La possibile privatizzazione del servizio idrico nelle città italiane continua a chiamare sul palco oratori, opinionisti, esperti, tribuni, demagoghi e starnazzanti tuttologi gratificati dalla falsa democrazia della Rete.
Mario Tozzi, intervenuto invece con un equilibrato commento sulla Stampa del 25 novembre, è un ottimo geologo e un valentissimo divulgatore. Negli ultimi anni è stato giustamente valorizzato da programmi televisivi, radiofonici e da alcune testate giornalistiche che – finalmente – hanno deciso che di ambiente, in senso lato, dovesse parlare chi ne capisce e non chi ci specula politicamente o peggio. Il rischio che, affascinato dai riflettori e dalla lucina rossa sulla telecamera, anche chi ci capisce diventi un “parlatore” di professione, è marginale. Anche se, in parte, si è verificato.
Parlando dell’acqua, non quella calda, nel senso di economia legata all’acqua, le considerazioni di Mario Tozzi sono tutte condivisibili. In astratto. In concreto, la componente di parlatore professionale gli ha fatto dimenticare uno dei capisaldi della scienza (egli è anzitutto scienziato): l’osservazione empirica.
Ancora una volta il ragionamento, ossia le deduzioni basate sull’osservazione (anche Isaac Newton scoprì così la teoria gravitazionale), è stato lasciato a metà o non è cominciato per nulla.
Proviamo a chiarire: un conto è la situazione specifica dell’Italia, altro è la drammatica situazione dei Paesi cosiddetti del terzo mondo, altro ancora è lo scenario nel resto del mondo (il primo o il secondo poco importa).
E’ forse il caso di ribadire che le tante parole che si accumulano in questi giorni sono legate alla prospettiva – italiana – di una possibile privatizzazione del servizio di distribuzione dell’acqua potabile. Ragioniamo allora sulla situazione italiana. E per farlo non ha senso chiamare in causa i popoli che muoiono di sete. Ciò non vuol dire ignorare il problema o mostrarsi indifferenti: è semplicemente un altro problema, diverso. Per il quale bisogna battersi con tutte le nostre forze, nei modi costruttivi, ma rispetto al quale la legge italiana (il decreto Ronchi) non cambia assolutamente nulla. Anche se tutte le amministrazioni locali italiane decidessero di affidare ai privati l’acqua di noi tutti, chi muore di sete continuerà a morire, se non facciamo – collettivamente, politicamente e internazionalmente – nulla per evitarlo. E al contrario, anche se destituissimo Ronchi, lo esiliassimo su un’isola deserta e bruciassimo tutte le leggi che ha sottoscritto, anche in tal caso questo solo fatto, pur violento e traumatico, non cambierebbe di una virgola la situazione di quei popoli. Utilizzare la mancanza d’acqua che annienta oltre un terzo della popolazione terrestre per stabilire se la prospettiva italiana è giusta o sbagliata, foriera di rischi e quali, finisce per essere una strumentalizzazione. Stupida e inutile. Stupida perché inutile.
Tozzi sottolinea, sostanzialmente, due punti. Il primo, come sempre, è rappresentato dagli effetti diabolici di una perniciosa privatizzazione della distribuzione idrica. Il secondo (Tozzi è uomo intelligente) prende atto della circostanza che portare l’acqua nelle case, e prima ancora renderla potabile, ha un costo e dunque è giusto pagare qualcosa, sebbene l’acqua sia un bene inestimabile e di tale superiore interesse che in teoria dovrebbe essere garantita gratis. Infine pone un corollario: gratis del tutto non è possibile ma in nome dell’interesse pubblico bisognerebbe garantirne una certa quantità gratis a ciascuno ogni giorno. E questa quantità la suggerisce: 50 litri al giorno.
Andiamo con ordine e partiamo dal primo punto: i privati (lo abbiamo visto, dice, in altri casi, anche all’estero) significano qualità di servizi immutata ma tariffe alle stelle. Una drammatica ma ovvia conseguenza, si dice, per assicurare il guadagno, unica ragione di vita dell’impresa privata, speculando sul fatto che il valore del bene “acqua” non ha prezzo e dunque, paradossalmente, non c’è limite all’aumento possibile dei costi atteso che nessuno può, comunque, farne a meno. In pratica, è l’estremizzazione (Tozzi questo non lo dice perché è geologo e non economista) di una regola individuata da Keynes: la legge dell’utilità marginale.
