In realtà la giurisprudenza ha sempre riconosciuto il diritto dei figli ad essere mantenuti se il loro stipendio non garantisce l’autosufficienza. Del vero problema non si parla: la società non offre più nulla e l’Italia è una Repubblica fondata sui soldi della famiglia e, se va bene, di tanto in tanto sul lavoro
L’ultima sentenza
“I figli trovano un lavoro con regolare contratto: con i contributi e busta paga nemmeno troppo ‘leggera’. Ma questo non basta a riossigenare chi è tenuto a versare l’assegno alla ex moglie per provvedere alle esigenze dei ragazzi. L’avvertimento arriva dalla Cassazione con la sentenza 14123/2011 della prima sezione civile. Per mettere fine all’esborso mensile, infatti, l’impiego – dicono i supremi giudici – deve essere consono alle aspettative maturate con il titolo di studio, anche quando si tratta di un modesto diploma da ragioniere, non di una laurea prestigiosa. Per di più la retribuzione dei figlioli, anche se è quella prevista dalla legge, deve essere di una certa consistenza. Per fare l’esempio del caso affrontato dalla Suprema Corte, 600 euro per un lavoro fisso part-time, mentre si vive ancora con la mamma sotto un tetto già pagato, non esimono il padre, anche se è un povero pensionato, dal versare il contributo per la figlia”
Questa la sintesi della notizia riportata dalle agenzie di stampa. Andando oltre le frasi fatte contenute nel testo e l’inutile meraviglia che trasuda, vale la pena di fare attenzione a un paio di passaggi.
Anzitutto una premessa… sistematica: quando si parla di Cassazione che conferma sentenze di merito precedenti, ammesso che la decisione possa suscitare meraviglia, questa avrebbe dovuto essere “diretta” ai giudici di merito, prima ancora che alla Cassazione. Visto che la Suprema Corte, senza entrare nel merito, si limita a verificare che le motivazioni dei giudici precedenti siano coerenti con i dati processuali che sono emersi (e che dunque sono stati portati dalle parti: questo vuol dire che se le parti sbagliano a portare le prove, è difficile che il giudice – soprattutto quello civile – possa decidere in modo corretto rispetto ad una realtà che, in sostanza, non è stata formalmente rappresentata).
Detto questo veniamo ai due passaggi: “… 600 euro per un lavoro fisso part-time mentre si vive ancora con la mamma sotto un tetto già pagato… non esimono il padre…”. Bene, è appena il caso di ricordare che la ragione per la quale si può smettere di versare l’assegno per i figli è la concreta possibilità che questi possano essere autosufficienti. Il punto è proprio questo: i 600 euro bastano per vivere con la mamma sotto un tetto già pagato ma è chiaro che non basterebbero per pagarsi un tetto diverso.
E dunque già su questo punto è ovvio che la Cassazione confermi le sentenze di merito.
Il secondo passaggio: “… l’impiego deve essere consono alle aspettative maturate con il titolo di studio, anche quando si tratta di un modesto diploma di ragioniere…”. Lasciamo stare l’offesa ai ragionieri contenuta in questa affermazione e l’offesa in genere allo studio, di qualunque grado esso sia. Leggendo gli atti del processo emerge che la ragazza, ragioniera diplomata, ha trovato, a 25 anni suonati, soltanto un impiego part-time come commessa di negozio. La Cassazione, che nonostante tutto è meno stupida di come appare in alcune cronache, si rende conto – così come si sono resi conto i giudici di merito – che una ragioniera diplomata avrà ben diritto a sperare in qualcosa di meglio che fare la commessa per giunta part-time.
E questa è la seconda ragione per la quale sono state confermate le sentenze che hanno obbligato il padre a continuare a versare l’assegno.
In ultima analisi la stessa notizia che si… meraviglia, spiega che già in precedenza il tribunale, pur negando al papà il diritto a sospendere l’assegno, gli aveva però concesso di dimezzarlo, da 300 euro a 150.
In sostanza questa ragazza deve accontentarsi di 750 euro al mese, a 25 anni e dopo un diploma di ragioniere. In attesa del miracolo italiano del lavoro.
Le motivazioni
Per capire se una sentenza deve meravigliare o meno è sempre opportuno cercarne le motivazioni. La motivazione della sentenza è una conquista della civiltà (fu introdotta per la prima volta dal ministro della Giustizia del Regno delle Due Sicilie). In questo caso la Cassazione così spiega: “L’obbligo di versare il contributo per i figli maggiorenni cessa solo quando il genitore provi che hanno raggiunto l’indipendenza, percependo un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato. Per converso se il genitore dimostra che il figlio si è sottratto volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata, può sospendere il mantenimento”. E per finire: “l’autosufficienza deve essere accertata anche sulla base di una corrispondenza, quanto meno tendenziale, fra le capacità professionali acquisite e le reali possibilità offerte dal mercato del lavoro, tenendo naturalmente conto, dell’assenza di colpevoli inerzie o rifiuti ingiustificati e, soprattutto, dell’entità dei proventi dell’attività esercitata nella ragionevole attesa di una collocazione nel mondo del lavoro adeguata alle capacità professionali e alle proprie aspirazioni, se ed in quanto concretamente e meritevolmente coltivate, nonché prive di qualsiasi carattere velleitario”.
