La primavera araba che ha infiammato l’Africa settentrionale è stata una delle prime rivoluzioni sociali e culturali a passare per il Web. Migliaia sono stati i giovani informati e attivi su Internet, tra blog e social network.

Il riferimento più immediato va a quei Paesi dove l’educazione ha giocato un ruolo fondamentale nella crescita individuale e collettiva dei ragazzi: Egitto, Tunisia; in Asia Libano e Iran. Il cinema non ha quasi retto quest’onda d’urto. Tra documentari e reportage televisivi, anche la settima arte si è piegata al potere dirompente della rete. 

I 18 giorni che hanno sconvolto l’Egitto

Presentato come evento speciale fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes e ancora senza distribuzione in Italia, 18 Days è il primo film corale sulla rivoluzione egiziana. Dieci registi, oltre venti attori, sei sceneggiatori, otto direttori della fotografia, otto ingegneri del suono, cinque scenografi, tre costumisti, sette operatori di montaggio, tre società di post produzione hanno lavorato in grande velocità, con un budget ridotto e su base volontaria, per mettere insieme dieci episodi che affrontano i 18 giorni che hanno sconvolto l’Egitto, dal 25 gennaio all’11 febbraio scorso. Dieci storie che gli autori hanno vissuto in prima persona, hanno sentito o semplicemente immaginato. Nonostante le polemiche suscitate on line (i due registi Marwan Hamed e Sherif Arafa sono stati accusati di opportunismo perché in passato hanno realizzato spot per il partito Nazionale Democratico di Mubarak), l’opera restituisce l’autenticità della rivolta, alternando toni drammatici, comici e grotteschi. In Retention, Sherif Arafa (figlio del maestro Saad Arafa) immagina la rivoluzione attraverso gli occhi di alcuni pazienti di un istituto psichiatrico; in God’s Creation la giovane Kamla Abu Zikry si immerge nelle strade infiammate del Cairo seguendo una ragazza bella ed emancipata; 19 19 di Marwan Hamed è un episodio ossessivo e tremendo, l’arresto e l’interrogatorio di un attivista politico; When the Flood Hits You di Mohamed Ali è un divertente e spietato ritratto di come far soldi approfittando di una rivolta; Curfew di Sherif Bendary punta ancora sull’ironia, nonno e nipote che non riescono a tornare a casa perché fermati in strada da infiniti posti di blocco; in Revolution Cookies Khaled Marei immagina cosa succederebbe se un uomo rimanesse chiuso nel proprio negozio scambiando i movimenti di piazza per un’invasione israeliana; #Tahrir 2/2 di Mariam Abou Ouf è la cronaca dei punti di vista, pro e contro Mubarak, subito dopo la resa del premier del 2 febbraio; in Window di Ahmad Abdallah prevale la visione intimista e privata di un ragazzo avulso a tutto ciò che lo circonda; Interior/Exterior di Yousry Nasrallah (regista di Scheherazade Tell Me a Story, altro film da recuperare per riuscire a comprendere l’Egitto di oggi) analizza i rapporti di una coppia alla luce degli scontri di piazza Tahrir; Ashraf Seberto di Ahmed Alaa è la storia di un barbiere che trasforma la propria bottega in ospedale. Tutti i proventi di 18 Days sono stati devoluti ad una organizzazione che si prodiga per garantire istruzione ed educazione civile ai ragazzi dei villaggi più remoti e poveri dell’Egitto.

 

Il potere dei documentari e dell’informazione televisivathegreenwave
Un lavoro necessario per capire l’importanza di forme alternative di rappresentazione degli eventi lo ha realizzato il regista Ali Samadi Ahadi con il documentario The Green Wave (2010). Nel film sulle proteste e le repressioni in Iran durante le elezioni presidenziali del 2009, ha infatti utilizzato video amatoriali, report di blog, Facebook e Twitter, come documentazione reale per raccontare le esperienze e le emozioni di due giovani studenti iraniani. Il tutto scegliendo come mezzo espressivo la forma del film d’animazione. Il successo in vari festival internazionali (Berlinale, Sundance, IDFA Amsterdam) e i premi ricevuti (Human Rights Film Award a Bruxelles) non hanno comunque fruttato una distribuzione italiana. La diffusione via Internet ha premiato invece i reportage televisivi più attenti. Tra questi, Tunisie, la révolution en marche di Gilles Jacquier, prodotto da France2 e vincitore come miglior reportage internazionale al Premio Ilaria Alpi 2011 e al MonteCarlo Television Festival 2011. Jacquier e il suo operatore Christopher Kench hanno seguito per più di una settimana la rivolta dei giovani tunisini che ha posto fine a 23 anni di dittatura. Il film indaga sui motivi che hanno portato il movimento alla riaffermazione della democrazia, una difesa della libertà che a tutt’oggi appare minacciata: proprio di recente sono state convocate manifestazioni nelle città di Tunisi e di Sousse per esprimere dissenso verso gli episodi di violenza avvenuti da parte di gruppi islamici legati ai salafiti. Proteste di piazza organizzate sempre attraverso i social network, soprattutto dopo che lo scorso 21 giugno l’ex presidente Ben Alì è stato condannato a 35 anni di carcere per peculato e appropriazione di fondi pubblici. Da Al Jazeera English è stato invece prodotto Egypt Burning – The Fall of Mubarak, reportage che racconta l’ultima settimana al potere di Hosni Mubarak e come quella che sembrava una semplice ondata di proteste di piazza si sia trasformata in un’autentica rivoluzione. Il punto di vista è ancora più interessante se si pensa che il lavoro, girato a ridosso degli eventi, sia stato realizzato mentre Al Jazeera era stata bandita dall’Egitto, ed erano presenti numerose misure repressive verso i mass media e molti giornalisti e corrispondenti erano stati arrestati. Il crollo delle barriere della paura e l’apertura verso la speranza di tanti giovani riversatisi nelle piazze sono colti dai filmati di Al Jazeera Network e dai numerosi video lanciati in rete.

