Il determinismo, nato da una costola del positivismo, è, in sostanza, la tesi filosofica secondo la quale tutto ciò che accade è determinato in modo causale da una catena di eventi precedenti. La tesi viene sostenuta per primo da Democrito e ripresa, tra gli altri, da Hobbes, Spinoza, Hume, Kant, Laplace fino al contemporaneo John Searle. La principale conseguenza del determinismo è la negazione del libero arbitrio. O meglio la trasformazione del libero arbitrio in illusione. O meglio ancora, dico io, la riduzione dello “spazio di manovra” del libero arbitrio.
A questo proposito bisogna ricordare che la contrapposizione determinismo-libero arbitrio è stata da molti “smussata”. Proprio Hume, che rientrava nella categoria dei pensatori “compatibilisti”, riteneva che se è vero che l’uomo non possa formare liberamente (cioè indipendentemente dal contesto) i propri desideri e convinzioni, è però anche vero che l’interpretazione della libertà, o del libero arbitrio, va collegata alla possibilità di tradurre quei desideri e convinzioni in azioni volontarie.
Il determinismo costituisce la base del materialismo storico e ha rivestito per Marx grande importanza negli studi dei fenomeni economici. Ma ha inciso anche, molto profondamente, sulla psicanalisi di Freud. Secondo il quale infatti esiste un determinismo psichico. Ossia l’insieme dei processi inconsci che influiscono sulle azioni dell’uomo considerate, invece, libere e coscienti.
La crisi del determinismo si è prodotta all’inizio del 900 in seguito al fatto che la tesi era stata nel frattempo esportata al campo delle scienze e della fisica. In nome del determinismo si riteneva che bisognasse escludere il caso anche per tutti i fenomeni di tipo fisico: tutto era ricondotto alla catena di relazioni causa-effetto. Negli anni Venti del 900 gli studi sulla meccanica quantistica che seguirono, in parte completarono e in parte corressero la teoria della relatività di Einstein, dimostrarono semplicemente che non è vero che nel mondo della fisica vale solo la regola determinista causa-effetto. Addirittura, nel 1927, il fisico tedesco Heisenberg (premio Nobel nel 1932) dimostrò il “Principio di Indeterminazione”, naturalmente riferito alla fisica (non dimentichiamo che la teoria della relatività si divide in due parti, relatività ristretta e relatività generale, rispettivamente pubblicate da Einstein nel 1905 e nel 1912).
Questo rappresentò un duro colpo al determinismo, che trascinò a fondo anche la parte della tesi – secondo me invece ancora assolutamente valida – riguardante la sociologia e i comportamenti umani (non a caso perfino lo scrittore Cesare Pavese, anche senza riferirsi in alcun modo alle teorie deterministe, affermò però che, nella storia dell’uomo, “gli errori sono sempre iniziali”).
Il principio di indeterminazione fu però, diciamo così, esportato – anche a scopi propagandistici dalla chiesa – al di fuori della sede nel quale era nato: la fisica. E cominciò ad essere utilizzato per mettere in crisi la fiducia nella scienza (con la scusa che il cosiddetto dogma scientista era fallito) e addirittura servì come nuovo trampolino per sette pseudo-spiritualiste e pseudo-religiose e perfino per rilanciare, sempre ad opera della chiesa – soprattutto nei Paesi anglosassoni dove più forte era l’influenza della scienza – nuove teorie creazioniste in contrapposizione con l’evoluzionismo di Darwin.
Il materialismo storico è invece un concetto introdotto da Engles sul quale si fonda l’analisi di Marx della storia della società umana. Sulla scorta dei concetti deterministi, Marx considera, appunto, determinanti per lo sviluppo della storia umana e per la creazione di un ordine sociale diversi fattori materiali, tecnologici e economici. Contrariamente a ciò che ritenevano coloro che si definivano “idealisti”, per i quali alla base dell’evoluzione della storia vi sarebbero la politica, la filosofia, l’arte e la religione. Tutte manifestazioni dell’uomo che invece secondo Marx sono a loro volta, per così dire, necessitate tanto che vengono chiamate elementi sovrastrutturali.
E’ evidente che mentre Marx utilizzava il materialismo storico per far quadrare le sue tesi sul capitalismo, sulla produzione, sulla distribuzione della ricchezza e sulla lotta di classe, c’è un punto, che anche Marx evidenzia, che secondo me resta immutato e immutabile: la storia è anzitutto il risultato dell’azione delle condizioni sociali sull’uomo, ossia dell’insostituibile influenza del contesto, e dunque del passato; e solo successivamente è il risultato dell’azione dell’uomo sulle condizioni sociali. In sostanza: l’uomo incide sulle condizioni sociali soltanto nella misura in cui le stesse condizioni sociali glielo consentono.