Nelle scorse settimane la Corte d’appello di Catania ha confermato la sentenza del tribunale di Modica che nel maggio 2008 condannò Carlo Ruta, storico siciliano, a 150 euro di ammenda e all’oscuramento del suo sito “Accade in Sicilia” considerandolo stampa clandestina. La vicenda merita un approfondimento e, come sempre, un po’ di informazione.
Anzitutto è falso che la sentenza abbia equiparato i blog alla stampa e, in un tentativo di “mettere il bavaglio” alla libertà di espressione in omaggio a chissà quali complotti, pretenda che i blog siano registrati proprio come una testata giornalistica.
E’ vero esattamente il contrario: il blog di Carlo Ruta, pregevole esempio di informazione, rientra, di fatto, nella categoria delle testate giornalistiche e, come tale, dicono i giudici, non può che registrarsi e avere un direttore responsabile. Altro che sconfitta e rischio di bavaglio: è un meritato riconoscimento professionale per Carlo Ruta.
Dove sta scritto che registrarsi e avere un direttore responsabile equivalga a non poter manifestare liberamente il proprio pensiero?
Basta leggere la sentenza del 2008, che alleghiamo a questo articolo e che è stata confermata in appello, per capire di cosa stiamo parlando.
La libertà d’espressione
Purtroppo – o per fortuna: io dico per fortuna – nel nostro Paese, che ha un sistema giuridico complesso e tutto codificato, la libertà d’espressione è una categoria che comprende due specie di libertà diverse: la libertà di dire ciò che si ritiene, ossia la libertà di parola (salvo a risponderne in caso di ingiurie, calunnie o diffamazioni) e la libertà di scrivere ciò che si vuole (alle stesse condizioni, ossia assumendosi le responsabilità conseguenti, nel bene e nel male).
Mentre la libertà di parola è… (scusate il bisticcio di parole) libera, cioè non deve rispettare determinate forme, la libertà di scrivere è, per così dire, incanalata, regolamentata, dalla legge sulla stampa o dalle norme sull’editoria.
Che piaccia o no, questo è il dato giuridico di partenza. Se non piace, allora la battaglia va fatta contro la legge e non contro la sua applicazione.
Mi spiego: sul piano della filosofia del diritto, si è ritenuto, fin dalla rifondazione del corpus giuridico post-monarchia (e post regime fascista), che mentre la libertà di parola può essere esercitata più… liberamente (perché, come si dice, verba volant), la libertà di scrittura ha bisogno, allo stesso tempo, da un lato di maggiori garanzie e dall’altro di maggiore attenzione (sempre per restare alle citazioni popolari: ne uccide più la penna che la spada).
L’ufficialità di chi scrive
Si è deciso allora, e fino all’avvento di internet questa decisione non ha mai rappresentato un problema, che chi scrive deve essere, per così dire, ufficializzato. Questa ufficializzazione, questa “istituzionalizzazione”, passa per la registrazione in un “libro” depositato nei tribunali di tutto il Paese. Dove gli editori, ossia coloro che fanno da tramite fra chi scrive e chi legge, devono essere registrati. Qualunque specie di editori: da quelli che pubblicano bollettini d’informazione agli editori dei giornali (quotidiani o periodici, dove la periodicità può anche essere una volta all’anno: ricordiamolo questo dettaglio perché sarà utile più avanti), passando per gli editori librari. Addirittura chi pubblica libri è ancora oggi obbligato, ad ogni pubblicazione, a mandarne tre copie alle Prefetture che, non dimentichiamolo, sono gli uffici del Governo sul territorio.
Si potrebbe agevolmente sostenere che si tratta di un retaggio liberticida, fascista, di un modo per controllare ciò che viene scritto, ma intanto è così. In realtà, come è ovvio, la previsione ha assunto un valore semplicemente burocratico: nessuno si sognerebbe di leggere davvero una di quelle tre copie e di intervenire per bloccarne la diffusione ulteriore.
Ciò che conta, in questi casi, non è ciò che accade in realtà, ma ciò che potenzialmente potrebbe accadere visto che gli strumenti giuridici lo consentirebbero.
