Jonathan ha un nome da portafortuna. Da un paio di settimane è il presidente della repubblica nigeriana, il primo cristiano a vincere le elezioni in un Paese a maggioranza musulmana, e il primo a provenire da uno Stato del Sud, quelli del Delta del Niger ricchi di immense risorse petrolifere.

 

Colto, riservato, estraneo agli ambienti militari, cinquantatreenne, una moglie molto presente, due figli, di etnia Ijaw, laureato in veterinaria, Goodluck Jonathan viene definito un “politico per caso”. Figlio di umili costruttori di canoe, si è dedicato agli studi e all’insegnamento fino a 41 anni, poi si è candidato al parlamento dello Stato di Bayelsa in cui è nato ed è diventato deputato federale. Nel 2005 inizia la sua ascesa, apparentemente favorita dal caso. Il governatore di Bayelsa viene indagato per corruzione e Jonathan, da vice, si ritrova sulla poltrona più importante della regione. Pochi mesi dopo anche la moglie di Jonathan, Patience Faka, finisce sotto inchiesta per esportazione illegale di 13 milioni di dollari, ma viene prosciolta. Trascorre qualche anno e Goodluck Jonathan riceve la nomina di vice del presidente della repubblica Umaru Musa Yar’Adua eletto nel 2007. È la tornata elettorale peggiore dal punto di vista dei brogli, a detta degli osservatori internazionali, ma la figura di Jonathan non sembra risentirne anzi incrementa la sua popolarità mettendo a segno una delicata trattativa con i guerriglieri del Mend che in cambio di un’amnistia porta alla sospensione di tutti gli atti di sabotaggio contro le società petrolifere internazionali presenti sul territorio. Gli attivisti del Delta del Niger che accusano le multinazionali di depredare il Paese, avvantaggiandosi delle enormi ricchezze energetiche, corrompendo gli amministratori locali e lasciando la popolazione affamata e ammalata in un ambiente sempre più inquinato, cessano di causare grosse perdite di greggio dagli impianti e sospendono anche i sequestri di persone, in maggioranza tecnici stranieri alle dipendenze delle aziende, Eni inclusa.
Quando muore il presidente Yar’Adua, dopo una lunga malattia che lo ha portato al ricovero in un centro medico in Arabia Saudita, Jonathan ne prende il posto. È il 6 maggio 2010. L’incarico è fino alle successive elezioni.
Contrasti interni.
La Nigeria conta 36 Stati, 250 etnie e due religioni più diffuse: quella islamica è predominante e radicata principalmente al Nord, l’area più ricca e sviluppata del Paese; quella cristiana, in cui è presente anche una minoranza cattolica, è invece diffusa al Sud, la regione petrolifera socialmente più arretrata e degradata. Il Pdp, partito democratico popolare, vincitore in tutte le tornate elettorali svolte dal 1999, anno in cui il Paese esce da un quarantennio di dittature militari, per far fronte ai regionalismi e alle infinite divisioni interne ha previsto di alternare alla candidatura delle presidenziali un esponente del Nord musulmano a uno del Sud cristiano. La morte del musulmano Yar’Adua e l’insediamento del cristiano Jonathan che gli succede senza vincere le elezioni mette però in crisi il partito che si spacca. Il gruppo di leader musulmani sostiene che i cristiani hanno già coperto il loro turno e designano Atiku Abubakar come candidato per le presidenziali. Per i sostenitori di Jonathan, invece, l’alternanza deve essere considerata tra governanti eletti dopo un periodo completo di mandato. A gennaio si arriva alle primarie: Jonathan si impone sullo sfidante con 2.736 voti contro 805. Sul piano internazionale, intanto, l’immagine di Jonathan si accredita ulteriormente grazie a Wikileaks. Il sito di Julian Assange rende pubblico un cablogramma in cui l’ex ambasciatore statunitense ad Abuja lo definisce un presidente “onesto” e “una personalità unica in cui ogni nigeriano della strada si può identificare”.
