Il ministero della Giustizia dichiara di voler affrontare il gravissimo problema degli indennizzi per l’eccessiva durata dei processi ma i rimedi non risolveranno nulla. Anzi, ignorano l’unica soluzione possibile: la compensazione fra tasse e risarcimenti.

Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo annuncia un decreto che consentirà di liquidare in “via amministrativa” le somme riconosciute ai cittadini vittime dell’eccessiva durata dei processi. Senza cioè ricorrere ai giudici. Il rappresentante del governo ha sbandierato la brillante idea nel corso del Forum Pa svoltosi a Roma.
In sostanza, secondo il governo (che già confonde la necessità di celebrare i processi in tempi ragionevoli con l’occasione per cancellarli), basta cambiare il modo di pagare l’indennizzo per avviare a soluzione il problema.
Il buon Caliendo finge di ignorare (se lo ignorasse davvero sarebbe assai più grave) che il punto non è come pagare gli indennizzi ma, per il futuro, come fare a non doverli pagare. E per il passato, cioè per gli enormi arretrati, dove trovare i soldi per pagarli.
Il decreto annunciato
Così parlò il sottosegretario: “Nelle prossime settimane arriverà un decreto, che farà parte della misure che la giustizia offre al decreto sviluppo che modificherà la disciplina che regola il pagamento dell’indennizzo in nome della Legge Pinto. Il problema principale – dice in sintesi Caliendo – è legato all’entità dei rimborsi: ogni anno ci sono circa diecimila cause che chiedono alle corti d’appello di liquidare indennizzi per eccessiva durata che fino ad ora hanno prodotto indennizzi per circa 100 milioni di euro. C’è poi il nodo dell’accumularsi di procedimenti: per chiedere l’indennizzo serve una causa ma anche queste cause sono lente e producono a loro volta altre richieste di indennizzo. Per evitare tutto questo il decreto introdurrà il risarcimento per via amministrativa, lasciando al presidente della Corte d’appello o a un suo delegato il compito di individuare i casi più complessi da trattare con un procedimento vero e proprio mentre per tutti gli altri si dovrebbe procedere direttamente al pagamento. Tra le ipotesi c’è poi quella di un’istanza tempestiva, da presentare sei mesi prima che scada il tempo ragionevole di durata del processo. Infine saranno previsti degli abbattimenti dell’indennizzo per chi ha perso la causa, anche se è durata troppo a lungo”.
Gli errori
Se questa è l’intenzione del governo, come descritta dal sottosegretario e prontamente riportata dalla stampa (il cioccolatino Perugina è il migliore del mondo…), senza alcun tentativo di comprendere la questione, si tratta dell’ennesima idiozia.
Tralasciamo l’idea strampalata di ridurre gli indennizzi per chi ha perso la causa: sarebbe del tutto incostituzionale. Dove sta scritto che chi perde la causa non ha il diritto ad una risposta della giustizia in tempi ragionevoli?
Parliamo invece della realtà.
Il ministero della Giustizia sono anni che paga una minima parte degli indennizzi liquidati dalle varie corti d’appello e dalla Cassazione. Per questo si è accumulato un debito arretrato di quasi 100 milioni di euro. Dunque non è vero che le 10mila cause all’anno producono ogni anno un “volume” di indennizzi pari a 100 milioni. E’ vero invece, come risulta chiaramente dagli atti del ministero, se qualcuno li leggesse, che ogni anno lo Stato viene condannato a pagare indennizzi per l’eccessiva durata dei processi (penali, civili e amministrativi e non solo civili come sembra credere il sottosegretario) per un totale di circa 20 milioni di euro.
Il punto è che la Giustizia non riceve i fondi necessari a pagare questi 20 milioni di euro.
Perché da 10 anni, cioè da quando è stato riformato, nel 2001, il meccanismo delle spese di giustizia, i soldi del cosiddetto contributo unificato, ossia i soldi che i cittadini pagano acquistando le marche giudiziarie, non vanno e non sono mai andati alla Giustizia.
Ma se li è “fregati” l’Economia.
Come funziona il contributo unificato
Mentre una volta le marche giudiziarie si compravano dai cancellieri, che dunque ne portavano il conto man mano che le vendevano, dal 2001 si acquistano in tabaccheria o dai rivenditori pubblici attraverso gli apparecchi della Lottomatica. Che non sono collegati con l’amministrazione della giustizia, ma direttamente con l’Economia. Dunque la giustizia non sa quanti soldi deve avere, quante marche sono state comprate. A meno di non voler controllare documento per documento i diversi importi delle marche che ci sono incollate sopra, e segnarsi il totale. Ciò dovrebbe essere fatto in tutti anche i più piccoli uffici giudiziari, minuto per minuto, e poi ogni mese raccogliere i totali e spedirli alla contabilità della giustizia a Roma.