E allora bisogna chiedersi: perché? (“perché” è la domanda più semplice in assoluto, quella che si fanno i bambini già a due anni, ma che però troppo spesso viene sottovalutata). Perché per la stampa valgono, ancora oggi, queste regole?
Se si leggono le analisi di filosofia del diritto relative alle leggi sulla stampa, la stampa di qualunque genere, si trova una risposta a questa domanda.
E, di conseguenza, si trova una risposta anche agli interrogativi suscitati da sentenze come quella che ha “colpito” il blog di Carlo Ruta (che, va detto, non è la prima del genere: non molto tempo fa accadde la stessa cosa al blog dell’Associazione consumatori).
Tutela e garanzie
I legislatori (dunque i rappresentanti del popolo, che sul piano giuridico astratto agiscono per conto e nell’interesse di quest’ultimo, e anche questo non dimentichiamolo) hanno ritenuto che fosse opportuno assicurare una maggiore tutela a tutti coloro che potrebbero essere colpiti da un esercizio non corretto della libertà di scrittura.
In particolare si è stabilito, fin dal 1948, che se deve essere garantita a chiunque la possibilità di scrivere ciò che vuole, è vero anche che in considerazione del “peso” che possono avere (e che purtroppo in parte non hanno più) le parole stampate (come si diceva una volta? “Parla come un libro stampato”), è preferibile che la responsabilità connessa a questa libertà venga, per così dire, ripartita tra colui che scrive, l’editore che pubblica e, nel caso della stampa (quotidiana o periodica, via etere o su carta, non c’è differenza), il direttore responsabile che funge da ulteriore garanzia di verifica della correttezza di ciò che viene scritto.
In poche parole: si chiede che chi scrive garantisca una certa dose di professionalità. Ecco perché nel caso della stampa viene inserita una terza figura di garanzia che è il direttore responsabile: perché la stampa, tra le varie forme di divulgazione del pensiero, è quella considerata di maggiore impatto e dunque, potenzialmente, capace – se non correttamente gestita: dove “correttamente” non dovrà mai significare in modo accondiscendente o compiacente ma semplicemente con rispetto della verità e delle libere opinioni giustificate dai fatti e dalla loro connessione – potenzialmente capace, dicevamo, di produrre il maggior danno. E questo valorizzare la scrittura, l’importanza della parola scritta, non può che far piacere (non dovrebbe che far piacere) a chi scrive.
In questo modo, come sempre nei sistemi giuridici codificati, si è pensato di raggiungere quello che sembrava essere il migliore, tra i possibili, bilanciamento di interessi.
Registrazione e non autorizzazione
Perciò da un lato la registrazione della stampa (testata giornalistica o semplicemente editoriale poco importa) non deve essere confusa con un’autorizzazione (la Costituzione precisa, anzi, che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e il fatto che lo dica la Costituzione fa capire come i nostri legislatori dell’epoca avessero ben chiara l’importanza della materia), di talché chiunque chieda ad un qualunque tribunale di registrarsi come editore non deve temere un diniego, anche se chiedesse di registrare una pubblicazione erotica – purché senza uso di immagini relative a minori o di violenza – o di politica estremista, purché senza istigazione al terrorismo o alla sovversione armata o genericamente violenta, al di fuori del sistema democratico.
Per giunta, viene garantita la possibilità di registrarsi senza oneri eccessivi: attualmente basta costituire una ditta individuale che svolga il ruolo di editore, indicare uno stampatore se si tratta di carta o un provider (tipo Aruba, per esempio) se si tratta di internet, il nome della testata che in questo modo diventa esclusivo e nessun altro potrà utilizzarlo, e un direttore responsabile. Il quale, per la legge sulla stampa, deve essere almeno un pubblicista. Ossia un giornalista non professionista ma iscritto nel registro pubblicisti, al quale si accede dopo due anni e 70 articoli pubblicati e retribuiti almeno 40 euro ad articolo. Il costo complessivo della registrazione, tra tasse e spese di costituzione della ditta individuale con partita Iva (se non esiste già) è inferiore ai 400 euro.
