono le sue motivazioni, magari una ricerca, uno studio di carattere accademico o per un articolo o una trasmissione radiotelevisiva; siamo stupidi (e come tutti gli stupidi, arroganti) noi che valutiamo con l’intimo risolino di scherno e sarcasmo la raccolta di fumetti alla quale è intensamente applicato, mentre ci stiamo affrettando a tornare a casa per non perdere la puntata del gioco dei “pacchi”.
Presi da raptus di simpatia o antipatia, giudichiamo, facciamo la “morale” (ahimé anche i giudici nei Tribunali lo fanno).
Quante volte siamo ostili o sentiamo l’ostilità altrui, solo salendo su un tram o nell’incrociarsi per strada; siamo “disturbati” da qualcuno che ci guarda, e chi ci guarda è disturbato da noi? A volte abbiamo addirittura impulsi di odio, odio puro, solo perché qualcuno ci ha urtato per strada.
E’ MORALE tutto questo? No! E’ segno che rincorriamo assurdità, principi pretesi universali ed assoluti che ciascuno di noi, di tanto in tanto, a sua volta, indifferentemente viola, alziamo scudi da “Capitan America” verso il Mondo. Il “nostro” principio, la “nostra” privacy è il valore più importante al Mondo e, in modo del tutto strumentale e specioso, siamo disposti a riconoscere che anche per gli altri è così; ma tutto questo non in senso dialettico e relativo, ma assoluto, secondo il nostro indefettibile punto di vista, forgiato e improntato ai massimi sistemi, e senza scusanti o eccezioni di sorta.
Ancora oggi si dice (con particolare riferimento agli italiani, per la verità, per tradizionali motivi di tifo) che una squadra nazionale di calcio ha tanti allenatori quanti sono gli spettatori allo stadio o in TV, o anche che, se ce ne fosse la possibilità, ci sarebbero tante diverse squadre nazionali, quanti sono gli spettatori, tutti tecnici insuperabili, con gli effetti che si possono immaginare.
Ma ora, provate ad immaginare, cari lettori, questo affresco con tanti Capitan America che si fronteggiano, con il loro scudo di vibranio alzato, lottando strenuamente per le loro beghe, mentre il Mondo è al di là.
E dov’è il Mondo?

{loadposition foto_universo}

Era seduta su una piccola nuvola argentea a mo’ di sgabello, paziente, serena, aveva tra le mani un piccolo orsacchiotto, o forse uno di quei giochi dove soffiando si fa la girandola, quasi sfumata, quasi lontana, ma i riccioli biondi, gli occhi della dolcezza, le labbra gentili si distinguevano, e il vestitino, quello bianco e rosa, il più bello che aveva, forse era il momento, doveva andare, quando ecco, lo vide:
“papà!”
Si avvicinava a passi lenti, decisi ma non pesanti, lo sguardo sereno, sorridente quasi, anche lui era come se più l’idea, l’immagine venisse fuori, che la materia, ma la gioia per quell’incontro traspariva, anche se un po’ costretta, forse, in quel vestito d’occasione al quale avrebbe preferito un paio di jeans e una qualunque canotta casalinga.
“amore mio!” Gli proruppe dal cuore.
Lei lo prese per mano ed insieme si avviarono, come una domenica al parco, o in una di quelle gite familiari in campagna, oltre le nuvole più lontane.
Non c’è nessuno, luce soffusa, mattutina, ma di un chiarore, un bianco più intenso; quelle mani così strette, quello stare così vicini da non potersi neanche guardare, ma soprattutto sentirsi vicini, guardarsi con gli occhi dell’anima, quell’incedere lento, forse induce a tacere anche gli Angeli, assorti a scrutare da violabili, incerti nascondigli quell’uomo un po’ ingobbito, come rassegnato, falcidiato, corrugato e incanutito dall’amarezza, ma ancora non vinto e quella bambina buona, quieta eppure vivida, brillante della sua innocenza e solarità, sottobraccio sempre il piccolo orsacchiotto o quel gioco della girandola, avviarsi insieme verso l’Eternità.

Siamo troppo piccoli noi, come dicevo: questo deve essere il punto.

Grazie.
Ciao

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *