Si è rivista alla Scala la Chovanščina di Musorgskij, in un nuovo allestimento firmato da Mario Martone, un vero evento in un paese dove ormai tutti i teatri d’opera puntano su titoli italiani, e solo su quelli più noti. E non per un’ideale nazionalista, o per seguire le mode sovraniste, solo per pigrizia.

 

Sul podio c’era Valery Gergiev, che aveva diretto Chovanščina alla Scala già nel 1998, e, rispetto ad allora, la sua lettura è parsa più leggera e ricca di sfumature timbriche, di dettagli espressivi. Dimostrava comunque di avere nel sangue questa musica, dalla drammaturgia complessa, fatta di pannelli giustapposti, senza sviluppi e transizioni in senso tradizionale, con una scrittura ruvida, che slitta tra atmosfere diverse, dove si alternano pagine quasi cameristiche e poderosi affreschi corali. Gergiev ne ha colto la dimensione tragica, mantenendo alta la temperatura drammatica, sottolineando anche i forti contrasti, le tensioni belliche, ma con un’orchestra sempre trasparente, che diventava anche sinistra e carica di mistero (per esempio nella profezia di Marfa), che offriva pennellate paesaggistiche, che sottolineava gli episodi intrisi di melos slavo, soprattutto in alcuni squarci corali (come il canto nostalgico delle contadine).
Anche il cast, tutto russo, si è dimostrato a proprio agio in quest’opera. Il tracotante principe Ivan Chovanskij, capo degli strel’cy era Mikhail Petrenko, basso imperioso sia nella voce che nel gesto. Caratteri più espressivi e ricchi di sfumature erano quelli della raskol’nica Marfa e di Dosifej: l’esperta Ekaterina Semenchuk rendeva bene la calma ipnotica, misteriosa, trasognata della donna (anche per i tempi comodi staccati da Gergiev nelle sue arie), ma la voce risultava un po’ sbiadita; Stanislav Trofimov interpretava invece il ruolo del capo dei raskol’niki, con una voce pastosa, un fraseggiare solenne e sempre “cantato”, senza mai deviare sul parlato. Resi con finezza anche i due personaggi più ingenui (definiti «stupidi» da Musorgskij), Emma e Andrej Chovànskij: Evgenia Muraveva interpretava l’impervia parte della fanciulla del quartiere tedesco con una voce sicura, potente anche negli acuti; il tenore Sergei Skorokhodov coglieva con naturalezza l’impeto e i tormenti del giovane principe. Ben calati nei rispettivi ruoli erano anche il diplomatico Golicyn di Evgeny Akimov, il minaccioso boiaro Šaklovitij di Alexey Markov, il lagnoso scriba di Maxim Paster, l’aggressiva, ostinata Susanna di Irina Vashchenko. Pilastro portante dell’opera, il coro diretto da Bruno Casoni, dava voce egregiamente a diversi gruppi: la soldataglia degli strel’cy, le mogli esasperate, le contadine, i moscoviti, i vecchi credenti, la guardia di Pietro il Grande.
La trama di potere raccontata nei cinque atti di Chovanščina è un affresco epico sulla storia politica e sociale della Russia del XVII secolo, imperniata sulla rivolta dei Vecchi Credenti, guidati dal principe Chovanskij, contro le spinte innovatrici di Pietro il Grande. Questa intricata vicenda è stata rivisitata da Martone (scene di Margerita Palli, costumi di Ursula Patzak) con una regia un po’ disomogenea, che tentava di attualizzare quei fatti remoti, proiettandoli anzi nel futuro: «Volevo restare nella storia, ma come riflessa in uno specchio distopico, che si svolgesse in un tempo futuro. Futuro rispetto alle vicende di Pietro il Grande, futuro rispetto all’Ottocento in cui Musorgskij scriveva l’opera ma anche futuro rispetto a noi che lo ascoltiamo oggi. Il conflitto tragico individuale e collettivo è quel che accade in Chovanščina e in un certo senso è quel che sta accadendo anche a noi». Ne risultava una narrazione sempre intrisa di violenza, ma che spaziava tra dimensioni incongruenti, non solo tra loro, ma anche rispetto allo stile molto tradizionale della recitazione dei personaggi e dei movimenti delle masse. Si andava dall’ambientazione postatomica del primo atto, un po’ Blade Runner, sullo sfondo di una città fantasma, piena di macerie, e di un cielo grigio, fumoso, attraversato da piccole astronavi e da fari lampeggianti; agli interni decadenti della casa di Golicyn, protetta da un cordone di polizia; al quartiere degli strel’cy come un porto immerso nella neve, dal quale emergeva un sottomarino, nero, gigantesco, inquietante; alla lap-dance in casa di Ivan Chovanskij, una coreografia un po’ da avanspettacolo, un po’ sado-maso, come una specie di sogno erotico che si trasforma in incubo e nell’omicidio del principe; alle apparizioni dell’elegante reggente Sof’ja, coi due fratellini (uno dei quali destinato a diventare Pietro il Grande); alla la troupe televisiva che riprendeva il coro delle contadine; all’esecuzione in stile Isis degli strel’cy (che venivano fatti inginocchiare e poi sgozzati con lunghi coltellacci); al suicidio di massa dei vecchi credenti, trasformato in una scena (davvero spettacolare) modellata sul finale di Melancholia di Lars von Trier, con un grande pianeta che si avvicinava trasformandosi in un enorme globo di fuoco che incendiava il palcoscenico.

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