Dobbiamo ammettere che non si tratta di condizioni capestro. Anche se, certo, sarebbe preferibile nessuna condizione. Tuttavia, come abbiamo visto, proprio l’importanza, il rilievo costituzionale del mezzo che ci si accinge ad adoperare, ha suggerito al legislatore l’opportunità di fissare delle condizioni minime che abbiano anche lo scopo di richiamare l’attenzione sulla responsabilità che questa libertà comporta. E’ un po’ come la patente di guida: tutti hanno il diritto di averla a patto però che dimostrino di aver capito come si deve – si dovrebbe – usare.
Il bilanciamento degli interessi
Proprio perché la libertà di scrivere ciò che si pensa è un’arma potente, che può essere usata a difesa della democrazia ma anche, come la storia insegna, contro di essa, si è pensato che sia giusto rispettare delle regole di base per poterla esercitare.
Attenzione: queste regole, se da un lato possono apparire afflittive e limitative, dall’altro – ecco il bilanciamento – offrono anche delle garanzie. La stampa non si può censurare, non si può, appunto, oscurare, come fosse una qualunque vox clamantis in deserto. Deve essere rispettata e per quanto possa essere perseguitata, denunciata, querelata, messa in difficoltà, ma non può mai essere chiusa, zittita (almeno ufficialmente, nel rispetto della legge). Come recita la battuta conclusiva del film “L’ultima minaccia” (Usa, 1952): “E’ la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente!”.
La giurisprudenza formatasi sulla base della legge del 1948, spiega che chi esercita “di fatto” un’attività equiparabile a quella della stampa senza aver rispettato le regole di base, venga qualificato come responsabile di stampa clandestina. Che in quanto tale deve essere bloccata.
Stampa clandestina e astrazione della legge
Perché la legge viaggia su binari astratti e guai se non fosse così. Quando non è più così si producono le leggi ad personam. Stampa clandestina può essere un foglio pubblicato da un terrorista che incita alla rivolta armata contro la democrazia, può essere un giornale di propaganda razzista, può essere una rivista che pubblica foto per pedofili. In tutti questi casi gli “editori” di questa stampa non avrebbero comunque potuto registrarsi e quindi godere di quelle garanzie previste per le stampa perché le loro caratteristiche non avrebbero consentito la registrazione. Nessuna attività contro la legge può essere ammessa a godere dei diritti e dei benefici previsti per tutte le altre. Non sarebbe giusto. Per questa stessa ragione anche un contratto che ha come oggetto della prestazione qualcosa di illegale è nullo. Nel senso che fintantoché nessuno si oppone può anche produrre degli effetti ma basta che chiunque segnali l’illeceità dell’oggetto perché la giustizia intervenga a cancellarlo e, se del caso, a punire le parti in causa.
Il caso del blog Accade in Sicilia
A questo punto è più facile esaminare e valutare il caso del blog “Accade in Sicilia” di Carlo Ruta. Un caso che, sul piano suggestivo, lascia indubbiamente perplessi. Ma sul piano giuridico è molto più chiaro.
Sotto la testata del blog si legge: “Giornale di informazione civile”. Già questo è un autogol se non si vogliono rispettare le regole sulla registrazione della stampa.
Intendiamoci, non dico affatto che siano regole giuste. Chi mi conosce sa che sono razionale e coerente fino alla noia: le regole possono anche essere sbagliate, possiamo anche non condividerle, ma se non le condividiamo, e siamo liberi di farlo – anche in questo caso la libertà conta – allora è nostro compito combatterle con gli strumenti giusti. Se invece decidiamo di provare a “forzare il blocco” non possiamo poi lamentarci se il “sistema” reagisce applicandole.
Il paradosso – vale la pena di rifletterci: anche questo è figlio della filosofia del diritto – è che la libertà di agire contro le regole è resa possibile proprio dall’esistenza delle regole: nel Cile di Pinochet, nella Libia di Gheddafi, nella Spagna di Franco, nell’Italia di Mussolini, queste regole erano meno forti o non c’erano affatto e capitava così che perfino chi fosse registrato come editore, stampatore, giornalista, o addirittura avesse le garanzie del deputato, come Giacomo Matteotti, potesse essere zittito anche con la violenza.