Il punto di arrivo di questo paradosso è, lascia intendere Tozzi, la morte per sete. Dunque la conclusione, inespressa ma evocata: affidiamo l’acqua ai privati e moriremo tutti di sete. La minaccia è suggestiva però, anzitutto, poco realistica.
Se è vero che i privati vogliono fare i soldi (per dirla banalmente) e comportarsi come lo sceriffo di Nottingham nella favola di Robin Hood, che spremeva i poveri contadini fino all’osso per riscuotere sempre più tasse e ingrassare il perfido Principe Giovanni, nella realtà non funziona. Ammesso che tutti paghino l’acqua puntualmente nonostante le mostruose tariffe, ad un certo punto – in pochi decenni, che sono appunto pochi rispetto alle prospettive almeno trentennali di guadagno dei futuribili privati – nessuno avrebbe più nulla da pagare. Le popolazioni di città, comuni e metropoli si trascinerebbero assetate da una strada all’altra, i giardini, anche quelli comunali, rinsecchirebbero, migliaia di attività anche industriali che non possono fare a meno dell’acqua fallirebbero e l’effetto finale sarebbe assai simile a quello di una guerra termonucleare globale (per citare un famoso e divertente film che vi sfido a ricordare). E i privati, signori dell’acqua, sarebbero “padroni” (fino a un certo punto, perché la legge dice che la proprietà resta pubblica) di miliardi di litri di un liquido che nessuno è più in grado di acquistare perché sono stati tutti affamati (anzi, assetati) da una dissennata politica delle tariffe.
Sempre gli economisti, invece, ci insegnano che il valore di un bene, anche di un semplice tappo di sughero, non è tanto intrinseco quanto nella sua commerciabilità.
Se una persona possedesse tutto l’oro del mondo e pretendesse quattro volte tutto l’oro del mondo per venderne anche un solo grammo, di fatto morirebbe di fame. Sebbene circondato dall’oro. Perché nessuno sarebbe in grado di pagare il prezzo richiesto. Si troverebbe nella stessa situazione, quanto a capacità di produrre ricchezza, del più povero dei poveri.
Gli storici, i sociologi, i politologi, e anche gli economisti (non riusciamo a liberarci degli economisti) ci insegnano inoltre che la differenza tra il villaggio di Nottingham e il mondo reale risiede nella capacità di quest’ultimo di creare dei meccanismi di autocontrollo. Non è questo il momento di ricordare il difficile e mai risolto del tutto dibattito (in dottrina e filosofia economica) sulla capacità del libero mercato di autogovernarsi. Pur dimostrando la storia, per chi la leggesse, i limiti incontrati da coloro che hanno provato a sostituirlo (il libero mercato, sostenuto ad esempio dalla scuola fisiocratica di Adam Smith), con altre forme di governo dell’economia fino ad arrivare al protezionismo e al monetarismo, è senz’altro vero che il totale liberismo presenta svantaggi (molti) e rischi (ancora di più). Negli ultimi cinquant’anni (dunque un periodo che anche Tozzi conosce bene) si è giunti alla conclusione – perfettibile, come sempre, ma per ora pare abbastanza accreditata – che è preferibile un liberismo etero guidato, o controllato, da strutture di controllo nazionali e sovranazionali che provvedano a mitigarne le esasperazioni.
Abbiamo già ricordato (ma perché nessuno ne parla, nemmeno nei commenti ai tanti blog?) le commissioni di garanzia che intervengono sulle tariffe elettriche, su quelle del gas e perfino sui costi telefonici, delle autostrade, delle ferrovie e dei giornali quotidiani. Tutti servizi, in sostanza, pubblici – nel senso quanto meno di pubblico interesse – che sono però, da decenni, gestiti da privati o perché privatizzati (come l’energia elettrica o il gas) o perché nati ad opera dei privati (come i telefoni).
Ad una ipotetica banda di masnadieri privati che messe le mani sull’acqua cominciasse a comportarsi come Lex Luthor, il cattivo di nemico di Superman, o come Joker il nemico di Batman che vuole impadronirsi di Gotham City, perfino le nostre Authority, le authority all’italiana, riuscirebbero a rispondere. Forse un po’ lentamente, in modo non sempre incisivo (come fanno con le assicurazioni, i cartelli dei produttori di pasta e così via) ma pur sempre risponderebbero obbligandoli a non esagerare. Anche perché, in questo caso, si spera che il tanto ciarliero popolo della Rete una volta tanto alzi il culo dalla sedia davanti al video per fare qualcosa di più concreto. E non cominciate a dire che tanto il popolo nessuno lo ascolta: se così fosse perché state parlando da un mese? Con quale prospettiva? Per dare aria alla bocca? Evidentemente perché ritenete che possa servire. Bene: può servire. A patto però che si dicano cose sensate e fattibili, qualcosa che non fa parte delle favole di Robin Hood o di Superman ma che, per fortuna, può far parte della realtà. E che non sia un ridicolo girotondo o affollarsi in uno stadio per applaudire un comico che trova remunerativo fingere di essere un tribuno della plebe.