Capirete bene che è impossibile.
E allora cosa succede? Succede che la giustizia viene a sapere quanto deve avere dall’Economia, cioè quanto l’Economia ha incassato per conto della giustizia attraverso l’acquisto delle marche giudiziarie da parte di avvocati e cittadini di tutta Italia, soltanto all’inizio di ciascun anno, con riferimento però all’incasso dell’anno precedente.
Ma la legge sul contributo unificato, quella che regola l’acquisto delle marche giudiziarie e ne fissa gli importi a seconda del tipo di causa e del tipo di documento, si è… “dimenticata” di prevedere che le somme che spettano alla giustizia possano essere chieste l’anno successivo per il precedente.
In parole povere: quando a via Arenula scoprono quanto dovrebbero avere è già troppo tardi per chiederlo.
Così si è risolto con un trucco all’italiana: la giustizia dice all’Economia, siccome mi avresti dovuto dare, per esempio, 30 milioni di euro provenienti dalle spese di giustizia ma io non posso più chiederteli, mi vuoi stornare dal tuo bilancio 30 milioni di euro per le mie esigenze?
Sembra uno scherzo ma non è così: sul piano giuridico i soldi che vengono richiesti in questo modo non sono più qualificati come partita di cassa – per la quale c’è un termine per la richiesta – ma come storno di bilancio, dove il termine non c’è più.
Peccato però che di fronte a una richiesta di storno di bilancio, a differenza di una richiesta di giro di cassa, l’Economia non sia obbligata ad accoglierla. Nel senso che può sempre dire: senti, tesoro, questo è un periodaccio, voglio pure venirti incontro, ma 30 milioni non se ne parla proprio: te ne posso dare 15.
E la giustizia si deve accontentare.
Infatti sono anni che il ministero di via Arenula riceve dall’Economia poco più della metà del suo fabbisogno annuale. Quindi non solo non pagano i debiti arretrati, ma ogni anno quei debiti crescono sempre più.
E’ questa la vera causa degli arretrati arretrati da un lato e dell’impossibilità di far fronte ai nuovi pagamenti dall’altro.
Così stando le cose, è chiaro a tutti – sarebbe chiaro a tutti se il sottosegretario avesse detto la verità – che cambiare il metodo di pagamento non risolve niente. Se i soldi non ci sono il debito continuerà a crescere, quale che sia la procedura per pagarlo.
Gli indennizzi sugli indennizzi
Per quanto riguarda poi le cause in nome della Pinto avviate per i ritardi nella decisione degli stessi ricorsi presentati per ottenere l’indennizzo, anche qui le cose stanno in altro modo.
Una premessa. Per chi non lo sapesse, funziona (dovrebbe funzionare) così: se un processo dura troppo (i limiti di durata sono fissati dai parametri europei, perché anche se sembriamo Africa del nord siamo comunque in Europa: 3 anni il primo grado, 2 il secondo, 1 il terzo), le parti del processo, alla fine, possono chiedere alla corte d’appello di liquidare l’indennizzo (se non si dimostrano danni particolari provocati dall’eccessiva durata l’indennizzo va dagli 800 ai mille euro per ogni anno oltre i 6 totali). La corte d’appello dovrebbe decidere in 4, massimo 6 mesi. In teoria.
In pratica la maggior parte delle corti impiegano due o tre anni. A questo punto, ottenuto il decreto che condanna il ministero a pagare il primo indennizzo, si può fare un altro ricorso per ottenerne un secondo in base al fatto che la corte d’appello non ha rispettato i tempi.
Questo secondo ricorso però, spesso, viene presentato alla Corte dei diritti dell’Uomo, e non alla giustizia italiana. Che puntualmente condanna l’Italia a pagare, oltre al nuovo indennizzo, anche multe salatissime per essersi fatta beffe della civiltà europea.
Di conseguenza il lievitare delle somme da pagare è dovuto per la quasi totalità ai ritardi dello Stato che fanno aumentare interessi, spese di procedimento, rivalutazione e, per giunta, provocano multe.
Per affrontare il problema basterebbe imporre a tutte le corti d’appello di delegare un numero adeguato di magistrati a trattare i ricorsi in modo da non allungare i tempi. Un tentativo in questo senso fatto l’anno scorso dall’allora Capo dipartimento degli Affari di Giustizia del ministero è rimasto praticamente inascoltato. Alle circolari che sono state diramate (e che potete scaricare dagli allegati a questo articolo) hanno risposto sette o otto corti d’appello su quasi 30 (Roma, per esempio, non ha risposto).