Forma e sostanza
In Italia chi di fatto esercita un’attività giornalistica – assolutamente legittima e, come nel caso di Carlo Ruta, meritoria – senza rispettare le regole non viene ucciso o lanciato in mare dagli aerei, ma condannato ad una sanzione di 150 euro e il suo giornale – il suo sito – viene oscurato. Perché, al di fuori di quelle regole, equivale alla stampa clandestina. L’equivalenza è nelle forme, certo, non nei contenuti se vogliamo restare agli esempi di stampa clandestina che abbiamo citato prima. Ma nel nostro diritto, un diritto codificato e dunque formale, la forma è anche – sebbene non solo – sostanza. Nell’Antigone, la tragedia di Sofocle, viene esemplificato in modo sublime il concetto di forma e sostanza: Antigone decide di sfidare il re, Creonte, e dare degna sepoltura al fratello Polinice che, in quanto considerato nemico della patria perché, in realtà, aveva provato a cacciare Creonte che era un usurpatore, avrebbe dovuto essere lasciato senza sepoltura fuori dalle mura della città. Mentre seppellisce il fratello, Antigone viene scoperta e processata. Sofocle, che come tutti gli antichi greci aveva in grande considerazione le leggi divine rispetto a quelle umane (e anche perché, diciamo la verità, se avesse fatto finire la storia diversamente nessuno sarebbe andato a teatro), chiude il processo con l’assoluzione di Antigone grazie all’arringa difensiva dell’indovino Tiresia che convince Creonte ricordandogli che l’amore fraterno è sacro agli Dei e una sentenza di condanna di Antigone avrebbe portato solo sciagure sul suo regno. Tanto che il re usurpatore, alla fine, si uccide rivolgendosi così ai servi: “E ora ripulite questo luogo da un buono a nulla”. Insomma, altro che un passo indietro, come dovrebbe fare qualcuno dei nostri contemporanei. Ma per questo quelle di Sofocle erano tragedie. Altrimenti il grande scrittore greco sarebbe finito a fare l’autore di Zelig.
Ai nostri tempi invece, in Italia, un gesto come quello di Antigone – che in ogni caso, sebbene la legge fosse ingiusta in quanto voluta da un tiranno usurpatore come Creonte, quella regola aveva comunque violato – sarebbe stato sì condannato, ma con l’attenuante speciale prevista dal nostro codice penale del “particolare valore morale” del gesto. In pratica: la legge, la regola è stata violata ma per una buona causa. Questo comporta che l’assoluzione piena è impossibile, perché altrimenti la regola negherebbe se stessa, ma una condanna a 3 mesi con il beneficio della sospensione e della non menzione sul casellario giudiziale rappresenta un equo bilanciamento di interessi. Direbbe la saggezza popolare: salva capra e cavoli. E tutto sommato garantisce da un lato il diritto, che in astratto è scudo della democrazia, e dall’altro il… diritto di non rispettarlo quando non risponde ai sentimenti reali, alla morale comune. E’ come se il diritto dicesse: non posso dire che avete fatto bene a ignorarmi, ma ammetto anche io i miei limiti e… ci penserò.
La differenza tra censura e oscuramento
Scusate la digressione. Torniamo a Carlo Ruta e al blog “Accade in Sicilia”. Il blog è stato oscurato. Attenzione: oscurato non vuol dire censurato: la censura lascia in piedi lo strumento obbligandolo a tacere ciò che è scomodo, l’oscuramento significa che lo strumento, indipendentemente da ciò che dice, non rispetta le regole fissate per poterlo dire. Non è una differenza di poco conto. La censura p come un muro di gomma. L’oscuramento è qualcosa di più tangibile contro il quale ci sono dei rimedi. Tanto per cominciare riaprirlo registrandolo come testata giornalistica. Sarebbe il modo migliore per… (scusate se può sembrare greve) metterlo a quel posto a chi si nasconde dietro le regole formali per raggiungere altri obiettivi.
E siamo al punto che, capisco benissimo, suscita le reazioni indignate: la verità è che non c’entra nulla l’amore per le regole e il rispetto delle forme. La verità è che ciò che si diceva dava fastidio a qualcuno.
Sono convinto che sia così. Però ragioniamo: se ciò che si diceva dava fastidio a qualcuno significa che non si trattava di una semplice raccolta di materiali d’archivio già pubblicati altrove. Ma di qualcosa di più. E infatti sul blog c’erano pregevolissime riflessioni, accostamenti, relazioni tra fatti, a cura di Carlo Ruta. A cui va tutta la mia stima.
Perché ciò che fa Carlo Ruta è esattamente ciò che dovrebbe essere informazione: non già un elenzo di notizie, come fosse un insaccato, un minestrone. Ma un “percorso ragionato” (come dicono quelli che credono di parlare elegante) tra le notizie. L’informazione è memoria storica, riflessione, collegamenti.
E per quanto riguarda la periodicità dell’aggiornamento, che lo stesso autore ha precisato essere casuale, questo non sposta – in termini di… semantica giuridica – il problema. Un “periodo” non deve essere necessariamente regolare. Il periodo, genericamente, è l’intervallo di tempo che intercorre tra due azioni analoghe. Il periodo è, genericamente, una sequenza e qualunque sequenza può anche essere casuale ma non per questo smette di essere sequenza.
Notizie e informazione
Tra notizie e informazione passa la stessa differenza che c’è fra la tavolozza di colori e il quadro, il pentagramma e la sinfonia, il vocabolario e il libro. Il pittore tira fuori i quadri, potenzialmente infiniti e dalle infinite emozioni, da colori non solo finiti ma anche quantitativamente limitati. Bach tirava fuori le sue composizioni mettendo insieme le stesse sette note che altri adoperano per cantare “tanti auguri a te”. Torquato Tasso ha tirato fuori la Gerusalemme Liberata dallo stesso vocabolario che chiunque di noi può leggere. Ma anche se lo leggessimo per tutta la vita e lo imparassimo magari a memoria, dubito che riusciremmo a scrivere la Gerusalemme Liberata. Come disse Anatole France, “nel vocabolario esistono tutti i libri, passati e futuri”.
Il blog di Carlo Ruta, il suo “Giornale di informazione civile”, riusciva ad essere migliore di tanti altri giornali. Ad esempio quando ha raccontato della figura, assai discutibile, dell’imprenditore siciliano Umberto Carbone, morto suicida, che ha lasciato un testamento video molto imbarazzante per il potentissimo gruppo bancario Antonveneta. Gli articoli, firmati sul blog da Carlo Ruta sono precisi e intelligenti, riescono a non farsi abbagliare dalle presunte notizie e colgono il filo d’Arianna dell’informazione.
Insomma: siccome giornalismo è sostanza prima che forma, ci si trova a dover rispettare le forme previste per la pubblicazione giornalistica. Può sembrare un bizantinismo, ma questa è la conseguenza non di una singola legge o di una singola sentenza, ma della filosofia di tutto il nostro sistema giuridico.
Giornalismo di sostanza e non di forma
La sentenza di condanna dice una cosa, su tutte le altre: si tratta di articoli, di attività giornalistica. Che si chiami blog conta poco. Guai se fosse necessario definire il giornalismo soltanto sulla base dell’iscrizione all’albo di chi scrive. Giornalisti – questa volta conta la sostanza più della forma – sono tutti coloro che fanno informazione. Per converso bisognerebbe cancellare dall’albo dei giornalisti molti soggetti che circolano per le redazioni da una quindicina d’anni a questa parte.
E anche questo concetto è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza. A tutela e garanzia dell’informazione, altro che storie! Ci sono giornalisti che hanno conquistato l’iscrizione all’albo dopo aver lavorato per programmi e pubblicazioni che di giornalistico, ufficialmente, non avevano nulla. Ma i loro ricorsi sono stati accolti: se di fatto il lavoro è giornalistico, è stato scritto, l’Ordine dei giornalisti ha l’obbligo di iscriverli nell’albo, anche in mancanza di un contratto specifico.
Questo significa valorizzazione della professionalità e queste sentenze sono state accolte come una fortissima garanzia del difficile lavoro del giornalista che, prima ancora di essere un impiego con uno stipendio, è un modo di contribuire alla crescita di un popolo e di una democrazia.
E allora: se queste sentenze ci piacciono, non possiamo poi pretendere che di fronte a un’attività giornalistica, peraltro meritevole, quella stessa giustizia faccia finta di nulla, dimentichi le regole che – comunque sia – sono poste a tutela della società ma anche a garanzia della stampa, come abbiamo visto, e lasci correre il fatto che quel “Giornale di informazione civile” non aveva rispettato le banali prescrizioni fissate per la stampa.
Lo so che ora ci sarà qualcuno che mi accuserà di essere un difensore della “casta” dei giornalisti, di voler sottrarre a chi non è giornalista la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero.
Chi dovesse accusarmi di questo dimostrerebbe di non saper leggere: ho detto chiaramente, infatti, che proprio perché tutti possono e devono essere liberi di scrivere ciò che ritengono giusto, è sufficiente – per non offrire un alibi al… nemico – rispettare quelle semplici regole e continuare a fare ciò che si crede giusto.
Fermo restando che libertà non è necessariamente rispettare le regole (proprio come non è star sopra un albero, come non è neanche il volo di un moscone) ma, obbligatoriamente, è assumersi le conseguenze delle proprie scelte. In questo caso la conseguenza, prevedibile, è stata l’oscuramento.
Poco male: “Accade in Sicilia” è un bel nome per una testata giornalistica. Mi auguro che Carlo Ruta la registri (risparmiando i soldi del ricorso in Cassazione che, se la sentenza d’appello fosse motivata bene, come credo, sarebbe giudicato addirittura inammissibile con conseguente condanna al pagamento di duemila euro alla cassa delle ammende) e metta a tacere quei mafiosi dal colletto bianco (il riferimento naturalmente è generico e non certo diretto a coloro che hanno querelato per diffamazione Carlo Ruta ritenendosi offesi nella reputazione e, tra l’altro, hanno evidenziato anche la mancanza dei requisiti previsti per una testata giornalistica) che hanno approfittato della mancanza di forma per colpire la sostanza.
La condanna
Vi invito però a non prendervela troppo con i giudici (almeno in questo caso): la sentenza dimostra che non avevano cattive intenzioni. L’articolo 16 della legge sulla stampa (la legge 47 del 1948) stabilisce che i responsabili di stampa clandestina possono essere puniti o con la reclusione fino a 2 anni, o con l’ammenda fino a 700mila lire: un’ammenda di 150 euro non è gran cosa se si considera che l’oscuramento è una sanzione accessoria obbligatoria, non una scelta del giudice.
In questo senso, ancora una volta, lo starnazzare di presunti opinionisti che hanno subito costruito lo slogan: avere un diario in internet è stampa clandestina, è esempio di grande stupidità.
Per fortuna quello di Carlo Ruta non era un diario, era una fonte di preziose informazioni.
Perché i giornalisti, per anni, si sono battuti strenuamente per affermare il principio secono cui a chi fa informazione non può essere impedito di procedere ad accostamenti, deduzioni, collegamenti. A patto che non siano frutto di pura fantasia.
Proprio come il giornale di Carlo Ruta. Indipendentemente dalle ragioni, senza dubbio pretestuose e ipocrite, che hanno indotto qualcuno a rivolgersi ai giudici per colpire Carlo Ruta, di fronte ad un’attività di informazione, addirittura giustamente rivendicata nelle interviste dallo stesso Ruta, quei giudici non hanno potuto fare a meno di rilevare la mancanza dei requisiti formali che un giornale deve possedere. Che hanno il loro peso. Fin dai tempi di Sofocle e Antigone.
Tribunale di Modica, sentenza 8 maggio 2008, obbligo di registrazione per le testate giornalistiche, applicazione ai blog che di fatto svolgono attività giornalistica