Il tema della responsabilità disciplinare dei magistrati è una materia che, non meno che le altre riguardanti la riforma della giustizia, è oggetto di una lettura diametralmente opposta della realtà da parte dei protagonisti del dibattito.

Secondo l’ANM il sistema disciplinare dei magistrati italiani è all’avanguardia in Europa. A favore di questa tesi si indicano i dati comparativi con gli altri paesi europei e, sia pure con alcune forzature di cui si dirà in seguito, quelli riguardanti altre categorie professionali. A leggere i dati che sono stati indicati nel corso dell’ultimo congresso dell’ANM con le 46 sanzioni disciplinari applicate nel corso dell’anno 2008 l’Italia si sarebbe collocata al 5° posto tra le nazioni europee per numero di sanzioni inflitte in quell’anno, mentre le 173 procedure disciplinari aperte nello stesso periodo avrebbero situato il nostro Paese al 2° posto nella ideale graduatoria del rigore disciplinare.
Ancora, l’efficienza del sistema disciplinare sarebbe vieppiù testimoniata dal fatto che, dal 1999 al 2008, sono risultati pendenti, al 1° gennaio di ogni anno, una media di 98 procedimenti (per un totale in dieci anni di 981). Come è noto fin dai tempi di Trilussa le statistiche, anche quando riportano dati corretti, offrono sempre un certo margine di opinabilità.
A scorrere più nel dettaglio gli stessi dati riferiti dal sindacato dei magistrati si scopre, infatti, che il rigore è più apparente che reale.
Al di là del fatto che non viene indicato il punto di partenza, cioè il numero degli esposti presentati dai cittadini nello stesso periodo di tempo, risulta dagli stessi numeri riferiti dall’ANM che nel medesimo intervallo decennale le condanne in sede disciplinare sono state solo 267, di cui più della metà, 157, costituite dalla sanzione minima dell’ammonimento, e 53 a quella di poco più grave della censura.
In dieci anni solo 9 magistrati sono stati condannati alla più rilevante sanzione della rimozione e per uno solo è stata inflitta quella della incapacità a ad esercitare funzioni direttive, mentre le assoluzioni sono state quasi il doppio delle condanne.
Sarà per questo motivo che alcuni studiosi, come Giuseppe Di Federico e Daniela Cavallini, dopo aver analizzato il sistema disciplinare della magistratura italiana sono giunti a conclusioni del tutto opposte. Di diverso parere, peraltro, si sono dimostrate anche le opinioni di taluni commentatori non certo sospetti di inimicizia verso la magistratura, come Giovanni Bianconi o Luigi Ferrarella. Il primo ha analizzato, all’inizio del 2008, i dati relativi all’anno precedente, compreso quello non incluso nelle prese di posizione dell’ANM relativo al numero degli esposti presentati, verificando che in un solo anno, il 2007, la Procura Generale presso la Corte di Cassazione, cioè l’organo che ha la titolarità dell’azione disciplinare, su 1.479 pratiche esaminate ha esercitato l’azione in 103 casi. In pratica nel 93 per cento del totale l’azione disciplinare non è neppure iniziata. Stessa storia nel 2008, quando su 1.475 fascicoli esaminati dalla Procura Generale solo 99 sono stati trasferiti a Palazzo dei Marescialli.
Da parte sua Ferrarella ha invece sottolineato che “Sotto i colpi delle degenerazioni delle correnti, è venuta meno la credibilità di una giustizia disciplinare domestica, cioè auto amministrata. Una giustizia non sempre trasparente, che nell’immaginario collettivo è diventata sistema di protezione corporativa, di costante autoassoluzione, quindi di sostanziale impunità”.
Gli appunti che vengono mossi al sistema disciplinare dei magistrati sono di due tipi. Da un lato si contesta in assoluto un eccesso di benevolenza e una scarsa efficienza dovuta alla comune appartenenza al medesimo ordine, critica che per il vero è generalmente riferita a tutte le giurisdizioni domestiche delle diverse categorie professionali, avvocati, giornalisti, medici etc; d’altro lato si contesta anche il condizionamento in materia disciplinare operato dal sistema delle correnti interne della magistratura. Va evidenziato che, quanto alla prima critica, i magistrati si difendono sostenendo che una comparazione con i dati dei sistemi disciplinari delle altre professioni dimostra il maggior rigore del proprio rispetto a tutti gli altre.