I ribelli e il colonnello
Altro reportage premiato al MonteCarlo Television Festival di quest’anno è stato The Battle for Zawiyah di Alex Craw, prodotto da Sky News. Il lavoro del giornalista inglese è incentrato sulla battaglia tra i ribelli e le forze del colonnello Gheddafi in Libia per il controllo di Zawiyah, città alle porte di Tripoli verso il confine con la Tunisia. Un fortino considerato fino ad allora inespugnabile e i cui scontri hanno provocato oltre 200 morti. Il movimento in cerca di cambiamento trova ancora difficoltà nel Paese. Nel discorso del 3 luglio scorso alla televisione francese Tf1, Saif al-Islam, uno dei figli del colonnello Gheddafi, ha dichiarato che «se in Occidente volete la democrazia in Libia se ne può parlare, ma mio padre non lascerà mai il potere anche perché voi occidentali non avete possibilità di vincere questa guerra». Rincarando la dose quando si parla di Francia e fonti energetiche: «Se ce l’avete con noi per il petrolio non avete che da parlarci, dai ribelli non avrete mai nulla perché non vinceranno mai». Una pacificazione che già nei giorni precedenti sembrava difficile da portare avante, quando in un discorso diffuso per telefono a migliaia di sostenitori assiepati sulla piazza Verde a Tripoli, Gheddafi aveva affermato che se la Nato non fermerà i suoi raid, i combattenti libici si riverseranno sull’Europa come «sciami di cavallette».

Diari di una rivoluzione
tunisia2Presentato all’ultimo Festival di Cannes come evento speciale, il documentario La Khaoufa Baada Al’Yaoum (No More Fear) di Mourad Ben Cheikh (prodotto dalla CineTele Films di Habib Attia), racconta la vita quotidiana di tre persone nel pieno dilagare del terrore e dell’incertezza sociali. Radhia Nasraoui è un avvocato che si batte per i diritti civili; Lina Ben Mhenni è una blogger che racconta gli eventi di Sidi Bouzid; Karem Chérif è un giornalista che come tante persone comuni fa parte dei gruppi di protezione di quartiere che si sono formati per combattere ladri, saccheggiatori e cecchini. Cheikh coglie perfettamente lo spirito inquieto e appassionato dei tempi, che si riflette nelle parole di uno dei protagonisti: «Questa rivoluzione non è risultato della miseria, ma piuttosto un grido di disperazione che nasce da una generazione di laureati. Non è né la rivoluzione del pane né quella dei gelsomini… I gelsomini non uccidono, né danno luogo a martiri. Questa è la rivoluzione della devozione di un intero popolo. Non potremo mai più avere alcun timore per questa nuova Tunisia!». Un pensiero che il regista ribadisce: «Per tanto tempo, la mia rabbia è rimasta in silenzio. I miei occhi erano incapaci di guardare. Ma il 14 gennaio (giorno in cui il presidente Ben Ali ha lasciato il Paese e si è rifugiato in Arabia Saudita, ndr), mi sono riappropriato dei miei sentimenti, fino alle lacrime». Al grido di «Mubarak, sei licenziato. Firmato, Egitto», la lotta per la libertà e la democrazia dei giovani di tutto il Medio Oriente (dall’Egitto al Libano, dalla Tunisia e la Libia all’Algeria) viene testimoniata da Zero Silence, il documentario di Javeria Rizvi Kabani, Jonny Von Wallstrom e Alexandra Sandels. Tanti ragazzi che sono cresciuti covando rabbia in un regime autoritatio, hanno trovato in Internet uno strumento per portare un cambiamento nella loro società, in cui la libertà di parola è spesso controllata se non proibita. Media non tradizionali come Facebook, YouTube e Twitter sono usati per potersi esprimere liberamente e organizzarsi per mobilitare, collaborare e combattere l’ingiustizia. Un altro tassello importante lo aggiunge Diary of a Revolution di Khaled Eiz el Arab, documentario sulla rivoluzione egiziana, prodotto da BBC Arabic, presentato in chiusura dello Student Film Festival di Beirut. A riaffermare che è proprio dalle scuole che sono arrivati gli stimoli maggiori per i ragazzi.