Il ministro, dal suo canto, sempre pronto a scendere in campo per altro, è rimasto indifferente a questa… indifferenza.
I pignoramenti
Di fronte a questa montagna di debiti i creditori, cioè i cittadini che hanno in mano un decreto in forza del quale il ministero della Giustizia dovrebbe pagare l’indennizzo, hanno cominciato, già da alcuni anni, a pignorare i fondi ministeriali. Tanto che ad un certo punto il ministero si è visto costretto a proteggere almeno i fondi per gli stipendi del personale con un decreto ad hoc che ne dichiara l’impignorabilità.
Per evitare che tutti ricorressero alla Corte dei diritti dell’Uomo in Europa e che fioccassero migliaia di condanne sullo Stato italiano, nel 2007 la Finanziaria ha previsto che chi ha un credito verso la Giustizia può chiederne il pagamento direttamente all’Economia.
Ma nemmeno l’Economia ha mai pagato. E così si è arrivati ai pignoramenti dei conti dello Stato presso la Banca d’Italia e le Tesorerie centrali.
Facile immaginare che un procedimento esecutivo così complesso provochi a sua volta l’aumento delle spese e del debito conseguente. Se chi deve avere, ad esempio, 5mila euro, è costretto prima a notificare un decreto ingiuntivo alla Giustizia, poi un altro all’Economia, poi un terzo alla Banca d’Italia e per finire avviare un procedimento di pignoramento presso terzi delle somme depositate alle Tesorerie sui conti dello Stato, si arriva alla conclusione che quei 5mila euro sono diventati tra spese, interessi, rivalutazione, anche 15mila.
E allora si vede chiaramente che il debito della Pinto, di 100 milioni di euro in crescita annuale, per un terzo è dovuto materialmente agli indennizzi ma per altri due terzi poggia sull’aumento delle spese a loro volta provocate dal comportamento inqualificabile dello Stato.
La soluzione possibile
Nonostante ci siano tanti “cervelli” che studiano, nessuno si è mai preoccupato di trovare una soluzione reale. Eppure sono mesi che negli uffici delle direzioni generali di via Arenula se ne parla. Senza, però, che nessuno dei vertici si preoccupi di valutarla seriamente.
La soluzione è questa: premesso che ormai è un dato di fatto che lo Stato è in bolletta, e che in particolare la giustizia non ha più i soldi nemmeno per la manutenzione delle attrezzature, basterebbe modificare invece che le procedure della Legge Pinto, le norme fiscali.
Basterebbe introdurre la possibilità, per i cittadini, di compensare il credito che hanno maturato in nome della Legge Pinto con le tasse, di qualunque tipo, che devono pagare.
Naturalmente imposte destinate allo Stato, non quelle delle regioni o comunali.
Imposte sul reddito delle persone fisiche o giuridiche, accise varie, ritenute d’acconto e così via.
In fondo, si tratta in entrambi i casi di crediti certi, liquidi ed esigibili. Da un lato soldi che lo Stato deve dare al cittadino, dall’altro soldi che il cittadino deve dare allo Stato.
Si potrebbe così stabilire che tutti restano liberi di continuare a provare ad avere materialmente il denaro ma che, in questo caso, non hanno più diritto agli interessi sulla sorta capitale, ossia sull’indennizzo che è stato riconosciuto.
In pratica: Antonio Rossi deve avere un indennizzo di 5mila euro. Può scalarlo integralmente dalle tasse che deve pagare, e se deve pagare meno di 5mila euro scala anche dall’anno o dagli anni successivi così che per uno o più anni non paga tasse. Può invece rinunciare a questa opportunità e insistere per farsi pagare. In questo caso però non gli saranno riconosciuti ulteriori interessi, spese e rivalutazioni per tutto il tempo che impiegherà: Cinquemila euro erano e 5mila resteranno. Si tratta di una sua scelta e questa scelta può legittimamente prevedere un “costo” che di fatto è un risparmio per lo Stato.
Non ci sarebbe nulla di incostituzionale, molto probabilmente la maggior parte dei creditori preferirà risparmiare subito sulle tasse invece che sperare un giorno di ricevere una certa somma, e in poco tempo si ridurrebbe sensibilmente sia il debito pregresso sia l’accumularsi del nuovo.
Per fare questa riforma però non servono parole sparse al Forum Pa ma accordo tra ministeri del governo e capacità legislativa.
Ingredienti che negli ultimi tempi scarseggiano.

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