Per arrivare a questa conclusione, per la verità, i rappresentanti di ANM operano comparazioni a volte forzate. Nel caso degli avvocati, ad esempio, si mette a confronto il numero degli avvocati nel 2008 (198000), tratto dagli elenchi dei Consigli dell’Ordine, con il numero dei procedimenti definiti dal CNF (408), per concludere che solo il 2 per mille degli avvocati sarebbero stati oggetto di procedura disciplinare a fronte della percentuale molto superiore riguardante i magistrati. Se non che la comparazione viene fatta con i procedimenti definiti in sede di appello dal CNF, non con quelli aperti e definiti dai Consigli dell’Ordine territoriali, e dunque risulta ben poco calzante poiché fondata sull’analisi di dati non omogenei.
Questo si dice, sia chiaro, senza alcuna volontà di sostenere che il sistema disciplinare dell’avvocatura sia un modello di virtù, al contrario deve anch’esso essere riformato, affidandolo, per lo meno in secondo grado, ad una autorità esterna.
Il problema principale rispetto a tali argomenti, però, è che la stessa logica semplicisticamente riconvenzionale su cui si basano si dimostra intimamente incoerente: se gli altri sistemi disciplinari in ipotesi funzionassero in maniera insoddisfacente ciò non assolverebbe quello dei magistrati. Anche perché, per il grado di indipendenza che gli è accordato, oltre che per la delicatezza della funzione, si dovrebbe comunque pretendere dall’ordine dei magistrati il massimo rigore nella verifica del comportamento deontologico al proprio interno. In realtà il tema della possibile modifica dell’attuale sistema non è nuovo, giacché venne affrontato nel corso dei lavori della Bicamerale, mentre ipotesi di profonda rinnovazione sono state giudicate necessarie più recentemente pure da altri osservatori come Luciano Violante.
Anche l’Unione delle Camere Penali, attraverso l’elaborazione del Centro Studi Aldo Marongiu, negli anni scorsi è intervenuta al riguardo ipotizzando, all’interno di una ipotesi di riforma strutturale del CSM, la creazione di una Alta Corte di Disciplina competente per i procedimenti disciplinari dei magistrati in primo grado e per quelli riguardanti gli avvocati in grado di appello.
Le proposte che in tutti questi casi sono state avanzate corrispondono grandi linee a quella recentemente approvata dal Governo che prevede la istituzione di un autonomo organo di Giustizia, esterno rispetto al CSM, nelle forme di una Corte disciplinare costituita da magistrati, oltre che da esperti di materie giuridiche, in parte designati dalla magistratura stessa in parte dal parlamento.
Un organismo esterno rispetto al CSM avrebbe il pregio di rendere l’autorità disciplinare svincolata dal rapporto elettorale che lega i membri togati dell’organo di governo autonomo ai singoli magistrati ed in ultima analisi maggiormente effettivo il giudizio disciplinare. Ovviamente la materia non deve essere trattata alla stregua di una rivalsa nei confronti della magistratura, ma anzi rispettando il bene costituzionalmente garantito della indipendenza, e pertanto selezionando i candidati di provenienza esterna non in base alla appartenenza politica, ma in forza di una riconosciuta esperienza professionale di altissimo livello. Su questo tema, come per la verità su tutti gli altri relativi alla ipotesi di riforma costituzionale riguardanti la giustizia, occorrerebbe uscire dalla logica delle contrapposizione sorda e dalla propaganda, per discutere con serietà, senza spirito di rivalsa da una parte e chiusure corporative dall’altra.

*Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane

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