In vista delle elezioni di aprile, in cui in tre tornate si è votato anche per il rinnovo del parlamento e dei governatori, scendono in campo una ventina di candidati. Nonostante le risorse energetiche (primo produttore di petrolio in Africa, quinto fornitore degli Stati Uniti) e umane (oltre 150 milioni di abitanti e un’età inferiore ai 19 anni), il 70% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà, mentre lo Human Poverty Index colloca la Nigeria solo in 142° posizione sui 169 presi in considerazione. In questo Paese che non garantisce alcun servizio, neanche quelli basilari, tutti gli aspiranti premier promettono più energia per tutti, acqua corrente, infrastrutture, sicurezza, sanità, lavoro, istruzione.
Goodluck e Muhammadu.
Jonathan prospetta entro maggio una legge per ristrutturare l’industria del petrolio. Secondo il presidente il provvedimento faciliterebbe gli investimenti stranieri, ma per gli analisti verrebbero ridotti nettamente i profitti delle aziende petrolifere estere che ritornerebbero nelle mani dei cittadini nigeriani. E ancora, Jonathan annuncia una campagna di vaccinazione di massa contro la meningite, una delle patologie endemiche nazionali, che dalla seconda metà di quest’anno fino al 2013 interesserà 80 milioni di persone comprese tra i primi anni di vita e i 29 anni. In un recente rapporto mondiale sulla salute materno-infantile presentato da World Vision risulta che sono 9 milioni ogni anno i decessi dei bambini con meno di 5 anni e circa il 50% dei decessi infantili sono concentrati in cinque Paesi (India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan ed Etiopia), con la nazione africana più ricca di petrolio che figura al secondo posto.
Altra novità di Jonathan, sono le quote rosa. In caso di vittoria, annuncia in campagna elettorale, il suo nuovo governo sarà composto per il 35 per cento da donne. Identica quota sarà riservata ai nuovi posti di lavoro che verranno creati nei ministeri del governo centrale e nel corpo diplomatico.
I più accreditati antagonisti dell’esponente cristiano del Partito democratico popolare sono tre musulmani delle aree settentrionali: Nuhu Ribadu, giovane rappresentante dell’Action Congress of Nigeria (Acn) candidato sull’onda dei riconoscimenti ottenuti dal 2003 al 2007 quand’era a capo della commissione nazionale anti corruzione, Ibrahim Shekarau dell’All Nigeria People’s Party (Anpp) e il temibile Muhammadu Buhari del Congress for Progressive Change (Cpc).
Buhari, che con un colpo di stato militare ha guidato la Nigeria dal gennaio 1984 fino all’agosto dell’85, ha anch’egli combattuto la corruzione riempiendo le patrie galere di funzionari disonesti, ma si è distinto anche per aver imprigionato giornalisti e oppositori. Caduto in seguito a un altro golpe, dopo quaranta mesi di galera ha riottenuto la libertà e ha iniziato l’attività politica col sostegno di un’ala dell’esercito e delle fasce islamiche radicali del Nord.
Le elezioni.
Per garantire un’assoluta trasparenza, Jonathan ha affidato il compito alla Nigeria-electCommissione elettorale nazionale (Inec) dotata di ingenti risorse per renderla indipendente dal potere esecutivo. A presiederla è stato chiamato Attahiru Jega, noto intellettuale rispettato da maggioranza e opposizione. La commissione ha vagliato i nomi dei candidati, dettato la tempistica elettorale, allestito la macchina organizzativa, stilato un codice di comportamento per i concorrenti. Soprattutto ha svolto il compito impegnativo, in un Paese senza validi strumenti, di mappare la popolazione, catalogare e compilare le liste degli elettori. Un incarico delicato per assicurare un voto credibile e risultati condivisi. Alla fine, dopo numerose difficoltà e qualche dubbio, è stato un successo con la registrazione di 73,5 milioni di aventi diritto. Anche se il totale risulta ancora gonfiato, è stato cancellato un numero consistente di ‘falsi elettori’, con percentuali significative in alcuni Stati confederati che hanno dato conferme sui brogli del passato. Nelle 120mila sezioni elettorali sono scesi in campo circa 400mila scrutatori, reclutati tra membri del proprio staff, giovani laureati e studenti universitari protetti da circa 300mila agenti di sicurezza.