Insomma: a proposito della legge italiana – che come abbiamo detto non è la migliore del mondo ma nemmeno il diavolo in persona con forcone e coda a punta – cosa ci sarebbe di male a introdurre, con i decreti attuativi, una regolamentazione della tariffe in modo che gli aumenti non siano esposti agli umori (banditeschi) di questo o quel privato?
Credo che sia molto più produttivo lottare affinché si raggiunga questo obiettivo – che nessuno può definire impossibile o contrario allo spirito della legge – piuttosto che parlare di un’abrogazione che, finché saranno questi i numeri in parlamento (numeri voluti da quella stessa massa che poi scrive e parla, o muove le braccia e dice “mamma”, come le bambole di una volta), sarà ben difficile ottenere, col risultato che mentre si parla di cose inutili e irrealizzabili non si tenta nemmeno di lavorare per quelle utili e possibili.
Sempre per restare al problema italiano, senza (di)vagare in mezzo mondo assetato, se il catastrofico scenario immaginato da Mario Tozzi dovesse verificarsi, e le tariffe balzare alle stelle senza che nessuna commissione di controllo o garanzia possa o debba intervenire, in Italia chi non paga l’acqua – per giurisprudenza anche della Corte costituzionale – non può vedersene privato del tutto. Anche per l’energia elettrica è così. Lo abbiamo già detto e anche su questo punto nessuno che abbia osservato alcunché. Dunque questi pirati privati si troverebbero con crediti non riscossi ma senza la possibilità di assetare (scusatemi il neologismo) nessuno. Per non parlare delle fabbriche, degli uffici, anche pubblici: se le tariffe vanno alle stelle mica ci andranno solo per i privati, per la casetta della povera vecchina che deve farsi il brodo di pollo? Vi immaginate le palestre e le piscine comunali, le scuole, le caserme, i ministeri, i tribunali, le forze dell’ordine che pagano milioni di euro per far piacere a Lex Luthor signore e padrone dell’acqua? E vi immaginate la acciaierie, le fonderie, l’industria siderurgica con i suoi sindacati e la sua Confindustria, i palazzinari, i grandi magazzini, le catene degli alberghi, i ristoranti? Per non parlare degli interessi dei grandi gruppi stranieri in Italia. Provateci voi a dire agli Hilton, quelli degli alberghi e della bella Paris, che i costi dell’acqua sono improvvisamente triplicati. Quelli non si limitano a chiedere il favore al furbetto del quartierino: scatenano una guerra commerciale globale, altro che termonucleare. E allora sì che interviene l’Europa e gli altri organi sovranazionali. Eccolo il meccanismo autoregolatore, anche se a beneficio immediato dei più ricchi, del liberismo. Eccola la differenza tra la foresta di Sherwood delle favole e la realtà, la stessa dove vive Mario Tozzi. Se i privati facessero carne da macello con l’acqua in un Paese dall’economia e dalla società complessa e intrecciata con altri Paesi altre economie e altre società, il “narratore” non sarebbe libero di gestire la favola come vuole lui. E il tanto agognato guadagno dei privati andrebbe e farsi benedire.
A questo proposito non si può dimenticare un altro aspetto, anch’esso reale. Una legge che dice ai comuni di bandire le gare per gestire l’acqua non è garanzia che a quelle gare partecipino privati tutti contenti fregandosi le mani assaporando la pioggia di milioni che ne deriverà. Se la società civile (come amano chiamarla alcuni) invece di starnazzare su argomenti ininfluenti facesse capire chiaramente che non è disposta a tollerare scherzi, anche i privati ci penserebbero prima di accogliere a braccia aperte l’incarico di distribuire l’acqua. Si arriverebbe così ad una selezione tra i privati e, seguendo uno schema quasi darwiniano, si potrebbe anche ottenere che il servizio venga gestito bene. Non è mica impossibile. Non fidarsi in modo preconcetto dei privati vuol dire – evidentemente pochi lo capiscono – non fidarsi nemmeno del vicino di casa, del cugino e forse anche del padre. Infine, non dimentichiamo neppure che, sempre la stessa legge, prevede che le società di gestione, private, possano avere fino al 60 per cento di capitale pubblico. In qualunque società, anche in Italia, chi possiede il 60 per cento ha diritto a intervenire nelle decisioni. E allora, ancora una volta, invece di starnazzare genericamente contro la legge facciamo valere il nostro potere di cittadini affinché il pubblico eserciti questo diritto a conservare il 60 per cento delle azioni delle società di gestione dell’acqua.