L’Europa resta a guardare?
Il cinema italiano ha risposto con alcuni documentari degni di nota. In anticipo sui tempi Cairo Downtown, realizzato nel 2009 da Carolina Popolani e prodotto da Atabulo. È un lavoro che segue gli attivisti blogger, divenuti poi protagonisti delle rivolte in Egitto, «ragazzi che usano la rete per fare politica ed esprimere il dissenso, blogger egiziani considerati maestri dell’attivismo in rete in tutto il Medio Oriente». Sempre da Atabulo arriva Egitto: tra parole e azione, reportage sulla libertà di espressione realizzato con il contributo di Paralleli, Istituto Mediterraneo del Nord Ovest, ed è in preparazione Sisters of Zaynab, altro documentario sulle attiviste islamiche egiziane. Dritto sul Cairo ha puntato Stefano Savona, autore di I ragazzi di Tahrir Square. Andato in onda su Rai3 per il ciclo Doc 3, il film si immerge nella celebre piazza Tahrir dove la rivoluzione è nata e si è sviluppata. Dalle prime adunanze alla cacciata di Mubarak, in dieci giorni la macchina da presa segue sguardi, volti, voci, paure, battaglie e sogni mai sopiti, lasciando aperti interrogativi sul presente ed il futuro del Paese, ponendo domande piuttosto che cercando di dare risposte. Un’opera che assume ancora più senso se si guarda ai recenti sviluppi della primavera araba. In Egitto un milione di persone sono attese il 7 luglio proprio in piazza Tahrir, per manifestare contro la lentezza con cui il Consiglio Supremo delle Forze Armate sta portando avanti le riforme e i processi contro gli esponenti dell’ex regime di Mubarak, dimessosi l’11 febbraio scorso. Un movimento di protesta acuito dalla sentenza del 29 giugno di un tribunale civile che ha assolto tre ex ministri egiziani rinviati a giudizio per malversazione. Come ha dichiarato all’agenzia di stampa Dpa Inji Hamdi, portavoce del movimento 6 Aprile: «Negli ultimi cinque mesi, diversi ex funzionari governativi sono stati assolti come se non ci fosse stata alcuna rivoluzione e come se nessuno fosse stato ucciso».

I labili confini del Mediterraneotunisia
Da una sponda all’altra del Mediterraneo il passo è davvero breve probabilmente anche perché la nuova Europa ridefinisce costantemente i propri confini lungo tutto il bacino, seppure il Mare nostrum sia sempre più diviso da fratture e conflitti. Un curioso reportage televisivo arriva, a tal proposito, dalla Norvegia e punta in direzione della Grecia. Si tratta di Attica-Slaget (The Battle for Attica Square) di Øystein Bogen e Aage Aune, prodotto da TV2 Norway. La questione che il documentario solleva è spinosa: nel settembre del 2010 per la prima volta in una nazione dell’Unione Europea, la Grecia, l’UNHCR (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) ha denunciato una crisi umanitaria. Il numero di profughi clandestini entrati attraverso il confine turco (tramite il fiume Evros) aveva già raggiunto un numero elevato durante l’estate precedente, un dato aggravato dalle carenze strutturali di un Paese in profonda crisi economica. Il governo non poteva assicurare alcun tipo di sostegno sociale, così centinaia di rifugiati si erano accampati nei parchi di Atene. In un anno i clandestini aumentano: da 3.500 nel 2009 diventano 20.000 nel 2010. L’assenza di una direzione politica nell’emergenza fa acuire i dissaporti tra stranieri e popolazione locale, favorendo la nascita di vigilantes che organizzano raid punitivi notturni nei parchi. Il regista Øystein Bogen e il fotografo Aage Aune hanno catturato uno dei massimi momenti di tensione, gli scontri di Plateia Attikis, nel centro di Atene, luogo dove si sono fermati centinaia di profughi afghani. Una situazione che pare inimmaginabile, sintetizzata alla perfezione dalle parole di Ghulam, padre di un bambino di quattro anni aggredito durante un raid e costretto con la sua famiglia a dormire sulle panchine della piazza: «Se fossi rimasto in Afghanistan avrei potuto essere picchiato, ma almeno avrebbero risparmiato i miei figli. Non posso credere che questa è l’Europa».

Per saperne di più puoi vedere:                                                                                    

Tunisie, la révolution en marche di Gilles Jacquier
The Battle for Zawiyah di Alex Craw
Egypt Burning – The Fall of MubarakCairo Downtown di Carolina Popolani
Egitto: tra parole e azione:
I ragazzi di Tahrir SquareAttica-Slaget (The Battle for Attica Square) di Øystein Bogen e Aage Aune

Un sentito ringraziamento all’amico e collega Salvatore Covelli per i preziosi e continui suggerimenti.

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