Le aspettative dei figli soprattutto
Detto fuori dal giuridichese vuol dire che prima di ogni altra cosa vengono, per i genitori, le aspettative, legittime, dei figli a patto che essi si diano da fare, facciano la loro parte senza pretendere la luna ma nemmeno senza accettare umiliazioni. E cosa c’è di strano in questo? Abbiamo combattuto per anni per affermare i diritti dei figli contro la figura di padre-padrone e della potestà indiscutibile della famiglia. I genitori devono essere coloro che accompagnano i figli verso la loro strada. Come diceva Rabelais: i ragazzi sono un fuoco da accendere e non un vaso da riempire. E dopo aver combattuto per anni ci meravigliamo quando la magistratura chiama i genitori a rispettare i loro doveri e, allo stesso tempo, i diritti dei figli?
Le sentenze precedenti
A dimostrare l’inutilità della meraviglia – che si risolve in una disinformazione per la quale tutto diventa slogan e frasi fatte – c’è la giurisprudenza precedente. La Corte d’Appello di Catania, il 28 ottobre 2009 così ha deciso in una causa simile: “In tema di mantenimento della prole, la decisione della figlia maggiorenne di intraprendere gli studi universitari in età più avanzata, rispetto alla normalità, non può ritorcersi a suo danno, dovendo i genitori assecondare le inclinazioni e aspirazioni dei figli, tranne che venga dimostrato che il cambio di scelte mascheri, in realtà, la volontà di non lavorare, né di studiare (nella specie, la figlia maggiorenne, dopo aver svolto, per un periodo di tempo molto limitato, alcuni lavori precari, si era iscritta all’Università e, nel corso di un solo anno accademico, aveva sostenuto ben nove esami, a dimostrazione dell’impegno profuso negli studi”.
Quale sarebbe stato il titolo della notizie su questa sentenza? “I genitori devono rassegnarsi a pagare se i figli vogliono studiare”?
Ancora, il 12 gennaio del 2010, sempre la Cassazione, con la sentenza 261 della prima sezione civile, ha confermato che “non perde il diritto all’assegno il figlio, ormai quasi trentenne, che abbia rifiutato un lavoro che non era nemmeno lontanamente adeguato alla sua qualifica e agli studi che aveva sostenuto”.
E pochi mesi dopo, il 14 aprile del 2010, la sentenza 8954 (prima sezione civile), così afferma: “In tema di assegno di mantenimento dei figli, dall’art. 30 Cost., (artt. 147, 148 e 155 c.c., art. 6 legge sul divorzio) si trae il precetto che i figli maggiorenni ma tuttora dipendenti non per loro colpa dai genitori hanno diritto a conseguire il mantenimento da costoro, fino al momento in cui raggiungano una propria indipendenza economica, ovvero versino in colpa per non essersi messi in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante l’esercizio di un’idonea attività lavorativa. E che detto diritto non consiste nella mera corresponsione degli alimenti, ma assume eguale consistenza ed ampiezza di quello attribuito dal menzionato art. 155 c.c. ai figli minorenni cui la loro posizione va assimilata… non essendo sufficiente il mero godimento di un reddito quale che sia, occorre altresì la prova della sua adeguatezza ad assicurare al figlio la completa autosufficienza economica. La relativa valutazione resta affidata al giudice di merito”.
Parità tra figli minorenni e maggiorenni
In quest’ultima sentenza viene chiarito un ulteriore concetto importante (e beneficio di quegli imbecilli che parlano di bamboccioni): non c’è differenza tra figli minorenni e figli maggiorenni. L’obbligo di mantenimento vale indipendentemente dall’età e poggia sul diritto del figlio ad essere adeguatamente assistito finché è necessario e a condizione che non ne… approfitti dandosi alla bella vita.
D’altronde, siccome il diritto prima di essere un insieme di leggi è – o dovrebbe essere – logica, se invece di pensare a genitori separati le stesse vicende le collocassimo in una famiglia non separata, cosa ci sarebbe di strano a continuare ad assistere il figlio che, senza colpa, non riesce a trovare lavoro?.
Le pronunce contrarie che rafforzano il principio
La tutela garantita ai figli viene rafforzata dalle sentenze che, invece, hanno autorizzato il genitore a sospendere il mantenimento. Su tutte, ne citiamo due: la sentenza 23590/2010 della prima sezione civile e la sentenza 12477/2004 della seconda civile della Cassazione. Entrambe dicono la stessa cosa: “Il genitore non è tenuto a versare all’ex coniuge l’assegno per il figlio maggiorenne convivente quando quest’ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato iniziato a espletare un’attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di un’adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento da parte del genitore, senza che assuma rilievo il sopravvenire di circostanze ulteriori le quali, se pur determinano l’effetto di renderlo privo sostentamento economico, non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti siano già venuti meno”.
Come dire: se da un lato garantiamo ai figli il diritto di trovarsi un lavoro adeguato per qualità e anche per retribuzione, dall’altro non esageriamo: se questo lavoro se lo trovano e poi però lo lasciano, allora sono c… loro.
La morale
Da queste finte notizie potrebbe trarsi una utile, e vera, conclusione: il problema non è la Cassazione ma una società, un sistema economico, che non riesce a rispondere a nessuna delle esigenze di una civiltà moderna. Per cui ciò che conta è quanti soldi, e per quanto tempo, la famiglia riesce a passare ai figli. L’Italia è una Repubblica fondata sull’assistenza familiare nella speranza che un giorno arrivi un lavoro.
Ma forse, per rendere tutto questo comprensibile agli “aedi” della presunta informazione bisogna banalizzare: la morale è sempre quella, fai merenda con Girella. Come, non a caso, ricordava un famoso Carosello.