La crisi interna che il partito di governo ha vissuto negli ultimi due anni ha lasciato il segno, come testimoniano i risultati delle politiche, che hanno visto il Pdp ridurre la propria maggioranza parlamentare dal 77% a poco più del 50%.
Goodluck Jonathan si è imposto su Muhammadu Buhari con il 57% dei voti contro il 31% ottenuto dall’ex dittatore militare che inizialmente non ha voluto riconoscere la vittoria del rivale e poi ha presentato ricorso alla Commissione elettorale accusando di brogli il partito del presidente. Un voto che è apparso invece libero e trasparente alla maggior parte degli osservatori internazionali dell’Unione Africana, del Commonwealth, delle nazioni occidentali, tra cui l’Unione Europea, con il responsabile della politica estera, Catherine Ashton, che  ha lanciato un appello alla moderazione dopo l’esplosione delle violenze a Kano, città settentrionale della roccaforte di Buhari. Secondo la Ashton “queste elezioni sono un passo importante verso il consolidamento della democrazia nel Paese e dovrebbero portare a una migliore governabilità”.
L’ultima tornata chiusa in questi giorni ha visto un’avanzata dell’opposizione e un arretramento del People’s Democratic Party che ha perso due governatori nel Sud ma ha tenuto al Nord, dove è riuscito a riconquistare dopo diversi anni lo Stato di Kano, il più popoloso del settentrione. Ovunque l’affluenza è stata più bassa, pari al 35%, in parte dovuta alle violenze scoppiate dopo le presidenziali, giorno in cui si era recato alle urne quasi il 55% degli elettori.
Secondo la Nigeria Civil Rights Congress, una ong locale, il bilancio degli scontri è stato di oltre 500 morti (tra cui donne e bambini), centinaia di feriti (a colpi di machete o ustionati) e circa 74mila sfollati secondo la Croce Rossa, tra cui qualche migliaio nel Sud della nazione dove uomini e donne Hausa, l’etnia maggioritaria nel Nord, si è rifugiata nelle caserme per timore di rappresaglie e vendette. Per Muhammadu Buhari le violenze sono state spontanee e non orchestrate di proposito.
In un clima ancora teso, Jonathan cerca di placare gli animi, ha nominato come suo vice Namadi Sambo, architetto di 56 anni, un musulmano del nord, e ha incassato un’altra vittoria: la credibilità delle elezioni. Lui, uno Ijaw, etnia minoritaria a livello nazionale, ma preponderante nello Stato più ricco di petrolio, dovrà ora varare le riforme promesse, prima fra tutte quella sull’estrazione dell’oro nero. Dagli anni Cinquanta a oggi la Nigeria ha incassato circa 600 miliardi di dollari, proventi dallo sfruttamento delle risorse energetiche. Il Paese ne ha beneficiato solo in minima percentuale, il grosso è finito in conti cifrati all’estero. Forse, però, sta per iniziare una nuova stagione, meno corrotta e più democratica. (II. Fine. La I parte è stata pubblicata il 22 aprile)

 

Africa_bomber_cover 

In allegato, il terzo capitolo di Africa bomber (Add editore) in cui Kalas Ngeri, un giovane calciatore nigeriano, cristiano, attivista politico non violento del Massob, racconta in una lunga intervista rilasciata a Goffredo De Pascale la sua fuga nel 2007 per evitare l’arresto per reati non commessi e il suo arrivo in Italia dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico e ha potuto riprendere a giocare a calcio.


Africa bomber

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