Ricordo, l’ho già detto ma anche qui nessuno che abbia osservato nulla, che a Roma, ad esempio, già da anni l’acqua è gestita da una società privata dove il 51 per cento – dunque meno del 60 – è nelle mani del comune. Il resto è di palazzinari e banchieri. Non mi sembra che le strade di Roma siano affollate di assetati.
E veniamo al secondo punto di Tozzi: è giusto pagare l’acqua ma più giusto ancora sarebbe che il pubblico la desse via gratis (l’acqua) e dunque almeno che assicuri una dose giornaliera, 50 litri, gratis.
Anche qui Tozzi (anche gli altri ma per uno scienziato è più grave) mostra di non aver speso nemmeno un minuto nell’osservazione.
Osserviamo la fattura di un qualunque acquedotto (anche tra i tanti privati che già ci sono). Per comodità (mia: concedetemelo) ho preso la bolletta dell’Acquedotto Lucano (ho una casa a Maratea). Nella specifica dei costi è, appunto, specificato che i prezzi sono legati a quattro blocchi di consumo diversi: tariffa agevolata, tariffa base, tariffa prima eccedenza, tariffa seconda eccedenza. Ogni blocco comprende una quantità predeterminata di metri cubi, ad eccezione dell’ultimo, il più caro, che può andare all’infinito.
In pratica la “politica dell’acqua” prevede che tutti abbiano diritto ad una prima “dose” a tariffa agevolata (un po’ come il 6 politico del Sessantotto): per i primi 33 metri cubi consumati ogni metro cubo – cioè mille litri – costa 52 centesimi di euro. Il prezzo per metro cubo della tariffa base sale a 0,66 centesimi e in questo scaglione rientrano altri 16 metri cubi, la prima eccedenza costa 1 euro e 5 centesimi ogni mille litri e questa fascia si esaurisce con altri 33 metri cubi, per arrivare alla quarta fascia con 1,62 euro a metro cubo. A questi costi vanno poi aggiunte quote fisse regionali, quote fognature, quote depurazioni, Iva, tasse locali eccetera tanto che, sempre per l’Acquedotto Lucano, si arriva quasi a 2 euro a metro cubo di media (223 metri cubi in 4 mesi tra agevolata, base, prima e seconda eccedenza e tasse costano 445,17 euro, dunque oltre 100 euro al mese di acqua, alla faccia dei privati).
Ma torniamo all’idea, ottima e condivisibile, di 50 litri d’acqua gratis al giorno per ciascuno. Con la tariffa agevolata dell’Acquedotto Lucano mille litri costano 52 centesimi. Dunque un litro costa 0,00052 euro. Detto in lire, che è più facile, un litro d’acqua costa 1 lira. Per 50 litri al giorno, cioè 1500 litri al mese, un cittadino lucano paga 1500 lire, ossia 77 centesimi di euro. Insomma: la proposta di Mario Tozzi è già, virtualmente, una realtà: con 77 centesimi al mese – 2 centesimi e mezzo al giorno – un italiano si assicura ogni giorno 50 litri di acqua potabile direttamente nel suo rubinetto. Anzi, se è ricco e può permettersi di spendere per l’acqua 52 centesimi al giorno invece di 77 al mese, in cambio è libero di consumare mille litri ogni 24 ore. Siccome però dormirà almeno 7 ore su 24, nel tempo che è sveglio può consumare 58 litri d’acqua ogni ora. Sempre per gli stessi 52 centesimi al mese.
Purtroppo però poi ci sono le tasse, le “accise”, l’Iva, le quote regionali, quelle federaliste, l’acqua del Po e le camice verdi, le siccità, le frane, i tubi che scoppiano, la pressione bassa, l’acqua inquinata. E poi i milioni di bambini dell’Africa che muoiono per mancanza d’acqua. E ancora il rischio che le amministrazioni locali italiane, e la politica italiana, non esercitino i dovuti controlli sugli impianti di distribuzione idrica, pubblici o privati che siano. Ma questi problemi non mi sembra siano collegati, né direttamente né indirettamente, al decreto Ronchi e all’acqua privatizzata in Italia. Sono tuttavia problemi molto gravi. Perché non proviamo a parlarne?